martedì 30 aprile 2013

Vivadixiesubmarinetransmissionplot

Succede di rado, ma succede. Capita quel momento in cui ti vuoi lanciare, allora ricordi che nel tuo profondo, nel tuo deep inside, tra le frasche e le more, nel sottobosco, ecco lí, c'é una chitarra che arpeggia. É la “Reginetta del Ballo", proprio come la tua, proprio come quella che vorresti portare con te. Proprio come quella a cui vorresti regalare il mito del tuo mito. La tua seconda adolescenza, e anche la terza. Tieni, questo é uno Spirit Ditch, mi appartiene da sempre, ti appartiene da sempre. Ragazzi che rischio. Dare, anche solo per un attimo, la cosa piú preziosa a qualcuno. Anche se quel qualcuno ti entra nelle vene, ti scruta fin dentro le molecole, e poi ancora fino alla fine degli atomi e delle stringhe. Hai ascoltato? Tre volte. Come una corsa che farei fin lí, come uno strumento che imparerei a suonare facendo per te un concerto; come un animale che squarterei per banchettare insieme, tu ed io, consapevoli di noi stessi. Su un parco, col fumo che ci viene addosso, col cane che scorrazza felice. Ma ecco che arriva Spirit Ditch, ecco che si insinua tra le righe, cosí sporca, cosí disumana, cosí ammiccante e puttana. Ti spoglia, ti viene incontro, ti dice chi sei, te lo diceva quando eri ancora una bambina. E a volte mi odio per questa bravura che ho di circondarmi di genii. Mentre tutto scivola via sulle parole di una telefonata campionata, e Mark ci ricorda con la sua voce che é immortale nonostante si sia involato verso i prati verdi dell'insperato oblio, io mi ricopro di paure. Paure sconfitte subito da quel “tre volte”. Prendiamoci una pausa, giusto il tempo di dirti che non voglio stringerla la tua mano, voglio solo tenerci sopra la mia. Si lo so, c'é la Safety Car, non si puó superare. Peró, tu, la “piú bella vedova in cittá”, parcheggi la macchina sotto il campanile; tu reciti la parte dell'impresentabile che non puó fermarsi a prendere un panino. Ti fai desiderare, e poi (ti perdonerei questo atteggiamento anche se dovessi rinascere sotto forma di cavallo imbizzarrito), be' poi ci vieni ad osservare le palle che entrano in buca. Quindi succede, anche se di rado, che ti offro il ruolo di ospedale, di macchina e di stella; che mi denudo un po' per cercare di scuoterti, che ti riempio di regali che non compro, ma che prendo direttamente dal cassetto che sta sotto il mio addome. Una Vacca sacra ci porta lontano, come fosse un viaggio in autostrada, come fosse vento tra i capelli, come fosse una Vacca sacra. E adesso lo sai anche tu. Te l'ho regalato sì il mio tesoro più importante, che nasceva e germogliava, guarda te, proprio nell'Asia degli occhi a mandorla, proprio tra i profumi di peonie, proprio con due mani incrociate dietro la schiena, ad aspettare il proprio turno, educatamente. Succede di rado, ma che dico, deve succedere una volta sola, anche se il futuro mi riserverà ritmi e sacrifici diversi, anche se non avrò la possibilità di dimostrarti che “un giorno ti tratterò bene”; anche se mi hanno sconfitto a colpi di pala, anche se stai sfuggendo al nostro fato per chissà quali recondite perverse ragioni. Sad and Beautiful World, si è automaladdetto così il povero Mark; ci ha lasciati in questo modo. E adesso lo sai pure tu.

mercoledì 24 aprile 2013

La Principessa del Castello

Non guardo più le stelle aspettando che qualcuna venga giù. Non ce n'è bisogno. Si può fare altrimenti una cosa semplice, che ai più risulta banale. Appuntamento a Coffee and Cream, una telefonata amicale con uno sconosciuto, un po' di attesa condita dall'ennesimo racconto dell'ennesima avventura inimmaginabile; intanto Lei (che non è mia) fa il verso delle mie movenze, lo fa teatralmente, con ampi movimenti di braccia. Il Signor N sorride, ride, quasi applaude. Comincia così la nostra guerra disperata contro il sistema delle cose, contro i paraocchi della mente, contro le definizioni imparate a memoria. Poi si sale su un cab, il tassista per antonomasia o è fraterno oppure ha l'aria di chi si rompe i coglioni fin da quando ha aperto gli occhi la mattina precedente. Questo, nella singola fattispecie, appartiene alla seconda categoria. Bello mio, ti stiamo dando una banconota con la faccia della Regina e due luccicanti monete metalliche; mica per forza ci dobbiamo curare del tuo stato d'animo. I viaggi in taxi sono sempre una bella scusa per stare un po' zitti, per farci gli affari nostri. E così succede che io me ne vado un po' con l'ausilio delle mie fantasie, N Le tiene la mano, Lei si fa prendere la mano da N. Sporadiche frasi in italiano, poi triangolazioni di sguardi, “chi ha il codice?”; il tassista sembra quasi non ci sia, se non fosse per il fatto che dalle parti del counrty side è lui che ci sta portando. Alberi, come stessero giocando, in questo pomeriggio che volge a sera, nel centro del centro della nostra Inghilterra. Siamo arrivati, e impongo il mio sapere ai miei compagni di viaggio, ché questo posto io lo conosco, e loro no. Marco ci salta addosso alla vista, ci regala u po' di sano pelo; lei e Lei si abbracciano sincere, io e N ci regaliamo il milionesimo sguardo di intesa. Il profumo che viene dalla cucina promette; la palestra, la notte quasi insonne, il viaggetto a piedi per raggiungere il campus prima e quello in macchina per arrivare fin lì mi hanno un po' sfiancato. Fame, fame di cose buone, fame di cose che incredibilmente mi ricordano mamma, una calpestata allo yard, una visita alla casetta del signore sconosciuto, un primo brindisi fatto con gli occhi che scintillano. E i miei dubbi si appollaiano sulle mie spalle. Faremmo bene ad addormentarci tutti, qui adesso. La protagonista del mio racconto ci mette olio di gomito ad entrare di prepotenza tra le righe; ma che volete che importi. Le cose ordinarie dilettano molto di più. Intimare al cane di sedersi è opera svogliata che non ottiene risultati definitivi; intanto via di bacchette, nel castello di Castello, un occhio all'orologio, sicuramente la partita è cominciata. Ma non mi alzo da qui neanche se mi danno una rendita indicizzata. Lei (la mia?) mi canzona, si diverte in modo confidenziale, e io mi sento il Presidente. N ci arricchisce delle sue battute, Lei si sente protetta. Il resto del mondo è fuori. Anzi ancora di più. Perché appena al di là della finestra c'è un ritmo statico, un panorama di alieni, una prateria di dolcetti per le feste. Non c'è null'altro da aggiungere, se non fosse per le pietanze che catturano il palato, e lo fanno veramente. Non voglio andare oltre, preferisco lasciare i commensali lì, dove stanno, preferisco prendere vie traverse, magari la solitudine del sofa e la Champion's League non mi ridestano dal sogno che tutto ciò potrebbe essere vero. Un giorno, chissà. Ma anche no. Sento il fuoco della sigaretta bruciare la carta che avvolge il tabacco; sento i passi pesanti del cane coccolone che sta per raggiungermi, sento le risatine normali come “musica da un'altra stanza”. Sento che non voglio che il tempo passi, che voglio urinare negli angoli di questo paradiso; che voglio sfiorarle le mani. Guitar Hero ci ricorda chi è la vera Principessa, mentre io mi siedo comodo al mio posto, quello di chi deve solo osservare. Gli occhi di N luccicano di sonno, Lei è accondiscendente per grazia ricevuta. Non mi sento come un bambino che non vuole andare via, faccio ciò che di giusto va fatto. Arriva la telefonata dell'uomo elastico che ci riporterà tra i grattacieli, al campus, agli odori e ai sapori di tutti i giorni. Io mi avvinghio al bicchiere di moojito preparato da lei, Lei combatte con la voglia residua di coccole del cane. Il Signor N rimette le scarpe, posa le sleepers nell'apposito armadietto. Lasciamo il castello del Castello, i suoi profumi e le sue performanti prerogative; si apre la porta, gli abbracci si sprecano, i sorrisi però sono sinceri. Io e lei incrociamo uno sguardo. Tranquilla, questa attesa va solo perdonata. Toh, chi si era accorto che la sera è bella che inoltrata. Il cielo è limpido, le nuvole sono in ferie. Ma io tiro dritto, c'è un altro tassista che incomberà sulle nostre esistenze per un'altra ventina di minuti. E non rivolgo gli occhi al cielo; satollo come un dio greco nel giorno di festa, non guardo più le stelle aspettando che qualcuna venga giù. Non ne ho più bisogno.

