martedì 26 aprile 2011

Under Control

Avrei dovuto suonare il basso, cioè avrei voluto. Un bassista, con le infinite possibilità che un bassista ha. Un bassista di una band alternative rock; un bassista coi basettoni o coi capelli corti, un bassista pronto a spaziare in ogni angolo della sala di registrazione; pronto a percorrere indisturbato in lungo ed in largo il palco, a stare fermo, a stare in bilico. Avrei dovuto fare il bassista, quattro corde, pochi accordi, tutti d'accordo. Sarei dovuto essere un bassista, mani libere senza plettro, chino sullo strumento coi capelli davanti, piegato con i piedi uniti...un paio di bellissime All Stars Converse. Avrei dovuto fare il bassista, incosciente inconsapevole incongruente bassista; spocchia irreversibile nel tenere lo strumento il più lontano possibile, ma occhio ragazzo, ti tengo sotto controllo. Un bassista sguaiato, con le gambe aperte, che dà il tempo alla batteria, o che prende il tempo dalla batteria, questo non lo ha mai capito nessuno. Un bassista, avrei dovuto fare il bassista, non il tastierista, sfigato, dentro la sua prigione di tasti bianchi e di tasti neri, dentro la sua prigione di melodie che non si possono sbagliare. Il bassista è l'amico di tutti, eppure, avrei dovuto farlo, può chiudersi in qualsiasi momento nel suo mondo circolare, rotondo, dal quale esce fuori solo la lunga tastiera dello strumento, sempre tenuta under control dal braccio sinistro. Il braccio sinistro come il ramo forte di una pianta rampicante che cinge inesorabile la tastiera del basso. Che Bello!! Sarei dovuto essere bassista, uno qualunque, e non per Adam Clayton che si è trombato Naomi; non certo per Sting, che il basso lo suonava, ma alla fine era sempre e comunque il singer dei Police. Il bassista punto e stop. Che conta i battiti del suo incedere, che non si produce quasi mai in un assolo, ma quando lo fa sono brividi per tutti. Avrei voluto fare il bassista, non il batterista, quanti sbattimenti, e quante energie perdute nel breve volgere di un concerto; e quanto sudore. Il bassista, con pochi occhi addosso, ma quei pochi sono buoni, sono obliqui. Fare il bassista di una band alternative rock, magari con il basso portato sul ventre, gomito e polso piegati, e dita pronte a pizzicare la corda più bassa, come fosse un clitoride da vezzeggiare. Il bassista, che ogni tanto si astrae da tutto, oppure che partecipa con un coretto malizioso; bassista, cazzo, incazzato a sfondare, in posizione di guardia, una gamba avanti leggermente piegata, l'altra dietro, come fosse pronta a partire per un calcione al mondo intero, chè lui non capisce che qui si sta creando. Avrei dovuto fare il bassista, non il cantante front-man; lui ha tutte le responsabilità sul groppone, magari deve occuparsi anche di un'altra chitarra, no grazie. Il bassista può ridestarsi a piacimento, può sorridere al batterista di qualcosa che gli altri non potrebbero mai capire, chè noi siamo una band alternative rock... e io il bassista, inutile e indispensabile, come tutto nella vita, del resto... Bassista, lo sentite il mio sound? La vedete la mia faccia interessante nella foto di gruppo? Riuscite a contare le volte in cui mi chino per raccogliere la mia lattina di birra durante il concerto? