lunedì 16 dicembre 2013

Move On

E pensi che la cosa mi scalfisca più di tanto? Un'altra donna, tra le lande desolate delle sue sicurezze, nel noioso, monotono, amaro ed edulcorato cammino della propria esistenza; vituperata da sé stessa. Un messaggio fugace, giusto per capire se é proprio vero che sí, sono stato cancellato. E con me, con la mia presenza ingombrante, con i richiami della mia figura, tutto ció che ne compete. Oggi, come ieri, e domani, nessuno sforzo supplementare. Ero lí, mia piccola amica, ero lí per farti capire che le cose nuove diventeranno vecchie. Ma non solo per te. Tieniti pure le tue luci di Natale, il tuo candore fittizio, I peli da scovare negli angoli piú remoti del salone, la spazzatura sotto il letto. Quel letto. I Ragazzi Persi mi hanno insegnato, bontá loro, che la cosa piú ovvia da fare é guardare davanti, seguitare agevolmente nella scrittura di un'epigrafe che ha da venire, fino a quando ci sará ancora questa tastiera di fronte, queste parole da inventare. Si volta pagina, come ieri e come sempre; si cambia prospettiva, e si distoglie lo sguardo, unitamente alla consapevolezza che lo stesso dovrá posarsi da un'altra parte. Germoglia un fiorellino dalle parti di Coventry, germoglia artistico e fiammante, pensieroso e premurosamente impertinente. Germoglia testardo e sublime, dentro la mia testa, dentro le mie capacitá di farmi splendido; dentro le mie incapacitá di essere coerente. Ma ci provo, piccolo fiore che germoglia dalle parti di Coventry. Una strada amica mi accompagna, adesso so come assecondare il mio respiro; le beghe di pochi mesi fa sono andate via con la bruttura che si portavano dietro. C'é una cuffia in piú nella mia stanza, da ascoltarci le canzoni, da ascoltarci le voci degli attori. C'é un mondo che si muove attorno a me, ed io con lui. E c'é un piccolo, insignificante alla vista, lucido, trasandato, bello, inebriante fiore che germoglia frastagliato dalle parti di Coventry; dalle parti della mia testa. Un piccolo fiore che si insinua felice tra i meandri delle mie cervici, tra le scogliere odorose dei miei sonni crudeli. Si inserisce algido sul maglione adagiato sulla sedia della mia scrivania, mentre scrivo l'ennesima mail, mentre faccio un ordine on line. Cerca di carpire il significato di me stesso questo piccolo fiore che, notevole e microscopico, accende le luci del mio alberello. Un'altra sigaretta, un sorso al tea, l'ennesimo polpastrello ticchettante sullo schermo del telefono... e una gran consapevolezza. Nella vita, amica mia, bisogna provare tutto, e in quel tutto ci sta anche il non provare qualcosa. Quindi,amica mia fuggita verso un mondo di valori che non mi appartengono, senza vendette e “senza sangue”, te lo richiedo beffardo: pensi che la cosa mi scalfisca piú di tanto?

martedì 26 novembre 2013

Meditation

Qualcuno si é chiesto il perché scrivo di meno? Probabilmente no. Io peró l'ho fatto. E son giunto ad una conclusione. C'é bisogno di un respiro profondo, metti l'aria dentro il corpo, e fallo attraverso il naso; poi butta fuori dalla bocca. Rifallo! Ti accorgerai ben presto che passi la vita a crearti la tua nicchia, il tuo personalissimo stack, i tuoi bisogni e le tue voglie. Poi ci sono i freni, quelli che si mettono davanti a te e alle tue brame di esprimerti, e allora sono cazzi. Perché il gusto che ha qualcuno solo provando a portarti nel mondo delle terrene cose, be' quel gusto teorico che si trasforma in massi da circumnavigare, ti mettono in trappola. Non mi chiedo piú se forse non appartengo ad un'altra dimensione, alla risposta ci sono arrivato da un po'. Piuttosto il bivio é un altro: randellate e sprangate sui denti, alla ricerca di un sano momento di libidine, o farsi ammaliare dalle parole del Sommo Poeta, che scolpí nella roccia versi eccelsi per tutti? La falsitá del genere umano mi procura un dolore che mi prende la bocca dello stomaco. L'ultima frase é abbastanza chiara? Fateci caso, é sempre cosí, anzi ha pure tre colori predominanti: ogni volta che c'ho il blocco, non c'e alcun bisogno di ricercarne la natura. Quella é, se vi pare. Adesso mi do alla ricerca del piú esasperato altruismo, che poi non é altro che egoismo puro. Allora riprendo a respirare profondamente, a osservare il ritmo cadenzato dell'entrare ed uscire dell'aria dal mio corpo. Un attimo di attenzione sul contatto del culo sulla sedia, dei piedi sul pavimento sotto di me. Vuoi pensare a qualunque cosa? Questo é il momento. E allora, non me ne vogliate, torno sulla Terra (me ne ero mai andato?), e punto il dito contro, a denunciare vituperi, a smascherare bad behaviors, a denudare meschinitá. Poi mi chiedo se la cosa mi fa bene, e la risposta la sapete giá. Quindi perché pensarci ancora? É la tua natura, direte voi. É arrivato il momento di reagire, controreplico dal palco. Niente piú scherzi, Fabio, non si gioca piú, adesso si vince. Strano, questa frase mi é rimasta impressa. Per tornare a credere in qualcosa bisogna smettere le catene di questo triste terreno inferno. Puntini di sopensione.

domenica 17 novembre 2013

Ricominciamo

Ma sí, non puó che essere momentaneo.
Dopo aver partorito, dopo aver grattato e vinto, dopo aver ritratto le ali, e anche dopo essermi accorto che non mi dispiace per niente la mia inclinazione alle ripetizioni, ecco che... Dopo una lunga rincorsa, dopo aver scoperto che le cose sono facili da fare, anche quelle difficili. Dopo aver ascoltato una ragazza siciliana cantare, dopo le scelte, dopo le scelte non fatte, dopo tutto quell'odio, dopo tutto. Dopo mille miglia, dopo l'Etiopia, il mandarino, la salsa concentrata, centinaia di granite, una maglia con su scritto il mio nome, le voglie assopite, le sigarette economiche; dopo te e dopo Te. Dopo aver appreso la consepovolezza, semmai ce ne fosse bisogno, che senza questo aritmico ticchettio non è possibile fare sul serio. Dopo gli abbracci gratuiti, dopo l'ennesima nottata tabacco in casa dell'infelice, dopo aver visto il mio mondo da un'angolazione lontana. E ancora dopo i palazzi nuovi, dopo i cori allo stadio, dopo il caldo insulto privo di verità; dopo l'ultimo punto e virgola. Dopo aver appreso che io avrei fatto una brutta fine, dopo aver contemplato la brutta fine altrui, dopo aver cercato come un ossesso l'ultimo brano, dopo aver conquistato l'ultima preda. Dopo tutto, ecco che... Dopo aver sofferto di invidia, e dopo averci riso su, dopo essere tornato per un attimo lì, dalle parti del dolore che ti blocca. Dopo aver scoperto che la soluzione è qui, ce l'ha messa il fato, dopo aver strappato una promessa, dopo aver deciso di raggiungere il Sole, dopo aver deciso di scrivere questo post come fosse una session. Dopo aver percorso indenne “le strade di lei”, dopo aver fotografato l'ennesimo riflesso di luce accesa tra le calme onde in mezzo alla mitologia greca. Dopo aver scoperto che quelle erano parentesi di zucchero, dopo aver deciso che non prenderò alcuna decisione, dopo tutto...

mercoledì 16 ottobre 2013

Tutti Fuori

Tra la poca voglia di fare e l'estrema iperattivitá. Passa cosí la mia vita semplice e complessa, noiosa e blaterante; tra disegni che non arrivano, e targhette patinate. Fuori tempo massimo, o estremamente puntuale. Il dipartimento si svuota e si ripopola a piacimento suo, i capi dispensano sorrisi e facce scrutatrici; mangia Fabio, proteine soprattutto, mentre la palestra é semipiena per via del week-end, mentre il rumore metallico dei pesi che cadono giú produce un'eco infinita. Poi si va lí, tra i verdi tavoli, quel bancone lungo, le occhiate maldestre ai nostri smart phone, l'ultima dal fronte. Gli stronzi, i caini, le faine, gli scorretti, le dame di cartone, i dinoccolati; e poi ancora i madidi di grasso, i lividosi e i livorosi, le persone spente da una vita al passo, gli organismi unicellulari, le teste che pensano troppo e finiscono con l'andare dalla parte sbagliata. L'isola dolce delle “strade di Lei”, l'eterna scimmiottatura di Hugh Grant in About a Boy, una passata di gessetto sulla punta stecca, arriva il Gammon and Eggs, ci si siede dando uno sguardo alla partita di football malandrina. Il resto va in putrfazione, riprenderá vita stolta e indecifrabile nel futuro prossimo, quando meno te lo aspetti. Adesso é colpo da maestro, un “bravo” buttato lí giustappunto per fare un complimento, giustappunto per far finta di deconcentrare. Questo luogo é nostro, ci ha visti crescere anche quando si supponeva fossimo giá adulti; anche quando si sapeva giá come sarebbe andata a finire, anche quando lo facciamo oggetto dei nostri vituperi e lo scaglieremmo volentieri nel cesto della roba sporca. Complice l'ennesimo aumento dei prezzi. Ma non ha prezzo no, la passeggiata umida verso il prossimo episodio, sotto la luna grande che illumina i nostri saperi, le nostre vergogne, i nostri sogni che diventano realtá da gestire. Non ha prezzo la risalita dagli inferi, mentre un gruppetto di studenti urlacchia in maniche di camicia, mentre il tanfo dell'alcool si disperde, e prende il suo posto l'odore di pulito. Non c'é etá per questa liturgia che manca quando non si palesa; non c'é tempo che passa per queste stazioni da dolce via crucis, sempre uguali a sé stesse, sempre differenti nei contenuti. Oggi passa, domani niente storie, poggia tutte le monete che hai su quel bordo, che nessuno si avvicini. Abbiamo uno scontro al vertice. Noi stiamo qui, il resto é solo approssimazione.

mercoledì 2 ottobre 2013

E Me Lo Chiedo Ancora

La professionalitá si disperde
né piú mai é come colonna
si diventa al prima merde
alla buona vista di una gonna

sopravvivere é sopravvivenza
perso e andato in aggeggi infernali
afferrando a fatica la buona creanza
amici di nulla, compagni di baccanali

la ricerca continua, anche se ingrata
anche se manca l'amichevole dettame
perso negli oceani, nella collina incantata
ascoso alle cattiverie, e a tutto quel ciarpame

e ancora mi domando che violenza inaudita
ci mette la plebaglia quando non si impiccia
rinunciando a sangue a veritá e vita
celandosi sorniona, sotto una testa riccia.