martedì 16 aprile 2013

Al Mio Posto

Quel letto è troppo morbido. Ancora (quanto mi piace la parola “ancora”), nella penombra e nella luce; ancora, tra le dune di questo deserto sconfinato. Sempre, gli scarti dei ritagli lasciati fuori dalla porta di questa casa sconsiderata. Scendere dalla macchina, cappello alla rovescia, borsone in spalla, fare finta che tutto sia ordinario, fare finta che ci si sta incamminando verso qualcosa di definitivo. Fare finta. Il letto è troppo morbido, ci dormo troppo bene, eppure ho una voglia putrefatta che sia già mattino, che suoni la sveglia, che sia giustificato andare lì, a prendermi un po' di vizio artificiale. Sempre; i divani dividendi, una doccia casalinga, il cane che ci riempie di peli, la sua mano; le sue mani. Pagare la sua spesa con la mia card, ricevere un clamoroso e dolcissimo silenzio in omaggio. La sua felpa, i cuscini nel retro della macchina, le buste di Tesco, il succo, “hai preso il latte?”. La cucina è Hi-Tech, le lenzuola sono linde, il letto, sì proprio il letto, è troppo morbido e accogliente. Lo odierò tantissimo quando si tratterà di prenderne la via. Ma adesso è vita. Ancora (sì proprio ancora), le metafore grammaticali si scagliano su di me a cascata, la macchina è parcheggiata fuori, davanti la porta del garage; il tagliere mi consente di affettare i funghi e le zucchine; l'olio sta lì, al suo posto, sale quanto basta. Il cane mi chiede attenzioni, lei gira per casa. C'è sempre qualcosa da rimettere a posto. I piatti buoni, il sugo non deve toccare i bordi, “prepara il tavolo, se non lo hai ancora fatto”; il suo sorriso bimbo. Una parte di me si scioglie, ma resisto. Resisto perché l'uomo che è in me deve avere la meglio. Glielo devo, me lo devo. Un angolo del mio cervello è ancora affaticato sul pensiero di un letto troppo morbido, troppo rilassante; una sigaretta, ché qui si può. Oh se potessi. Poi il Kentucky, due “sostituti”, chissà forse come noi. Le lacrime che si ostinano a non arrivare; la mancanza di feelings, i miei angoli ascosi, i fiori artificiali. Arriva il Candido Poeta, ogni tanto lo fa: “morire al tuo fianco...”. Oppure no. Ancora, annaspare alla ricerca di angoli di giubilo, mentre si copre le caviglie per il fresco che accenna timido che la sera è bella che arrivata. Uno stanco lasciarsi andare alle terrene digitate, le sue sporadiche robe da teenager, il mio essere paterno. Ancora, il mio essere bramoso, il mio stare al mio posto, le sue mani, così diabolicamente vicine, così angelicamente lontane. “Un'altra sigaretta!!!”. Mentre così vorace è la mia voglia di sfiorarle quelle mani, e di farlo con sapienza (fin quando non lo faccio veramente). Fin quando non ripenso al mio posto in quel letto troppo morbido, alla mia sveglia, al mio stupido sacrificio di dormire un'ora in meno. Al momento buio in cui dobbiamo salutarci nel sole acceso del mattino brummo; al momento bastardo in cui ci muoviamo a scatti ché non sappiamo che tipo di abbraccio scegliamo dalla gamma delle formalità. Al momento cinico in cui dobbiamo smettere di parlare e parlare ancora, e dobbiamo prendere la strada del letto. Già, quel letto troppo morbido e comodo per passarci sopra una notte insonne, per passarci sopra con un ventaglio aggiornato di malinconie; morbido per spenderci una nottata di grattate di mani. Ma va bene così, forse. Ancora.