giovedì 19 settembre 2013

Verdi Cries

C'è, deve esserci quel posto, quel porto, quel luogo. Deve pur esserci, per il solo fatto che lo stiamo cercando. C'è un luogo in cui un uomo assaggia del tea, da solo. Si ascolta l'Aida attraverso una porta, si riempie una vasca da bagno, cantando. C'è, sta da qualche parte, quel luogo in cui la casa che ci accoglie, bianca, linda, regala il proprio portico ad una bianca spiaggia sul mare vergine delle dimenticanze; in cui la casa che ci nutre e ci protegge, bianca, candida, done in sacrificio il proprio patio alla fauna mansueta che si bea di noi. C'è, lo so, è scritta nella letteratura americana, è solcata nei vinili rovinati dal tempo gaglioffo, dalle noncuranze: sta nei quadri impressionisti questo luogo in cui potremmo rifugiarci sfuggendo a tutte le aspettative della povera gente, a tutti i rimandi ad una “vita felice”, ma senza maiuscole. C'è, piccola mia, c'è ed è grande, questa casa maestosa di semplicità. Un vassoio d'oro per la colazione, un birichino furto di biscotti ancora in preparazione, un'occhiata fintamente severa. Tu, io, e poi il mondo che parte da lì, dalla nostra bianca casa, dalla nostra spiaggia, dal nostro patio così autunnamente trascurato; il nostro mondo che finisce lì, nella penombra di un angolo dimenticato, dietro alla poltrona comoda del soggiorno, dentro la credenza che accoglie il servizio buono. C'è un luogo in cui non ci sono tasche, non ci sono bip invadenti, non ci sono gomme da masticare. C'è il luogo delle piccole cose, e delle attenzioni riposte su di esse, dei miei sguardi sui tuoi sguardi, dei passi fieri e dolci allo stesso tempo, delle piogge che attaccano docili le finestre; delle finestre da accostare, di una trapunta che sostiene la visione di un dvd. C'è, e lo sognamo insieme anche se da distanze siderali, c'è e lo abbiamo da sempre fatto nostro. Il cane è entrato e sta sporcando il tappeto. C'è una libreria dalla quale prendo un volume di Jack Kerouac, così sorrido un po'. C'è un luogo in cui tu usi una matita e ci giocherelli con le dita, in cui i fulmini sono spettacoli lontani, in cui il mare vergine non ci allontana da niente, semmai ci abbraccia forte per farci sentire al sicuro, amati, e perchè no vezzeggiati. C'è quel luogo in cui tutto è dimenticato, e in cui tutto è presente, in cui hai la stessa faccia di quella volta in cui mi dicesti “viene a dormire da me”. C'è un rifugio dalle procedure bastarde di una esistenza che ha smesso da tempo di essere vita; c'è una dolce prigione in cui i nostri istinti troveranno ristoro; una battigia sulla quale passeggiare con le scarpe da tennis ed il k-way, la felpa e un braccialetto colorato. Una roccia rossastra in lontananza, un silenzio dirompente. C'è un letto da farci sopra l'amore, da farci sopra, a ritmo, un capolavoro di arie, di storie, di martiri a lieto fine, di morte sconfitta dalla vita, di luoghi comuni derisi dalla felicità. C'è una ricompensa. C'è un luogo, piccola mia, in cui ogni giornata finisce con l'applauso di un pubblico competente.

giovedì 15 agosto 2013

Tempo Perso

Abbiamo avuto la possibilità, e forse l'abbiamo sprecata. Nel tempo e nello spazio, tra i dilemmi di una vita rosicchiata e spolpata; oppure tra i vituperi di un'esistenza a cui abbiamo rotto ill respiro all'ultimo secondo, prima di fare il grande passo. Abbiamo sperperato tutti i momenti buoni per sederci su una panchina, per fare la spesa al mercato più economico, per preparare i sandwich, per guardarci negli occhi, socchiudendoli ancora di più; per fare l'amore su un prato. Abbiamo frustato, e poi lasciato scappare, tutte le mie debolezze, le abbiamo viziate, le abbiamo ignorate, trattate come cause perse. E lo abbiamo fatto colpevolmente. Ti ho chiesto di salvarmi, dalla mia vita agevole, dai miei rimandi adolescenti, dai giri a vuoto di un'esistenza senza sangue, senza beato sacrificio; ancora e ancora a dar conto a melense attrattive, a girandole di parole, a insensate scenate, a lugubri stolti personaggi. Vorrei solo unn po' di pace, una birra in frigo, un animale domestico, un consiglio da dare. Vorrei stendermi sulle tue gambe, arricchire vieppiù ogni momento che mi resta da vivere, dare a me una chance. E soprattutto darla a noi. Ma ci stiamo ancora impelagando in studi eccessivi, in occhiate allo specchio, in tagli di capelli. Tu, tra le mille ansie che ti bloccano nei deserti di una solitudine che solo apparentemente ti solleverà; io, come quando fuori piove, dando credito a follie vuote, a menzogne parallele, a gravi eccessive maldestre minacce. Abbiamo lo stesso spirito, la stessa età, le stesse paure, ma punti di osservazione differenti. E la cosa grave è che lo sappiamo entrambi. Eppure continuiamo a perdere tempo; a perdere, a perdere questo splendido inusuale tempo, fatto di gradi centigradi, di sole forte e tenero, di ombre e di alberi. E di cantine di vini, di borse da comprare e poi rivendere, di futuri incerti e di passati misteriosi. La possibilità ce l'abbiamo avuta, e ancora adesso, chiunque tu sia, anche se vediamo gocciolare via i secondi, un piccolo spiraglio resta. Come quando ti ho baciata, e ho sentito il tuo fremere, le tue voglie assopite, le tue paure bastarde, per un bastardo come me. Eppure so che non aspettavi altro. E allora te lo chiedo e me lo chiedo: perchè? Perchè questo vilipendio alla natura che ci contraddistingue, perchè darla vinta ad una vita di rinuncie, perchè crogiolarsi ancora nel mare torbido dei plastici sacrifici? Perchè, giovane donna? E se sarà troppo tardi? Se la neve verrà, e con essa gli ennesimi colpi di tosse? E se i prati non saranno più accoglienti? E se le rughe ci diranno che tutto sarebbe ridicolo? Adesso, ora, immantinente, fai le valigie e poi rifalle di rimando. Fabio nonostante tutto sono, e nonoostante tutto aspetto, dieci chilometri o solo cinque minuti di cammino; una pizza o nove portate. Nudi o con gli orsacchiotti stampati sulla felpa. Una sigaretta furtiva, fuori, in giardino. A rendersi conto che poi, alla fine della fiera, può anche cambiare il tempo attorno a noi, ma alla fine, quel tempo non l'abbiamo realmente perduto.

venerdì 26 luglio 2013

Un Poveraccio di Merda

Dovrei essere teso e nervoso, che poi è la stessa cosa. Dovrei passare in rasegna tutti i motivi della mia inconsolabile esistenza; farmi una notte insonne, sentire crescere i battiti del mio cuore, la mia pressione salire. Dovrei, forse, andare a zonzo e raccontare dell'ennesimo errore altrui, andare in giro alla ricerca di gente che annuisce e dimostra vera o posticcia solidarietà. E invece no!Quei tempi sono belli che andati. La scoperta, o la prova, che basto a me stesso è arrivata puntuale. Priorità! Il percorso da qualche tempo è cambiato; sempre dritto, verso i grattacieli del city center, costeggiando melenso la vecchia stazione di Snow Hill, gettando lo sguardo sulla giamaicana sporadica che aspetta l'autobus dall'altra parte della strada. Lavori in corso. E allora questa chiesa senza nome che fa pandant con il parchetto antistante, da piccola e ascosa, diventa mnumentale, mentre già dall'altra carreggiata cominciano a dar segno di sè le ombre plastiche del centro cittadino, così remoto, così volgarmente vicino. Tagliamo di qua, dico a Fabio, che nel frattempo contempla per l'ennesima volta i suoni, le note, le minime e le semibiscrome di Mogwai, che attraverso le orecchie fanno capolino nel cervello. C'è tanto da dire, c'è tantissimo da recriminare, ma si va avanti, le energie adesso vanno risparmiate. Ai giri di parole, alle frasi ricercate, agli arzigogolati punti di uno speach puntuale preferisco di gran lunga la pace meritata dei miei sogni; le purezze di un animo spigoloso ma fiero, malinconico e a volte spietato. Lei, la mia lei, si produce in uno sforzo senza tempo e senza limiti; sa di darmene contezza, senza darmene contezza. “Sorry, ma non voglio uscire con te”. L'agiatezza, le concretezze, gli involucri da spaccare avidamente e poi mettere negli appositi contenitori dai colori pastello. Perfino un nuovo animale domestico ha prerogativa di essere caduco e labile, come un cappello da indossare in un'unica occasione, e poi mettere via. Questo lei lo sa, e lo so anche io. Così, sotto il palazzone dell'Holyday Inn, accarezzato dal fresco del prato sotto i miei piedi, scanso senza mordente i cattivi pensieri altrui, e mi ritrovo a sognare la di lei Rivoluzione. Ce ne hai di tempo, oh pretty love. Un cappuccino tall, il sorriso della cameriera dello Starbucks, la voglia inconsolabile di saper disegnare, mentre i Mogwai, ancora e sempre, mi accompagnano. Queensway da attraversare guardando prima a destra e poi a sinistra. Si entra nel campus, Lakeside, la finestra diventata ordinaria, gli zainetti colore dell'arancio. Chi si ricorda più di quella mancanza di forze, io sto bene. Mi manca solo un po' di coraggio, ma so che potrò anche morire senza, e nel frattempo avrò fatto tutto ciò che la vita può offrire. Il resto è di passaggio; come i pini nelle autostrade del nord, come i resti di una pizza maldestri su un piatto, come il bollitore dell'acqua dimenticato acceso. Come una conversazione amicale fatta per necessità che si perde nella pochezza, nella noncuranza, nella superficialità del giudizio altrui. Come un prestito di denaro, puntualmente restituito, che diventa occasione per smascherare l'inconsitente natura di chi ci mette tanta lena ogni giorno per non far trasparire quanto piccolo e insignificante è il proprio mondo. E allora mi tengo la mia vita. Mi tengo le mie tranquillità, mi tengo, non me ne vogliate, i pochi punti cardinali che ho scorto lungo il mio cammino. Ai livori dispensati indistintamente, alle bottigliate al vetriolo scagliate per far male, al gusto effimero di distribuire dolore con la consapevolezza postuma che tale pratica non solo non funziona ma sortisce l'effetto contrario, preferisco le mie passeggiate minimali in compagnia di Mogwai; preferisco il contingente sole brummo che si posa dolce sui muri del tramonto, i miei sogni birichini. Preferisco i miei sguardi sul mondo, la natura e la prospettiva incantata di un “Poveraccio di Merda”.

lunedì 15 luglio 2013

La Profezia di Balandino

Si sta in cucina; si sta in cucina e si conversa di facezie e di mali della vita, di mondi sconosciuti e di padelle da comprare. La mia facciata è in un certo qual senso da didascalizzare, anche se a me il suo significato sembra di facile intuizione. Dentro sono un vulcano, vorrei volare e scappare e fugare e riempire le scarpe di dentifricio; fuori sono serafico, come se non mi importasse più di far sapere che tipo di pruriti ho. Il mio coinquilino si chiama Balandino; come quei personaggi ricercati dei romanzi di Moravia, come quei personaggi che raccontano di una borghesia al potere negli anni Liberty dei primi del Novecento. Non ce ne sono molti di Balandino, se ci pensate un po'. Io l'idea l'ho già fatta mia, mentre lui parla, parla e ascolta. Mentre gli dico che si, ho un debole per le ragazze orientali; mentre una ragazza orientale sta sempre dentro di me, un'altra nostro malgrado è scivolata via. Ma tutte queste cose a Balandino, in cucina, chiacchierando, tra padelle e decoder, tra quadri che mancano e vani dentro il frigo, tutte queste cose a Balandino non le dico. Mi mantengo sul vago, faccio una cernita delle cose interessanti, o quelle meno. Ci vado giù di intrattenimento, la butto sul sorriso, sulle futilità. C'è tempo amico mio. “Magari quella che incontri domani, chissà, è quella che sposerai”- mi dice Balandino dal suo punto di osservazione da personaggio moraviano. Magari, oppure no; oppure sorrisi, un caffè, un libro comprato nell'attesa. Magari una gonna, la matita negli occhi, la bottiglietta d'acqua a portata di mano. Magari Balandino ha ragione, e sarò fulminato su High Street, vicino la fermata del 960; oppure passerò i miei giorni non accorgendomi di ciò che ho ad un metro da me. Balandino continua a parlare di bicchieri a buon mercato, comprati dalle parti di Moesley, io immagino artisti zoppi, candele profumate, l'ennesimo paio di occhi a mandorla che malcelano una puerile falsità. Eppure il mio Eldorado è lì, io lo so. “Magari ne incontri una domani, e te la sposi”- incalza il Musicista. Io partecipo attivamente alla conversazione, ci rido e ci sorrido, ci intreccio una tela con i miei argomenti; cambio discorso, volo, plano, torno sul main argomento. Pronti partenza... Domani sì, domani sarà ancora treno, e finestrino di treno, e piccola attesa, e studio dell'ennesima ragazzina che gioca a fare l'occidentale violentando se stessa e le sue timidezze. Domani, sostantivo profetico, domani segnaleremo l'ennesima sconfitta, o racimoleremo un'altra, piccola, striminzita vittoria. La ragazza dell'A-team è lontana nel tempo, e forse nello spazio, anche se son sicuro tornerà, e sarà troppo tardi. La papessa è persa nei meandri delle sue effimere consolazioni. Il resto del mondo non mi appartiene più, perchè sono uno stupido cocciuto. C'è un esercito di infantili “Ooohhh” schierato davanti a me, e io sono talmente folle da volerlo affrontare da solo, con i miei trentonve anni nascosti chissà dove. Il resto è Balandino, e io, seduti attorno all'impossibile tavolo Nonna Style della cucina; una conversazione artefatta, giusto per conoscersi un po' tra flatmate, giusto per cazzeggiare. Ma se il mondo infinito che ho dentro trabocca anche solo un pochino, un motivo ci sarà. Alla prossima. Cresci Fabio, e fallo finalmente.

venerdì 5 luglio 2013

Pronti, Partenza...

Libera per tutti! Un po' lo so, mi mancherà questo melting pot pieno di distrazioni e di sofferenze. Mi mancherà la sua atmosfera persa gradualmente tra le grinfie di una cattiveria inversamente proporzionale alla stazza. È un colto messaggio quello che voglio mandare, un sibilo strisciante sulla mia vita pazza. Apriamo un paio di parentesi, e poi, come è naturale che sia, chiudiamole. Gli addii non sono mai come li si è immaginati; ma neanche i saluti inziali, ora che ci penso. Adesso un po' di India, una tazza nuova, un paio di ali. Me ne vado, o almeno provo a farlo, me ne vado a condurre una vita quasi normale; me ne vado dalle parti della genuinità, o della semplicità. Mi basta la locandina di Arancia Meccanica, mi bastano un paio di speakers; mi basta, deve bastarmi, la voglia di conoscerla un po', e poi di più. Libera per tutti, perchè la canizie può giocarmi brutti tiri, tipo due giovani amanti... ma io di cartucce da sparare ne ho, eccome. Devo solo tornare dalla mia fuga. Procedure, a iosa; procedere, di ricerca gioiosa. “Oh chi dirà mai i mali della rima”. Voglio dormire sul suo petto, e non è vero che non importa conoscere l'oggetto della frase. Via, libera per tutti, libera per Fabio, libera da se stesso, libera. Come chi non ha voluto, come chi non ha mai voluto; come le mensole da riempire di libri. Come i libri che andranno letti, come i libri che andranno chiusi per andare ad aiutare in cucina, come la sigaretta da fumare lontano dalle stanze, per non urtare la sensibilità dei pochi. Via, liberi dal sogno, dalla viltà, dalle false aspettative, dalle concrete avventure che adesso, numericamente, possono essere considerate abbastanza. Adesso Fiorile, magari. Oppure una nuova serie televisiva vista da un nuovo punto di osservazione; ma restiamo sul pezzo. Mi mancherà un poco questo caleidoscopico gioco di colori, questa sala grande con la wifi che funziona a singhiozzo, questa macchina che sputa acqua calda. Mi mancheranno i sorrisi e le forme di vittimismo; le puerili dimostrazioni di falso affetto, i menefreghismi artefatti della gente solitaria. Mi mancheranno i mangiatori di unghie e le code di cavallo; i matti, i gay, le troie, i fantasmi notturni. I fantasmi diurni. I topi in giardino, i profumi freschi dell ragazze fresche. La tv accesa che nessuno guarda, il tono saccente delle occhiate ventenni; le fette di pane tostato. Libera per tutti.

mercoledì 19 giugno 2013

Esame di Immaturità

Quando devi andare al The Vale per incontrare una ragazza che poi non ti piace neanche tanto, le cose importanti cambiano il loro significato. Quando vai da una lei, che non è proprio lei, allora le cose prendono forme e colori diversi. Il senso del viaggio diventa predominante. Perchè lei non è lei. Ti tocca mettere gli auricolari, mentre tutto diventa suggestivo, mentre senti la presenza delle ragazze cinesi che in tasca hanno una carta di credito che permetterà loro di comprare tutto e questo succede al Bullring, città stato in cui l'Imperatore, se vuoi, sei tu. Basta avere un pezzo di Pedro de Lion in testa. Poi è odore di caffè, suggestivo e inebriante, miscela esplosiva che dall'ultimo Tesco, baluardo di quotidianità, ti immerge nella plastica e accogliente stazione ricca di significati. Quando devi, e magari non vuoi in un anfratto sperduto delle tue segrete, andare a svuotarti da una ragazza che non ti farà mai battere il cuore, ti concentri su altro. Che dico, è altro che ti prende e tu non puoi farci nulla. Perchè lei, quella vera, è così lontana, e quindi perfetta. È circondata da un'aura di santità, è cosparsa di crema alla mandorla. E allora l'incedere della scala mobile che ti porta al binario pare sia un indice a barrè che scivola sulla tastiera della chitarra e va a prendersi un accordo impossibile. Quando vai da una ragazza pensando già alla scusa che dovrai trovare per non rimanere a dormire da lei, il percorso, come sempre nella vita, è lungi dall'essere meno importante della destinazione. E quando sei dentro il treno aneli la pioggia che bagna il finestrino, che distrugge la visione delle case, delgi alberi, della musica nelle orecchie. Che monda inebriante le catene che vai a prenderti solo per dare un senso ai tuoi istinti bastardi. Quando vai da una qualsiasi lei che ti aspettando per chiederti di fare di lei la unica e sola, mentre tu sei pronto a infrangere tutte le regole del buon costume, allora ti accorgi che è la solitudine che ti sta ammazzando; che ti sta ammaliando, che ti sta distruggendo. Che ti sta nutrendo. Perchè lei non è lei. Perchè non ti ritrovi fuori dalla stazione di arrivo camminando a passo svelto, a cadenzare il ritmo del tuo andamento agognando le sue fattezze; semplicemente ci metti la flemma, l'accidia e la pigrizia. Ci metti te stesso come fosse una bottiglia di vetro. Nella quale però puoi spaziare a piacimento. Gli alberi che costeggiano l'Università aiutano, i sentieri odorosi nei quali ti rirìtrovi da solo a mettere insieme le frasi di questo posto ti danno una mano, le macchine sporadiche che passano senza voler disturbare la natura di questi posti sacri e maledetti ti allungano un cadeaux. Il piano di un pezzo di Mogwai rallenta, laddove ce ne fosse bisogno, il tuo passo, e alimenta la tua sbadataggine falsa. Panchine, strutture in legno, un laghetto affiancato da una collinetta come si vedono nei quadri che non hanno avuto successo. Quasi arrivato da lei che non è lei; la poesia si perde gradualmente, l'andamento lento si fa lentissimo. Togliti sto dente, ricordando a te stesso che hai visto la salvezza da qualche parte, in un castello o in estremo oriente; che hai visto la salvezza schiudersi in un sorriso da rendere fiero un dentista. Musica elettronica, rumore di stoviglie, risate straniere provenienti dalle finestre spalancate per via di un caldo che ti porta lontano da lei, che non è la lei che stai andando a trovare al The Vale. Un altro passo, un'altra stazione, un'altra litania. Passerà.

sabato 15 giugno 2013

Priorità

La mia prima regola è quella che non ti aspetti. É quella che non ti aspetti da un tipo come me, che va girando per le calli di un avvenire che non si presenta; che va dritto per una strada piena di ostacoli, anche se nonostante tutto butta lo sguardo a destra e a manca. La regola che per prima leggi sul mio decaologo ha sapore aspro e intollerante, non puoi stenderti su una panca. La regola mia, quella prima, mette a volte tanta soggezione; perché è un fiore delicato, tenuto a malapena da un caprone. Il primo comndamento della mia scoppiettante vita, c'ha il sapore delle fragole, dell'azzurro, delle scartoffie di Natale; non l'avete ancora capita. Ok, non è non uccidere, anche se non sarebbe male, ma volendo chi ce la farebbe, è più qualcosa che ha a che fare con un bimbo che ci mise un po', sì, ma alla fine crebbe. È un asso nella manica, una trottola che dolcemente sta per finire il suo giro, è Bruno Pizzul, che non lo raccontava, ma faceva diventare poesia un tiro. È fatta di agrumi che non attaccano l'addome, è attrezzata di profumi che inebriano eccome, è, la mia prima regola, ricca di acumi, che sventolìo di chiome. Il mio primo motto, signore e signori, ha vinto tutto, ha fatto cappotto, ci hanno messo su chiacchere e tappeti sonori, ma poi da solo ci bastava, rappresentava un matto. C'è una cosa che non va dimenticata, diceva il mio io a me che ero piccolo, ci stava diritta di infilata, c'aveva dentro più sostanza del pane; non ci diventerai mai ricco, e a volte sarai solo come un cane. Ha più sapore del dolciume, più riguardo del sesso, della vita è l'unico barlume, e tra tanti riconoscerai te stesso. La regola mia prima, no, non è per forza la ricerca della rima, ma con essa in qualche modo c'ha a che vedere, visto che più si va avanti e più prude il sedere. La regola, quella che sta per prima nel mio stendardo, pare a volte che sia nascosta dalle intemperie, tali sono le mie fattezze da bastardo. Pare sia coperta da miserie, ché tu la guardi ma non ti accorgi della sottigliezza. La regola, amici cari, è presto detta, fa degli stolti una sola polpetta. Che sia di pioggia e nuvoloso, o assolato e afoso, nessun dorma, la regola fa di me un uom focoso. È giunta l'ora, sia fatta chiarezza, la cosa che più mi accalora, fratelli miei, è la ricerca della dolcezza.

domenica 2 giugno 2013

Sentenza

Come fosse urlato. Immagina di stare davanti ad una giuria, o ad un plotone di esecuzione. Oppure davanti a me, che è la cosa che più conta, che è la cosa che ha meno importanza. Colpevole! Te lo schiafferei in faccia, o te lo sussurrerei ad un orecchio; te ne leggerei la sentenza, ti additerei paterno ma severo. Tu sei colpevole, di averla data vinta (solo parzialmente, forse) ad una vuota vita piena di tutto, senza chitarre, con qualche piano, con le tazze in coordinato, con un mucchio di devices, un altro animale a quattro zampe. Colpevole, nella villa delle ville, con il sole che ti bacia i capelli, con le mani affusolate, col cappello ricercato, con il carnefice a portata di mano; mentre la tua vittima si fa mostro per sopravvivere, da qualche parte, e tu sei e resti (solo per il momento, forse) colpevole. Tra le rive dei piccoli corsi d'acqua, nella parte più superficiale dei tuoi pensieri, dove tutto è plastico, dove tutto è artefatto. Sfido che ti senti stanca, per forza ti scopri debole. La tua coscienza ti rimanda ai tuoi doveri, ai tuoi doveri verso te stessa. Ti ricorda che sei colpevole, contro l'umanità, contro i tuoi anni, contro colui che scrive. Anche se a volte sembra quasi non importi. Ma tu intanto sei colpevole, rea, costantemente con le mani nel sacco. Responsabile delle mie pene, e perciò tu stessa meritevole di una; responsabile delle tue angoscie, e perciò doppiamente colpevole. Di fare finta di tenere alta la tua guardia, mentre invece l'hai abbassata, con dolo, consapevolvemente, contro le tue supposte perfezioni, che cadono tutte una ad una nel momento in cui vivi una vita senza senso sociale, senza anima, ma con molte suppellettili. Tu, colpevole, di aver indossato il vestito dell'egoismo, di averlo truccato, di averlo riempito di sabbia su una battigia solitaria; impalata stai lì a far caso ai rimandi di una mente che vola via, a cambiare canale della radio con un semplice click, a rimediare lavori di legno. Colpevole, di tenere ordinati gli scaffali delle futili cose, e di sfuggire ai meravigliosi disordini della vita vera (adesso, chissà per quanto ancora). Ti ho tenuto una mano tesa, ti avrei anche lasciata andare, ma ti avrei comunque liberata; tu invece hai scelto la tua cara latitanza dall'esistenza, e cosa molto più grave, hai scaricato le responsabilità su di me, raramente, piangendo dentro. Hai costruito un mondo piccolo piccolo, e ci ha messo dentro un portachiavi firmato, un sacchetto di fiori secchi, qualche spicciolo, e tanta angoscia. Bramo la tua riabilitazione, il tuo reinserimento in società, le tue rinascite; anelo il tuo mea culpa, le tue posate di plastica, una sigaretta che non odora di nulla, se non di sigaretta. Vita, tu colpevole condannata alla vita, quella vera. Non quella che tu hai creduto completa, ma quella che ti completerebbe dandoti la finale, eterea, definitiva coscienza di te stessa. Ti perdonerei qualunque cosa...