martedì 9 aprile 2013

E' Morta la Thatcher

Le luci del giorno fanno fatica a liberarci di loro. È solo perché qualcuno ha inventato un modo per spendere meno soldi, ma non è di questo che parleremo. Ci vorrebbe altresì un po' di buio, qualche darkeggiante e malinconica camminata verso l'oscuro e l'inaudito. Non andrò oltre. Parlerò invece di quanto sia diventata improbabile quest'esistenza fatta di mirabolanti attrattive, di corse frenetiche, di mostri da affrontare, di ruote di bighe da oliare... la perfezione è diventata entropia, il rischio è diventato ordinario, l'educazione caramelle da distribuire con poca volontà, ma tanta abnegazione. Non si può sbagliare più; oppure attendiamo il nuovo errore, così che possiamo imparare ancora. Ed ancora. Punto e accapo. Le luci del giorno fanno fatica a liberarci di loro, i raggi solari sono saette oblique che tagliano gli alberi, i pezzi di asfalto, le lamiere delle automobili con la guida a destra, e le velocità sinistre. Mi fa male una parte di corpo, e attendo; attendo ancora. Forse è questa impazienza che mi dice:”Fabio, è per merito mio se puoi dire al resto del mondo che stai vivendo”. Per carità, non ho mai messo in dubbio 'sta cosa. Il mostro è stato affrontato, un altro ancora nella mia vita di piccolo uomo che si fa grande nelle occasioni sbagliate. Adesso, please, un'altra avventura da sperare che sia definitiva. Fortuna che Frank sta male e la sua voce è cambiata. Fortuna che 'sto minilaptop ha fatto il suo tempo e allora dobbiamo correre ai ripari; fortuna che posso anche non rispondere al telefono. E fortuna grandissima che in pochi capiscono ciò che ho fatto. Io, essere ogni giorno più completo, che mi nutro delle mie prerogative. E basta. Mi cucini i dumplings e poi vuoi parlare? Sei la benvenuta, ma non sperare che la cosa duri per sempre, “You just haven't earned yet, baby”. Cos'altro c'è adesso? Attese lunghe lunghe, camminate aspre su sentieri sconosciuti ma incredibilmente allettanti, un'altra lavatrice da fare; una tazza di caffè, un po' d'acqua calda, please. Tutto ciò fino all'ultima puntata dell'ultima serie. E poi? È così che funziona, stiamo veramente passando la vita sperando di avere, un giorno, un bel funerale di stato. Che gran fortuna!

mercoledì 3 aprile 2013

Atlantide

Lui adesso vive dentro una membrana gelatinosa, stira il collo sperando di romperla, di spezzarla, di annientarla, di distruggerla. Che fatica. E che malinconia stare ad osservare inermi, mentre i cuori battono a ritmo impari. Orchestra stonata. Correnti alternate nella sua vita, giochi proibiti e semplici colori, due birre immaginate, apologie di reati. Lui adesso vive dentro l'involucro del piumone, sta cercando di tirarsi fuori, ma si è appena accorto che sta dalla parte chiusa. È un'allegoria di una partita di rugby, la sua vita. Passaggi all'indietro, guadagnare terreno scarso, fatica immonda, la meta lontana. Lui adesso vive dentro un contenitore di proteine, tira tutto sommato i pesi, sente i dorsali crescere di nuovo. Nasconde sotto il letto un paio di scarpe per ogni occasione. A volte, solo a volte, ritiene, o fa finta, di essere erudito. Lui sta quasi nel quinto decennio, eppure si riscopre ammaliato e sopraffino ad annusare i suoni, e ad ascoltare profumi. Baudelaire! Lui, sì proprio lui, adesso vive nella terra di mezzo, una quantità infinita di spazzolini da denti, un eroe cinematografico falso a fargli compagnia col suo russare; talvolta lugubri pensieri. Poi Portogallo, tirando pietre da lì. Lui vive, e pare spruzzato via da uno spray, a volte. Non ha mai sognato la California (o meglio, forse è successo un paio di vite fa); preferisce l'East Coast, il sibilo gommoso delle scarpe da Basket sul parquet, la lampada di ultima generazione. Lui vive su un sofà, aspettando che si ripeta l'infinito di una proposta fatta con cautela; oppure ancora, lui vive di giardini sul retro, calpestati con sufficienza a piedi nudi, gli shorts macchiati di una qualche salsa caraibica, o africana, in mano un arnese che forse non serve a niente. Se lo chiedono in tanti, se lo chiedono in tre, ecco la risposta. Non ha mai saputo suonare la chitarra, ma quella di Joey Santiago la ascolta eccome. Lui adesso vive nel cuore della sua eterna vita, “sotto una veranda ad aspettare le nuvole”, in contemplazione, con un mucchio di treni che gli passano accanto. Lui vive chiudendo gli occhi, anche un po' scostato, disorientato, assetato, in assetto di guerra. Guerra che fortunatamente perde, ogni tanto. Così pensa l'uomo di passaggio, che sorvola fresco nella notte brumma, quando puoi sentire respirare in tutte le lingue del mondo questo circo senza affari, che giocherella con la vita. Mentre lui vive, indeciso ma pronto, dubbioso ma concentrato sull'obiettivo, abbietto e poeta. Ditele che l'ho avuta tenendola per le dita, ditele che la perderò perché gli atomi sono pieni.