mercoledì 22 maggio 2013

La Linea di Confine

Un treno, il mio regno per un treno. Da finirci dentro, per finirci l'estate. Un treno per pochi secondi, giusto il tempo di sentirlo partire sotto le membra, sotto il sedere. Da andarci lontano, o solo pochi chilometri più giù. O più su. Un treno, lento e ordinato, col controllore ben vestito; con i finestrini lindi, coi sedili ergonomici. Col fumo sbuff sbuff, il biglietto luccicante, gli alberelli fuori, in una stazione piccola;“portami a Roma, portami a Birkenhead”. Finisco sempre col parlare di lei in questo periodo. Un treno per due al tavolo sei, please. E per favore, niente ritardi, niente annunci che disturbano dagli altpoparlanti. Una sacca leggera, un libro di Baricco, un violino e un pianoforte, una tazza per il tea possibilmente verde, un paio di occhi da incrociare dall'altra parte del corridoio. Una mano da sfiorare. Adesso è sogno, ma prima era quasi verità. Un treno, che vi costa! Dateci un treno per andare su un prato, per indossare gli occhiali da sole, per rimettere i peccati contro noi stessi, per indurci in tentazioni, per mangiare di un pane raro, per nulla quotidiano. Adesso, ora, domani e per sempre. Una mattina (tarda mattina), col sole alto, con la giacchetta appesa in vita, con le stanchezze da notti insonni, con le paure del futuro, con i braccioli per non annegare, con le pietre in tasca pronte per essere scagliate. Non si sa mai. Ma intanto voi, con zelo o con noncuranza, con amicizia o privi di interesse, canticchiando una canzone o con lo sguardo rivolto all'altro lato della strada, sì proprio voi, dateci un treno, sapremmo cosa farne. Sapremmo manovrarlo da soli. Uno strattone al primo movimento, e poi si parte. Siamo già arrivati? Non arriveremo mai, ma questo è il bello. Un viaggio in treno, dodici minuti o tutta la vita, aspettando Natale, aspettando l'ora di pranzo; aspettando un treno, risuscitando il tempo guardandoci negli occhi. Via da qui, via dai camaleonti che ti deludono e lo fanno disprezzandoti; via dalle catene che ti tengono aggrappata ad una vita plastica e fintamente edulcorata; via dalla mancanza di agio in tasca. Ci serve solo un treno, una bottiglietta d'acqua, e la possibilità di toglierci le scarpe e stirare le gambe sul posto di fronte. Ci servono i nostri occhi, le nostre certezze, e anche le nostre insicurezze. Se così non fosse, per quale diamine di motivo dovremmo prenderlo, il treno? Almeno un paio di fermate, per ricordarci che c'è una nostra vita, ma c'è anche quella degli altri, e da qualche parte, nel mondo, c'è gente come noi. Hai fame? Ho imburrato i panini, ho comprato le patatine, ho portato un thermos pieno di speranze. Fammi leggere ancora un po'. Capito? Un treno, niente più, per percorrere insieme i binari di questa linea di confine che ci tiene lontani. Sociamlmente lontani. Il treno di Paolo Conte, il treno che si inarpica sulle montagne boliviane che tolgono il respiro; il treno che costeggia la Foresta Nera in Germania. Il treno che spacca la Siberia e i suoi ghiacci, che sorvola sognatore gli oceani prima delle Indie o delle Americhe. Il treno che ci porta a casa tua, tra le occhiate maliziose e gli interessi esotici; o che ci proietta dalle parti in cui sono cresciuto, colonna sonora “Love Song” by The Cure. Un treno che non passa dal via. Io vado in bagno, tu a che punto sei? Fammi finire il capitolo. Ok, ma alla fine dov'è che stiamo andando? Da nessuna parte, il tuo sorriso avrebbe dovuto già dirtelo. Siamo sul treno e qui rimarremo.

mercoledì 15 maggio 2013

Le Ultime Libellule Ululanti

Piove, sulle dita e sulla mani, si formano goccioline piccole e ancora più piccole. Piove su di te, piove su di lui. Piove sulle mie ripetizioni, che si inzuppano di acqua, diventano pesanti, difficili da contenere. Sulle catene, che mi tengono fermo, e non mi fanno cadere. Piove, sulla Brummia, sulle colline che si attestano nel centro dell'Inghilterra. La mia Inghilterra. Piove sul mio naso gocciolante, sulla metafisica di questa sporca guerra. Piove su Chinatown, sulle strade monche della periferia del centro, sulle sigarette ansimanti, sul mio bavero bastardo. Piove sulle festaiole erranti, sui legni che si gonfiano, su un qualsiasi sorriso beffardo. E poi sul rischio sul quale cammino come un acrobata spericolato. Piove, sul ricordo e sul pezzo, sulle labbra gentili, su una conversazione a tre. A due lingue. Piove e ne lascia uno schifoso olezzo, il mio riparo sei tu, è l'immagine di te. Piove sulla mia birra versata nella mezza pinta; sulle ignare decisioni che prenderò, sul pane che non ho ancora mangiato. Piove, maldestramente su Gabriele D'Annunzio, e gli chiederei perdono se ce l'avessi davanti. Sui pochi, raramente sui tanti. Piove sulle migliaia di amicizie che sembrano cerini. Cerini sui quali piove, mentre in altre isole si festeggia la Fortuna, si festeggia la vita che si è scelto di vivere. Tutti assecondati dal chiaro di luna, tutti convinti che la vita sia soltanto ridere. E piove su quest'isola, grande e incomprensibile; amante focosa, brufolo impertinente che spunta da un angolo della bocca. Piove, sulla tua bocca. Sui tuoi pensieri nuvolosi, che si schierano felini, che lasciano andare a debolezze, che si scanzano; giusto il tempo di preferire di non dirmi che ti manco. Piove su noi due, che siamo ancora ragazzini, e su di te che hai depositato la mia testa al banco. Piove su di noi. Sui nostri prati verdi, sui nostri giubbotti odorosi, sui nostri errori umani. Per nulla eroi, lontani dall'essere focosi, ci accontentiamo, sotto questa pioggia, di battere le mani. Piove, sempre e comunque sulla Brummia, non importa da che parte, non importa in quale quartiere. Piove, chè così ci adoperiamo a crescere ancora. E poi piove sui posacenere lasciati sui tavoli, sui nani del giardino, sui compleanni tristi, sulle foglie affaticate. Piove di tristezze, piove di risate. Piove, regina dei miei sogni, piove e il cielo è grigio; e le pozzanghere sono fangose, mentre il tuo viso resta pulito, immacolato, lindo, mondo. Piove sul mondo; piove a tutto tondo nelle nostre vite benedette da quest'acqua scrosciante che ci libera e ci inebria, ci immerge in questa malinconia vitale. Che ci salva e ci porta alla deriva; che ci annienta e ci eleva. Piove di una pioggia che ci cancella e ci vivifica, che ci mortifica e ci sfoggia. Sta piovendo ancora sulle tua braccia, sulle tue scarpe, sul nostro camino acceso, sul mio accendino, sugli alberi che abbiamo disegnato, sul canale che abbiamo tracciato.

giovedì 9 maggio 2013

A Team

Come un suono di viole, continuato, quasi infinito. Tu trattieni il respiro, aspettando che se ne vada, che in qualche naturale modo scemi, scivoli via verso un finale d'uopo. Ma non succede, e senti che i tuoi muscoli vanno indebolendosi per mancanza di ossigeno; senti che il tuo cervello richiama il fiato necessario, la giusta inspirazione. Le viole continuano nel loro perenne incedere, nella loro distorsione della realtà. E tu aspetti. Com'è giusto che sia. Stai quasi svenendo, stai quasi per abbandonare lo scintillante mondo della coscienza, stai per dire addio a tutti. E a te stesso. Ma poi ecco che quel suono cessa la sua presenza... Un batterista batte i quattro quarti, una chitarra entra come un lungolinea, una palla tocca l'incrocio delle righe. “La vita è assai lunga quando si è soli” diceva il Candido Poeta. Io mi sono fatto tanti amici; non così tanti, ma il giusto per accaparrarmi una buona consapevolezza. La consapevolezza che morirò da questa parte della barricata, con la schiena dritta, muovendo l'anca a ritmo, una strizzatina d'occhio; suscitare l'ilarità di chi merita, ancora per oggi. Domani chissà. La mia cartella musicale è piena di grazia, piena di tutto, piena di tante leccornie. Oggi aspetto ancora un po', aspetto un altro piccolo cadeaux, come l'altra notte, quando con naturalezza lei mi ha scritto “I'm here...”. Quasi a ricordarmi con chiarezza che...quasi a ricordarmi con assoluta mancanza di chiarezza la nostra appartenza all' A Team. Piccolo fiore, piccolo cuscino sul quale mi accoccolo un po'; piccolo ricordo che diventa grandissmo quando la mia mente, senza parole e senza fatti, se ne sta un po' lì, dentro qualla macchina, dentro quella casa, in mezzo a quegli odori unici. Dentro quegli occhi vivi e malinconici; in mezzo alle campagne, in mezzo a quei sogni che con fatica compiono il percorso inverso per raggiungere una mortifera realtà. Fabio giù, quando si accorge che le terrene cose modificano le nature altrui, quando tutto diventa prigione, quando le scudisciate fanno male perchè colpiscono a ritmi imprevedibili, ma con precisione, lì sulla schiena. Hai voglia ad allenarla. Ma una mela la puoi sempre tagliare in due. Class A Team, solo per un attimo, io e lei, mentre arrivano dardi scagliati da sudovest, o forse anche da est, mentre si mangia tanto da qualche parte nel campus; Class A Team, per un tempo infinito, mentre abbraccio l'aria attorno a me, mentre non uso l'organizer, mentre dimentico ogni parte del suo corpo, mentre ricordo tutto con nitidezza. E ancora mentre “we don't wanna go outside tonight...”. Mancano quagli attimi in cui ci si teneva consapevolmente a distanza, in cui ci si scrutava, in cui si ascoltava Ludovico e il suo piano. In cui ci si sbarazzava della zavorre della comunicazione. Tutto, avevamo tutto. Ma a termine. Adesso mi chiede spazio, mi chiede tempo, mi chiede la solitudine per rimettere in ordine la stanza, la casa, la vita. Sola, come le persone come me non fanno, come le persone come me sanno per sentito dire. E così il lungo monotono suono di viole diventa colonna sonora tra le stanze vuote, tra le pizze insapori, tra i bicchieri d'acqua amari, tra le frasi sconnesse del resto del mondo. Mondo che non si cura della propria natura. Io, senza verbi da spendere, trattengo il fiato a più non posso, le viole devono pure finirla prima o poi. Arriveranno due sapienti mani di batterista, quattro battute; entreranno una chitarra e un basso. E allora, finalmente, si ballerà.

martedì 30 aprile 2013

Vivadixiesubmarinetransmissionplot

Succede di rado, ma succede. Capita quel momento in cui ti vuoi lanciare, allora ricordi che nel tuo profondo, nel tuo deep inside, tra le frasche e le more, nel sottobosco, ecco lí, c'é una chitarra che arpeggia. É la “Reginetta del Ballo", proprio come la tua, proprio come quella che vorresti portare con te. Proprio come quella a cui vorresti regalare il mito del tuo mito. La tua seconda adolescenza, e anche la terza. Tieni, questo é uno Spirit Ditch, mi appartiene da sempre, ti appartiene da sempre. Ragazzi che rischio. Dare, anche solo per un attimo, la cosa piú preziosa a qualcuno. Anche se quel qualcuno ti entra nelle vene, ti scruta fin dentro le molecole, e poi ancora fino alla fine degli atomi e delle stringhe. Hai ascoltato? Tre volte. Come una corsa che farei fin lí, come uno strumento che imparerei a suonare facendo per te un concerto; come un animale che squarterei per banchettare insieme, tu ed io, consapevoli di noi stessi. Su un parco, col fumo che ci viene addosso, col cane che scorrazza felice. Ma ecco che arriva Spirit Ditch, ecco che si insinua tra le righe, cosí sporca, cosí disumana, cosí ammiccante e puttana. Ti spoglia, ti viene incontro, ti dice chi sei, te lo diceva quando eri ancora una bambina. E a volte mi odio per questa bravura che ho di circondarmi di genii. Mentre tutto scivola via sulle parole di una telefonata campionata, e Mark ci ricorda con la sua voce che é immortale nonostante si sia involato verso i prati verdi dell'insperato oblio, io mi ricopro di paure. Paure sconfitte subito da quel “tre volte”. Prendiamoci una pausa, giusto il tempo di dirti che non voglio stringerla la tua mano, voglio solo tenerci sopra la mia. Si lo so, c'é la Safety Car, non si puó superare. Peró, tu, la “piú bella vedova in cittá”, parcheggi la macchina sotto il campanile; tu reciti la parte dell'impresentabile che non puó fermarsi a prendere un panino. Ti fai desiderare, e poi (ti perdonerei questo atteggiamento anche se dovessi rinascere sotto forma di cavallo imbizzarrito), be' poi ci vieni ad osservare le palle che entrano in buca. Quindi succede, anche se di rado, che ti offro il ruolo di ospedale, di macchina e di stella; che mi denudo un po' per cercare di scuoterti, che ti riempio di regali che non compro, ma che prendo direttamente dal cassetto che sta sotto il mio addome. Una Vacca sacra ci porta lontano, come fosse un viaggio in autostrada, come fosse vento tra i capelli, come fosse una Vacca sacra. E adesso lo sai anche tu. Te l'ho regalato sì il mio tesoro più importante, che nasceva e germogliava, guarda te, proprio nell'Asia degli occhi a mandorla, proprio tra i profumi di peonie, proprio con due mani incrociate dietro la schiena, ad aspettare il proprio turno, educatamente. Succede di rado, ma che dico, deve succedere una volta sola, anche se il futuro mi riserverà ritmi e sacrifici diversi, anche se non avrò la possibilità di dimostrarti che “un giorno ti tratterò bene”; anche se mi hanno sconfitto a colpi di pala, anche se stai sfuggendo al nostro fato per chissà quali recondite perverse ragioni. Sad and Beautiful World, si è automaladdetto così il povero Mark; ci ha lasciati in questo modo. E adesso lo sai pure tu.

mercoledì 24 aprile 2013

La Principessa del Castello

Non guardo più le stelle aspettando che qualcuna venga giù. Non ce n'è bisogno. Si può fare altrimenti una cosa semplice, che ai più risulta banale. Appuntamento a Coffee and Cream, una telefonata amicale con uno sconosciuto, un po' di attesa condita dall'ennesimo racconto dell'ennesima avventura inimmaginabile; intanto Lei (che non è mia) fa il verso delle mie movenze, lo fa teatralmente, con ampi movimenti di braccia. Il Signor N sorride, ride, quasi applaude. Comincia così la nostra guerra disperata contro il sistema delle cose, contro i paraocchi della mente, contro le definizioni imparate a memoria. Poi si sale su un cab, il tassista per antonomasia o è fraterno oppure ha l'aria di chi si rompe i coglioni fin da quando ha aperto gli occhi la mattina precedente. Questo, nella singola fattispecie, appartiene alla seconda categoria. Bello mio, ti stiamo dando una banconota con la faccia della Regina e due luccicanti monete metalliche; mica per forza ci dobbiamo curare del tuo stato d'animo. I viaggi in taxi sono sempre una bella scusa per stare un po' zitti, per farci gli affari nostri. E così succede che io me ne vado un po' con l'ausilio delle mie fantasie, N Le tiene la mano, Lei si fa prendere la mano da N. Sporadiche frasi in italiano, poi triangolazioni di sguardi, “chi ha il codice?”; il tassista sembra quasi non ci sia, se non fosse per il fatto che dalle parti del counrty side è lui che ci sta portando. Alberi, come stessero giocando, in questo pomeriggio che volge a sera, nel centro del centro della nostra Inghilterra. Siamo arrivati, e impongo il mio sapere ai miei compagni di viaggio, ché questo posto io lo conosco, e loro no. Marco ci salta addosso alla vista, ci regala u po' di sano pelo; lei e Lei si abbracciano sincere, io e N ci regaliamo il milionesimo sguardo di intesa. Il profumo che viene dalla cucina promette; la palestra, la notte quasi insonne, il viaggetto a piedi per raggiungere il campus prima e quello in macchina per arrivare fin lì mi hanno un po' sfiancato. Fame, fame di cose buone, fame di cose che incredibilmente mi ricordano mamma, una calpestata allo yard, una visita alla casetta del signore sconosciuto, un primo brindisi fatto con gli occhi che scintillano. E i miei dubbi si appollaiano sulle mie spalle. Faremmo bene ad addormentarci tutti, qui adesso. La protagonista del mio racconto ci mette olio di gomito ad entrare di prepotenza tra le righe; ma che volete che importi. Le cose ordinarie dilettano molto di più. Intimare al cane di sedersi è opera svogliata che non ottiene risultati definitivi; intanto via di bacchette, nel castello di Castello, un occhio all'orologio, sicuramente la partita è cominciata. Ma non mi alzo da qui neanche se mi danno una rendita indicizzata. Lei (la mia?) mi canzona, si diverte in modo confidenziale, e io mi sento il Presidente. N ci arricchisce delle sue battute, Lei si sente protetta. Il resto del mondo è fuori. Anzi ancora di più. Perché appena al di là della finestra c'è un ritmo statico, un panorama di alieni, una prateria di dolcetti per le feste. Non c'è null'altro da aggiungere, se non fosse per le pietanze che catturano il palato, e lo fanno veramente. Non voglio andare oltre, preferisco lasciare i commensali lì, dove stanno, preferisco prendere vie traverse, magari la solitudine del sofa e la Champion's League non mi ridestano dal sogno che tutto ciò potrebbe essere vero. Un giorno, chissà. Ma anche no. Sento il fuoco della sigaretta bruciare la carta che avvolge il tabacco; sento i passi pesanti del cane coccolone che sta per raggiungermi, sento le risatine normali come “musica da un'altra stanza”. Sento che non voglio che il tempo passi, che voglio urinare negli angoli di questo paradiso; che voglio sfiorarle le mani. Guitar Hero ci ricorda chi è la vera Principessa, mentre io mi siedo comodo al mio posto, quello di chi deve solo osservare. Gli occhi di N luccicano di sonno, Lei è accondiscendente per grazia ricevuta. Non mi sento come un bambino che non vuole andare via, faccio ciò che di giusto va fatto. Arriva la telefonata dell'uomo elastico che ci riporterà tra i grattacieli, al campus, agli odori e ai sapori di tutti i giorni. Io mi avvinghio al bicchiere di moojito preparato da lei, Lei combatte con la voglia residua di coccole del cane. Il Signor N rimette le scarpe, posa le sleepers nell'apposito armadietto. Lasciamo il castello del Castello, i suoi profumi e le sue performanti prerogative; si apre la porta, gli abbracci si sprecano, i sorrisi però sono sinceri. Io e lei incrociamo uno sguardo. Tranquilla, questa attesa va solo perdonata. Toh, chi si era accorto che la sera è bella che inoltrata. Il cielo è limpido, le nuvole sono in ferie. Ma io tiro dritto, c'è un altro tassista che incomberà sulle nostre esistenze per un'altra ventina di minuti. E non rivolgo gli occhi al cielo; satollo come un dio greco nel giorno di festa, non guardo più le stelle aspettando che qualcuna venga giù. Non ne ho più bisogno.

martedì 16 aprile 2013

Al Mio Posto

Quel letto è troppo morbido. Ancora (quanto mi piace la parola “ancora”), nella penombra e nella luce; ancora, tra le dune di questo deserto sconfinato. Sempre, gli scarti dei ritagli lasciati fuori dalla porta di questa casa sconsiderata. Scendere dalla macchina, cappello alla rovescia, borsone in spalla, fare finta che tutto sia ordinario, fare finta che ci si sta incamminando verso qualcosa di definitivo. Fare finta. Il letto è troppo morbido, ci dormo troppo bene, eppure ho una voglia putrefatta che sia già mattino, che suoni la sveglia, che sia giustificato andare lì, a prendermi un po' di vizio artificiale. Sempre; i divani dividendi, una doccia casalinga, il cane che ci riempie di peli, la sua mano; le sue mani. Pagare la sua spesa con la mia card, ricevere un clamoroso e dolcissimo silenzio in omaggio. La sua felpa, i cuscini nel retro della macchina, le buste di Tesco, il succo, “hai preso il latte?”. La cucina è Hi-Tech, le lenzuola sono linde, il letto, sì proprio il letto, è troppo morbido e accogliente. Lo odierò tantissimo quando si tratterà di prenderne la via. Ma adesso è vita. Ancora (sì proprio ancora), le metafore grammaticali si scagliano su di me a cascata, la macchina è parcheggiata fuori, davanti la porta del garage; il tagliere mi consente di affettare i funghi e le zucchine; l'olio sta lì, al suo posto, sale quanto basta. Il cane mi chiede attenzioni, lei gira per casa. C'è sempre qualcosa da rimettere a posto. I piatti buoni, il sugo non deve toccare i bordi, “prepara il tavolo, se non lo hai ancora fatto”; il suo sorriso bimbo. Una parte di me si scioglie, ma resisto. Resisto perché l'uomo che è in me deve avere la meglio. Glielo devo, me lo devo. Un angolo del mio cervello è ancora affaticato sul pensiero di un letto troppo morbido, troppo rilassante; una sigaretta, ché qui si può. Oh se potessi. Poi il Kentucky, due “sostituti”, chissà forse come noi. Le lacrime che si ostinano a non arrivare; la mancanza di feelings, i miei angoli ascosi, i fiori artificiali. Arriva il Candido Poeta, ogni tanto lo fa: “morire al tuo fianco...”. Oppure no. Ancora, annaspare alla ricerca di angoli di giubilo, mentre si copre le caviglie per il fresco che accenna timido che la sera è bella che arrivata. Uno stanco lasciarsi andare alle terrene digitate, le sue sporadiche robe da teenager, il mio essere paterno. Ancora, il mio essere bramoso, il mio stare al mio posto, le sue mani, così diabolicamente vicine, così angelicamente lontane. “Un'altra sigaretta!!!”. Mentre così vorace è la mia voglia di sfiorarle quelle mani, e di farlo con sapienza (fin quando non lo faccio veramente). Fin quando non ripenso al mio posto in quel letto troppo morbido, alla mia sveglia, al mio stupido sacrificio di dormire un'ora in meno. Al momento buio in cui dobbiamo salutarci nel sole acceso del mattino brummo; al momento bastardo in cui ci muoviamo a scatti ché non sappiamo che tipo di abbraccio scegliamo dalla gamma delle formalità. Al momento cinico in cui dobbiamo smettere di parlare e parlare ancora, e dobbiamo prendere la strada del letto. Già, quel letto troppo morbido e comodo per passarci sopra una notte insonne, per passarci sopra con un ventaglio aggiornato di malinconie; morbido per spenderci una nottata di grattate di mani. Ma va bene così, forse. Ancora.

martedì 9 aprile 2013

E' Morta la Thatcher

Le luci del giorno fanno fatica a liberarci di loro. È solo perché qualcuno ha inventato un modo per spendere meno soldi, ma non è di questo che parleremo. Ci vorrebbe altresì un po' di buio, qualche darkeggiante e malinconica camminata verso l'oscuro e l'inaudito. Non andrò oltre. Parlerò invece di quanto sia diventata improbabile quest'esistenza fatta di mirabolanti attrattive, di corse frenetiche, di mostri da affrontare, di ruote di bighe da oliare... la perfezione è diventata entropia, il rischio è diventato ordinario, l'educazione caramelle da distribuire con poca volontà, ma tanta abnegazione. Non si può sbagliare più; oppure attendiamo il nuovo errore, così che possiamo imparare ancora. Ed ancora. Punto e accapo. Le luci del giorno fanno fatica a liberarci di loro, i raggi solari sono saette oblique che tagliano gli alberi, i pezzi di asfalto, le lamiere delle automobili con la guida a destra, e le velocità sinistre. Mi fa male una parte di corpo, e attendo; attendo ancora. Forse è questa impazienza che mi dice:”Fabio, è per merito mio se puoi dire al resto del mondo che stai vivendo”. Per carità, non ho mai messo in dubbio 'sta cosa. Il mostro è stato affrontato, un altro ancora nella mia vita di piccolo uomo che si fa grande nelle occasioni sbagliate. Adesso, please, un'altra avventura da sperare che sia definitiva. Fortuna che Frank sta male e la sua voce è cambiata. Fortuna che 'sto minilaptop ha fatto il suo tempo e allora dobbiamo correre ai ripari; fortuna che posso anche non rispondere al telefono. E fortuna grandissima che in pochi capiscono ciò che ho fatto. Io, essere ogni giorno più completo, che mi nutro delle mie prerogative. E basta. Mi cucini i dumplings e poi vuoi parlare? Sei la benvenuta, ma non sperare che la cosa duri per sempre, “You just haven't earned yet, baby”. Cos'altro c'è adesso? Attese lunghe lunghe, camminate aspre su sentieri sconosciuti ma incredibilmente allettanti, un'altra lavatrice da fare; una tazza di caffè, un po' d'acqua calda, please. Tutto ciò fino all'ultima puntata dell'ultima serie. E poi? È così che funziona, stiamo veramente passando la vita sperando di avere, un giorno, un bel funerale di stato. Che gran fortuna!

mercoledì 3 aprile 2013

Atlantide

Lui adesso vive dentro una membrana gelatinosa, stira il collo sperando di romperla, di spezzarla, di annientarla, di distruggerla. Che fatica. E che malinconia stare ad osservare inermi, mentre i cuori battono a ritmo impari. Orchestra stonata. Correnti alternate nella sua vita, giochi proibiti e semplici colori, due birre immaginate, apologie di reati. Lui adesso vive dentro l'involucro del piumone, sta cercando di tirarsi fuori, ma si è appena accorto che sta dalla parte chiusa. È un'allegoria di una partita di rugby, la sua vita. Passaggi all'indietro, guadagnare terreno scarso, fatica immonda, la meta lontana. Lui adesso vive dentro un contenitore di proteine, tira tutto sommato i pesi, sente i dorsali crescere di nuovo. Nasconde sotto il letto un paio di scarpe per ogni occasione. A volte, solo a volte, ritiene, o fa finta, di essere erudito. Lui sta quasi nel quinto decennio, eppure si riscopre ammaliato e sopraffino ad annusare i suoni, e ad ascoltare profumi. Baudelaire! Lui, sì proprio lui, adesso vive nella terra di mezzo, una quantità infinita di spazzolini da denti, un eroe cinematografico falso a fargli compagnia col suo russare; talvolta lugubri pensieri. Poi Portogallo, tirando pietre da lì. Lui vive, e pare spruzzato via da uno spray, a volte. Non ha mai sognato la California (o meglio, forse è successo un paio di vite fa); preferisce l'East Coast, il sibilo gommoso delle scarpe da Basket sul parquet, la lampada di ultima generazione. Lui vive su un sofà, aspettando che si ripeta l'infinito di una proposta fatta con cautela; oppure ancora, lui vive di giardini sul retro, calpestati con sufficienza a piedi nudi, gli shorts macchiati di una qualche salsa caraibica, o africana, in mano un arnese che forse non serve a niente. Se lo chiedono in tanti, se lo chiedono in tre, ecco la risposta. Non ha mai saputo suonare la chitarra, ma quella di Joey Santiago la ascolta eccome. Lui adesso vive nel cuore della sua eterna vita, “sotto una veranda ad aspettare le nuvole”, in contemplazione, con un mucchio di treni che gli passano accanto. Lui vive chiudendo gli occhi, anche un po' scostato, disorientato, assetato, in assetto di guerra. Guerra che fortunatamente perde, ogni tanto. Così pensa l'uomo di passaggio, che sorvola fresco nella notte brumma, quando puoi sentire respirare in tutte le lingue del mondo questo circo senza affari, che giocherella con la vita. Mentre lui vive, indeciso ma pronto, dubbioso ma concentrato sull'obiettivo, abbietto e poeta. Ditele che l'ho avuta tenendola per le dita, ditele che la perderò perché gli atomi sono pieni.

giovedì 28 marzo 2013

Tre Destini

Le canzoni molteplici si avvicendano dentro di me. Scatto una foto panoramica del mio mondo; scatto una foto panoramica della mia essenziale vita con finestra sul cortile, sulla strada, sul niente di niente. Seduto su un divano, mi metto un po' più comodo, e allora mi ci sdraio, quasi mi ci stravacco. Passa un pezzo di Pavement, lei distoglie l'attenzione dalle sue cose e mi chiede:”chi sono questi?”. Paradiso! Marco, il grande cane che da subito mi ha amato con la passione di un animale che vive la sua noiosa solitudine, adesso ha capito il ruolo che gli è stato affidato. “Band anni novanta!” sentenzio io, mentre in due ci si ferma a fare l'aritmetica di quanti anni aveva... Ancora foto panoramiche, di questa living room che ci avvolge, di questo smart phone che mi riporta indietro nel tempo, del suo laptop di ultimissima generazione che l'aiuta nell'arduo e felice compito di organizzare un viaggio lungo. Lontana da me. Lontana da me, con tutti quegli averi, con tutte queste performances che la attanagliano, che la schiavizzano, che la rendono distante anni luce. Eppure è qui, due piedi poggiati sul tavolino di fronte, due mani sapientissime digitanti sulla tastiera, due occhi misericordiosi attenti e concentrati...un piccolo sguardo rivolto al sottoscritto che da di matto sforzandosi di mantenere il tutto ordinario. Il cane accucciato, le sigarette di tutti i tipi sparse sul tavolo, una birra cinese, una coca, un pezzo dei My Blody Valentine, nessuna richiesta di sapere chi sono. Poi un'accorata occhiata alla finestra che da su questo sconosciuto mondo che prende il nome di un Castello, i piedi liberi dalle scarpe, una carezza a Marco, “good boy” (non ho mai sentito un suono più dolce); e la prendo per mano. Niente storiacce sporche, niente ardori artefatti, niente plastiche esibizioni. “Ti sto guardando camminare, ti sto osservando nel tuo incedere, so con esattezza che stai percorrendo il giusto itinerario. Ma non interverrò neanche sotto tortura”. E mi basta così, mi basta tanto. Provare nuove convinzioni, accettare nuovi tempi d'attesa, dormire in stanze diverse e avere timore di ricongiungersi da qualche parte nella prima mattinata. Primo strato di ghiaccio eliminato, adesso un bel break. Ancora avvicendarsi di canzoni, “Sing me to sleep” suggerisce il Candido Poeta; c'è il tempo per il pranzo, noodles e uova e pomodori e cipolle. “Chopsticks or fork?”, e me lo chiedi? Gli occhi che si incrociano, errori di battitura, firme su ipotetici “pagherò”. Il cane ci chiede attenzioni, e noi non lesiniamo. Fantastica scusa. Ancora divani, ancora domande e risposte, ancora risate e pianti, o tentativi di pianti. “Numero trentacinque”, “le cose che abbiamo in comune”, prossima volta pasta, prossima volta cinema. Prossima volta. Lenti, come le mani che si sfiorano, come il pane che cresce dentro il forno, come i pensieri pomeridiani che trasvolano leggeri mentre il sole è andato via, la luce diventa fioca, gli occhi si chiudono e si schiudono; una voglia matta di andare da qualche parte a dimenticare insieme il passato bislacco; poche certezze, ma ci sei venuta al pub in cui bevevo da solo. Si avvicendano le canzoni dentro di me, mi occupano per non farmi incappare nell'errore della velocità. Tre destini benedetti, in questo angolo di mondo, in questo angolo di una casa troppo grande, in questo soggiorno assassino, che uccide tutti i passati con una raffica di particolari. È l'ora di andare, e allora sulla macchina saliamo in tre: io, lei e Marco; il silenzio ci chiama e ci coccola, dagli altoparlanti arriva qualcosa, io sto con i Pixies, grazie. Una controllata paterna a Marco che sta dentro il cofano, ma ci sta leggero e tranquillo. Che voglia matta che ho di essergli presente. “Lasciami qui”, un bacio buono buono, strizzo l'occhio al cane. Poi percorro docile la via che mi porta a casa. Si avvicendano le canzoni, io resto sospeso, scatto un'altra foto panoramica che va dalla voglia di realtà al sogno speranzoso. Decido per la palestra, inforco le cuffie, adesso le canzoni durano il giusto. Non ti rivedrò per molto tempo. E sono convinto, finalmente, che sia giusto così.

martedì 19 marzo 2013

Le Età di Lulu

Le primavere sono tante, alcune sono false. Il Bcb diventa fonte di guadagno, di spiragli, di ritorni. Il Bcb diventa due volta casa; e allora, gioco forza, c'è più tempo per scrivere, per divagare, per sfoggiare un inglese striminzito ma funzionale; per messaggiare, per bagnarsi di sogni che diventano incubi, di speranze che diventano sogni, di incubi che diventano profumi. Intanto ho dimenticato di dire allo chef di non mettere aglio nel riso al doppio arrosto in un luogo che si chiama Sim Su Ye, o cose del genere. Ma che importa? Lei pare immensa, e la cosa mi preoccupa e mi fa stare bene allo stesso tempo. È sempre così, nessuna aspettativa e il traghetto è già bello che in alto mare. Voglio dire, io e l'intera Cina ci siamo riappacificati in un sol colpo! Anche se ha i capelli colorati, una macchina di grossa cilindrata, il concerto di una qualche cantantessa dinoccolata a Maggio. Forse mi ha pure invitato, ma io stavo da qualche altra parte, stavo ancora seduto in quell'angolo di Chinatown, stavo ancora guardando la sua bocca schiudersi in un sorriso. E poi ancora, stavo guardandola allontanarsi nel suo essere cool, così cinese del Nord, così ben ambientata in Europa. E allora la più puerile delle domande non si scioglierà così facilmente. Cos'avrà voluto dirmi con quel “I'm really lucky to meet a friend like you”? Le primavere sono tantissime, lo so, vi prego, non c'è alcun bisogno di ricordarmelo. Ma io vivo di questo, ho sempre vissuto di ciò. Di tuffi in queste piscine di buoni propositi, di atti definitivi, di palazzi sormontati da tramonti; c'ho trecento pound in tasca, mi bastano fino alla fine del mondo. Cioè stasera. Come volevasi dimostrare l'America Centrale non ha poi tutta questa importanza nel Risiko, e un motivo ci sarà pure. Ci sarebbe da fare l'elenco dei point in common, ma poi mi sovviene di sobbalzo che magari stiamo inventando qualche storia supplementare. Che meraviglia sarebbe. E che scoperta grama, visto che so che le primavere sono tante, e alcune sono false. Storto come un ramo dilaniato dal vento, mi aggrappo solenne al mio accento italiano, alla mia supposta natura fashion che non si sa mai. Potrebbe essere una deriva diaspora derelitta disarmante. Poi il suo modo di tenere le mani sul volante, i miei occhi fissi sullo spiraglio di viso non nascosto dai capelli colorati; e ancora le mani...al prossimo che mi chiede perché sono attratto da codeste cose magari arriva un pugno. Mangio l'ennesimo biscotto al cocco tempestato di cioccolato, il sapore aglioso dell'immenso gusto di una cena insperata non mi sta abbandonando docile. Io mantengo con facilità delittuosa la voglia di correrle dietro; aspetto. Certo cambierebbe il mio mondo odierno se solo inserisse la retromarcia. Se solo prendesse la tangenziale, se solo facesse una curva lunga lunga tracciando una maiuscola C di Cuore. Allora Dio avrebbe un senso, perché anche di Lui abbiamo parlato. Le primavere sono innumerevoli, sembrano tanti cerbiatti che scappano impazziti di felicità. Sembrano astronavi spaziali che salvano l'umanità dal pericolo imminente; sembrano primavere. Alcune sono false, ma anche loro all'inizio danno quella sensazione. Poi si perdono. Poche, pochissime, sono come i treni in partenza per Liverpool, come le finali del mondiale, come un passaggio trovato in mezzo al deserto. Il sapore dell'aglio si disperde pacifico e manganellato. Io e il mio sangue l'abbiamo scampata bella. Io e il mio cuore ci stiamo guardando trattenendo il respiro. Con dedica speciale a chi non crede nella grandezza di Fabio e delle sue capacità. Con affetto e simpatia a chi crede ancora che di primavere in un anno non possano essercene più di una. Come vorrei farti piangere di gioia...

lunedì 11 marzo 2013

Some Girls Are Bigger Than Others

Amanda vorrebbe trattenermi a casa sua, al centro del centro di Chinatown. “Se hai sonno, puoi sempre dormire qui...”. E io, sergente astuto, faccio finta di niente; non mi curo del fatto che subito dopo l'eiaculazione ho già preso il volo, sono già fuggito via come l'Islandese, e non mi sforzo di non farglielo capire. La tristezza è una cosa meravigliosa, amica cara, ma solo se a produrla è il mio deep inside. Fakebirthday's Cakes fanno capolino sulle paginette stanche delle virtuali cose, frasi assassine senza spazi e punteggiature producono il puerile abisso tra me e le mie pochissime certezze. Amanda dovrà aspettare il suo turno, in compagnia delle sue lacrime false e profondissime, in compagnia del suo letto quasi sfatto, in compagnia delle sue canzoni R n B da adolescente occhialuta ogni anno promossa, nonostante abbia da mo' superato i trenta. Fortuna che ho portato gli auricolari, così mi disintossico un po', e la lunga passeggiata verso il ristorante è cadenzata dal suono Lo-Fi dei Blond Red Head, due italiani e una spettacolare ragazza orientale. Fate vobis! Il Conclave Asiatico deve ancora iniziare, anche perché non si è ancora capito se la Papessa in carica si sia effettivamente dimessa, o sia morta dentro un uovo. Scusate l'ardire. Il finto ristorante italiano che mi conosce bene ha la prerogativa lancinante di aprirmi i battenti davanti, come fossi il vincitore. Un'occhiata a destra, una a manca; un bacio di qua, un saluto dall'altra parte. Vicino alla cucina c'è un tavolo di black girls, di quelle che a volte mi mettono in testa la strana idea di resettare la mia bussola. Basterebbe un “I'm Fabio, Italian Guy!!!”, per sconcertarle un po'. Scorgo il tavolone variopinto delle mie amiche, mi ci butto come fosse serve and volley, battutine astratte, non tanto comprensibili, ma i galloni del simpa me li sono guadagnati in tempi non sospetti. Sembra una pagina word in giustificato, questa congrega variegata di vagine al mirtillo, questo passerume che non mi suscita attrattiva, salvo il caso di mantenermi vigile e con l'animo perennemente abbronzato. Tiziana porta gli occhiali, e mi piace pensare che essi stessi producano di me un'immagine che si avvicina tanto alla forma di una fotocamera:”Mi fa una fo'o?”, si proietta ortogonalmente la ragazza fiorentina. Ma sarebbe riduttivo didascalizzarla in sì modo. È vero che basta un semplicissimo “non rompere i coglioni Tiziana”, ma mi ci vorrebbe un mese di post per spiegare realmente cos'è, e cosa porta in dono questo piccolo grande caterpillar che viene dalla toscana, che porta sorrisi e canditi, che porta massi sul cuore, cercando con un'educazione martellante di distribuirne il peso su tutti noi altri. Asia è la regina! Non foss'altro che per il pancione che porta seco, e che tiene dentro il piccolo miracolo che, ormai l'ho capito, non si chiamerà mai Fabio; ma in fondo che importa. Una cucchiaiata di torta, un limoncello malandro che si mischia fluttuante alla mezza bottiglia di vino cileno che ho ingurgitato poco prima per farmi piacere l'idea di mettere le mie sacralità nel corpo dell'Amanda di cui sopra. Sabrina, la signora bbona, cammina sul filo invisibile tra il sofisto e la pajata, il suo inglese è fluent e trasteverino, il suo corpo è modellato col marzapane, le sue tristezze sono messe in ordine, i suoi vizi in vetrina. Ce la vedo bene, Sabrina intendo, con un cappello a falde larghe, un sorriso allo yogurt, e un tramonto caraibico. Il ruolo del Jolly è della mia piccola Laura, che mi guarda di tre quarti perché io e “quello stronzo” condividiamo lo stesso giorno di nascita, che gioca il gioco della sincerità, che mi punta il dito contro con la consapevolezza che mai sarà offensivo, che accende la luce con un semplice sorriso, ché noi siamo amici da tempo immemore, e lo eravamo già il primo giorno che i nostri occhi si sono incrociati. Il resto è un po' contorno, poca attrattiva, sembra tutto già masticato; una volta che sai come funziona, puoi partecipare facile facile al quiz show. Ma poi arriva Sara, che è ingegnere . Arriva Sara, che ha le braccia affusolate, il culo alto, le trame del viso ammalianti, e vota per La Destra. Ci si sfiora un po' le mani vicendevolmente, ci si parla di cazzate e di cose che potrebbero cambiarti la vita. Sara sta messa lì, nessuno direbbe mai che fa eccezione, ma per me è come se indossasse l'alta uniforme in mezzo alle mimetiche. Ci scherza su, Sara, ci va con le molle, ci gira intorno, e poi magari si chiede cosa realmente vorrebbe dalla vita. E io vorrei urlarglielo in faccia che “no, non funziona così”. Oppure vorrei portarmela a letto, e provare con lei le porcherie che diventano pulite tuttauntratto! Ma io sudo volentieri cercando di rimanere aggrappato ancora un po' a questa esistenza un po' packman. Con l'ultima vita e col pillolone lontano. Mentre cammino a ritmo verso casa, mi accorgo con letizia che la batteria dell'I-Phone è lontana dall'abbandonarmi, e non penso alle occhiate furtive dei signori nei tavoli vicini che posticciamente invidiano la mia presenza da unico maschio in un tavolo al femminile. Non penso al ballo goliardico del Pitcher and Piano. Non penso a Sara volata via prima del tempo. O alla Lauretta caduta ancora nella sua piacevole ragnatela. Non penso a Tiziana, passata ad un altro must delle sue ricorrenze:”Oh Fabio, metti le fo'o su feisbuk”. E non penso a Sabrina, alle sue rughe sexy, e al nostro modo dirty di dare spettacolo al mondo. Le amo tutte, del mio amore malvagio e indiscriminato; travolgente e superiore. Penso invece ai Blond Red Head, due ragazzi italiani, e una giapponese spettacolare. Penso al mio speciosissimo Conclave, e alla mia Papessa, dimessa o morta dentro un piccolo uovo di niente.

venerdì 1 marzo 2013

Si Sta Come D'Autunno

Dalla lettera di un soldato al fronte

Ovunque nel Mondo, In Qualunque Momento

Cara mamma,

so che dovrei dirti di non preoccuparti, e che sto bene. Ma so anche che mi hai insegnato il valore dell'onestà, che sta alla base del nostro comune fine, e che devo metterlo in pratica in ogni occasione. E quindi che onestà sia. Fa tanto freddo qui, forse e soprattutto perché siamo in pochi, e allora risulta difficilissimo riscaldarci vicendevolmente. Anche se noi sappiamo benissimo come si fa. Il nemico ci attacca da tutte le parti; sono orde di animali inferociti dalla voglia di appartenere a qualcosa, dalla brama di sentirsi importanti. Le nostre postazioni di artiglieria pesante si producono quotidianamente in uno sforzo sovrumano nel tentare di arginarne l'incedere. Ma non bastano i meriti e le competenze. Loro hanno una stupida furbizia dilagante che riesce a toglierci le forze. Stiamo arroccati qui, nella nostra trincea di sogni e di munizioni spuntate che non vengono recepite dal nemico, e loro attaccano da ogni dove. Li riconosci perché sovente hanno una camminata dinoccolata, accompagnata da una risata senza stile, senza leadership, senza karma; altre volte sono perfetti nelle loro uniformi impeccabili, anche quello è un espediente che vorrebbe mimetizzarli. Noi fortunatamente non cadiamo nell'inganno. Anche se non siamo equipaggiati per le semplici scaramucce, noi vorremmo disintegrare ogni più piccola molecola che li compone. Di tanto in tanto ci astraiamo dalla lotta e osserviamo le vergini praterie. L'altra settimana, cara Mamma, abbiamo cercato di fermare l'avanzata nemica con raffiche di gergo ricercato; poi abbiamo rincarato la dose citando Leopardi a memoria; e Giuseppe Giusti, e la Revolucion dei Peones. Naturalmente non hanno capito che era solo sfoggio di erudizione! Anche se loro stessi hanno poi risposto al fuoco con delle risate starnazzanti, e allora abbiamo dovuto riparare in un angolo del campo di battaglia. Il fatto è, mia dolce Mamma, che non c'è acume che tenga, non c'è logica che basti, non c'è educazione che possa, contro l'assordante fragore delle loro musiche “giuste”, del loro artefatto divenire. Dovremmo studiare il modo di isolarne uno, solo così possiamo annientarli, stanandoli uno per uno, senza che essi usino la becera forza che li contraddistingue quando in gruppi più o meno corposi si raccontano distorsioni di verità. Ma farlo richiederebbe troppo tempo, e allora anche la nostra missione prenderebbe le forme e le sembianze della loro. L'unica è cercare di bombardare le loro nuove leve con degli ordigni di umiltà, e di apertura di meningi. Ma come fare a isolarli dai loro superiori? Questi ultimi sono essi stessi un'arma quasi invincibile, un ostacolo insormontabile. Il fatto è che la nostra guerra la stiamo conducendo contro persone che hanno la convinzione di essere come noi. Ci abbiamo provato con il tatto, con i sorrisi ammiccanti, con le parole semplici da tramutare, via via, in più complesse. I più temerari tra noi sono addirittura usciti allo scoperto, e hanno sparato raffiche di buona volontà, di tertuliano cameratismo, addirittura di bontà. Ma ahimè cara Mamma, abbiamo visto i nostri nemici nella loro macabra trasformazione, e da semplici spettatori si sono arrogati il diritto di avere voce in capitolo, cosa che fanno con una velocità disarmante ed impressionante. Quella è stata una cocente sconfitta, una dura ritirata. La ricerca dei rinforzi è operazione che va per le lunghe; a volte capita di essere convinti di avere trovato un buon soldato per la causa, ma il più delle volte si scopre che è stato il nemico, il beffardo traditore del pensiero, a mandarlo, tanto per confonderci le idee. Altre volte, e ciò mi disarma più di tutto, è la stessa nuova leva che non si capacita del fatto che lui, per sua natura, appartiene alla fazione che sta al di là delle nostre barricate. Così ci tocca pure di combattere all'interno del nostro perimetro, ed è difficile fargli capire che per stare con noi egli stesso deve cimentarsi in un cambiamento radicale delle proprie convinzioni. Anche se in questi casi, Mammina, c'è sempre la valida opzione del viaggio culturale, della visita ad un museo, magari per cercare di immaginare cosa stava pensando l'artista mentre pennellava; oppure un bel bombardamento di conviviale discussione sulla cinematografia di Scorsese, sui temi ricorrenti di Kubrick, sul frenetico montaggio di Oliver Stone. Quando succede, li vediamo scappare via ammutoliti, e allora rincariamo la dose sulle ali dell'entusiasmo, e ci mettiamo dentro elementi di psicologia, studi dei comportamenti umani, sociologia, fisica, poesia applicata ad uno qualunque dei rami dell'esistenza. Dovresti vedere le loro facce, Mamma, coi loro occhi spalancati, con i loro sguardi persi nel nulla. Sono quelli i momenti in cui ci mettiamo più lena, e allora aggiungiamo un'arma che loro non posseggono: la voglia di imparare. Solo così pensiamo che alla lunga possiamo sconfiggerli. Ma poi sembra quasi si moltiplichino, e allora è come se dovessimo ricominciare daccapo. Ieri il Capitano ci ha detto che l'unica arma che dobbiamo avere in comune con loro è la perseveranza. Anche se sappiamo benissimo che la nostra perseveranza e la loro hanno nature diverse. Il mio compagno di battaglia mi da ragione quando dico che la loro non è proprio perseveranza, è più ripetitività. Loro sono come le falene che sbattono costantemente contro la lampadina accesa, si bruciano, scappano dal calore, riguardano verso la luce, ci si ributtano, si ribruciano e così via...
Spero che tutti voi a casa stiate bene, e non preoccuparti troppo, Mamma, sai benissimo che i Cretini difficilmente fanno più male del fastidio che provocano; quindi fossi in te non mi lagnerei troppo di ciò che di realmente pericoloso potrebbero fare alla mia persona fisica. Preoccupati piuttosto, come facciamo noi che abbiamo scelto di stare qui in trincea, di ciò che potrebbero, dilagando, fare all'intera umanità.

Con tanto affetto, e tutto l'amore di cui sono capace

Tuo F

P.S. Se non vieni raggiunta da questa missiva, probabilmente è perché il postino è un soldato nemico

mercoledì 27 febbraio 2013

Passo Passo

Figurati se ci credevo. All'esame da persona matura, ennesimo esame, mi sono fatto prendere dalla ludica tentazione di lasciarmi prendere da bassi profili. Ancora una chance, e il mio ego... non più di sei chili. Che settimana stellare è stata. Il fatto è che le stelle stanno lì, stanno sopra; io le guardo, le ammiriamo tutti per carità, ma non posso ancora toccarle; non che ci sia tutto sto cielo che le copra. Si va di messaggi, di foto, di tiri all'incrocio dei pali; ci si diverte punzecchiando di qua e di là, forti sì, forti di un'avanzata età; ma ancora Fabio non si decide a mettere le ali. E poi si cammina per le strade mattonellate della brummia; tra le voci bianche di fine ottocento, con la birra a portata di mano, parlando di medici che fanno un gioco sporco, di piatti tipici, di mariti assenti. E dai, giovanotto, la vita è lunga ma può sembrare un sol momento. E poi calunniatori di sé stessi, partite di rugby osservate da tifosi improvvisati, parties vuoti come il barattolo di nutella che apri, raschi avidamente, ma ti lascia l'amaro in bocca. Ma veramente vuoi dare contezza a questa manica di fessi? Poi arriva Zoltan e porta in grembo il Salvatore. Schiena dritta, Mister Fabio! Dici una parola e tutti ridono, tiri dal Ventolin l'inalatore, metti un uomo davanti alla porta. La tua vita, oh piccolo poeta, ancora cadenzata da un contratto a ore. Sempre più cretini in mezzo alla via, ma non è una novità; sarebbe bello invece ritrovare la pura adolescenza di qualche mese fa, e ritrovarne la natura concreta. Un bacio e una cartolina, e tanti saluti alla zia. Un basco, mi ci vorrebbe un basco da indossare, o mi ci vorrebbe il coraggio di cancellare tutto ciò che ho scritto finora. E adesso alla trappola della rima in che modo casco? Chi devo per forza ammaliare? E devo farlo ora? A proposito, Andrea mi ha quasi convinto, sarà autobiografico e parlerà di un bel po' di voi. Posso sorridere chiedendovi di non mettere il carro davanti ai buoi? Cerchiamo di rimanere sul pezzo. Sento i grilli timidamente avvicinarsi alla preda, ma 'sta cosa la osservo passivo; tanto da qui sono immune ad ogni cosa che mi leda. Sento la comunità crescere piccola e decorosa, ma ogni tanto le unghie vanno almeno limate. Sento dire da più parti parole impensabili, commenti innaturali, complimenti impossibili e di scudi levate. E l'operazione è tanto d'uopo quanto disgustosa. Me li prendo tutti. Sento l'odore di vaniglia dell'autostrada negli anni ottanta; la canna di bambù, lo sterco di vacca. Commercio con me stesso un sacco di paglia, la spaccio per manna, in realtà forse è solo cacca. Vedo la mia barra download al novanta percento... meglio di niente, no? Forza ragazzi, non ci capirete niente, ma è soltanto un momento. E poi aspetto, aspetto che le montagne russe tornino ad essere di prima scelta; niente più schermi, niente più giochi di pensiero, niente più involuzioni. Poi arrivano le minigonne, le nottate in solitaria, e i soliti coglioni.

martedì 19 febbraio 2013

Un Folle

Il mio non è proprio talento
è più aria tersa,
mancanza di spavento
che sia una guerra persa
il mio non è proprio coraggio
mentre gli altri anelano e sbuffano
vai con l'allunaggio
e i colletti bianchi truffano
la mia non è cattiva creanza
è gioco e stilettate
scambiate per urgente arroganza
oh, amiche mie fatate
il mio non è grasso che cola
è un giocattolo archibugio
una mascherata che da sola
toglie per sempre qualsivoglia indugio
le mie non son mica anarchie
sono più difetti sociali
stupende stanno le anime pie
di fronte a cotanti madrigali
la mia è tutt'altro che speme
ma si rinnova di storte e di destre
che vorrei tanto spargere il mio seme
sentendo spiriti, uno sguardo alle finestre
il mio non è astio oppure odio
ci vuole pazienza e ce ne vuole sì
perché mai ci finirai sul mio speciale podio
e la decisione l'ho presa un po' così
il mio non è uno stare statico
poiché appartengo a tutti i posti
e lo dico con o senza rammarico
io non devo piacere a tutti i costi

martedì 12 febbraio 2013

La Semplice Regola

Tre, come le strisce della Adidas
come le marmellate da scegliere la mattina
come le volte del mezzodì
come le volte in cui ci si stira e poi ci si china;
come i siti da controllare
ogni volta che accendo il pc.
Come i tempi prima di saltare
durante un pezzo dei Blur,
come i movimenti da fare
prima di alzarle il vestito
e vedere cosa c'è dentro.
Tre,
come le amiche sedute accanto a me
che fanno il turno per lanciarmi le occhiate
prendersi a manate
che si scrutano
dentro un sentimento
che potrebbe finire da un momento all'altro...
Ma anche no.
cominciamo daccapo.
Tre,
Perché meno di tre non do
in questo mondo universale
dal quale mi astraggo volentieri
per portarti a ballare
per portarti a prendere un tea.
“Due zollette grazie”.
Tre settimane
tre grilli, tre mode da seguire
tre giganti da cui scappare.
Tre mete da conquistare.

venerdì 1 febbraio 2013

Inebrianti Aspettative

E adesso voglio scrivere. Voglio scrivere di quelle aspettative che fanno pensare alle periferie della vita; di “Addio alle armi”, di quel pezzo che ti torna in testa, te lo canti, finalmente, passo passo, te lo traduci. Voglio scrivere ancora di palazzi luminosi, di manga, di chiese sconosciute, di occhi che luccicano. Di un paio di esperti tanga. Di candele, di visi che con tenacia si tengono aggrappati ad una fanciullezza che non torna più. Che resterà per sempre lì. Che non se ne andrà mai. Voglio scrivere di peccati, di quei peccati così artefatti che quando li compi senti di far parte di una recita col fiocco rosso sopra. Nessun velo mi copra. Voglio scrivere perché l'autocompiacimento è sale, frutta e accordi. Scrivo adesso perché più tardi potrebbe essere diverso; tutto potrebbe precipitare da là. E io, e voi, e tutti....insomma la vita ha bisogno di 'sti gingilli dolci prima, poi chissà. Voglio scrivere di tennis, servo e scendo a rete. Di viaggi, di itinerari, niente mappe, niente mete. Eh già, voglio scrivere di coraggio, di esistenze ripartite in millesimi; voglio raccontare di facezie e tenerezze che scappano via dalla mia testa e poi, amici intimi, e poi festa. Voglio solcare l'intercapedine che c'è tra le lugubri incombenze e i sogni proibiti. Voglio mangiare i torsoli, le lische, sperando nei canditi. Tagliare di netto l'azzoppante cordone; voglio varcare la soglia dell'infinito, voglio partecipare alla sorda collettiva masturbazione, che ci isola gli uni dagli altri, e ci tiene dentro il calderone. E la voglio raccontare, con le mie parole, con i miei guizzi, con i miei scatti, con i miei soldatini di piombo. Ci voglio dentro il tuono, lo scrosciare assordante, il rombo. Voglio scrivere adesso, e poi voglio farlo domani, e ancora e ancora. Come un aereo che decolla (a proposito, ne leggerete mai le gesta?), voglio innalzarmi terminatore, malandrino, santo, tumido, altezzoso. Voglio guardare fiero dritto nel tuo sguardo, e voglio che sia incantato, maldestro ed ombroso. La mia parola contro quella del mondo. La mia parola con tutte le altre. Voglio scrivere adesso, di come sarebbe gentile, da parte della vita, che ancora una volta le brame si frapponessero docili a ciò che sto per fare. Voglio scrivere perché c'è ancora tempo, perché al tempo non si può rimediare; e allora voglio sviscerarle ad una ad una queste quattro omissioni tenute dentro, tenute care, attaccate alla bacheca, con le puntine da disegno. Voglio, te lo giuro, soltanto ridere con te, e magari un bacio in pegno. Colazione tra amici, un'occhiata furtiva al terminal arrivi, un boccone veloce, un suggerimento volutamente sbagliato. Una punta di sarcasmo, la scollatura a vù, una goccia di Dior. Voi andate via, io resto. Resto perché voglio continuare a scrivere, a darci dentro col martello. “Do you love me like I used before?”

mercoledì 23 gennaio 2013

Giro di Vite

Non v'è male e non c'è neanche certezza
se questo biancume brummo ti prende a tenaglia
ti chiesi soltanto una sporadica carezza
e finalmente sto qui, sbuffando una paglia

le ire e le truffe lasciamole a parte
si gioca un gioco che non è da poco
non è Giove, né Venere o tanto meno Marte
fai un passo solo, e resterai qui in loco

già solo, con tutto l'universo, tutto me stesso
a ricalcare fedele pagine ingiallite
ché la vita è libri, ma anche lacrime e sesso
per dare al becerume un bel giro di vite

sembra quasi che non vi sia più nulla
sembra proprio destino segnato
nessun biasimo, ma resti tanto grulla
della presenza di Fabio dolcemente naufragato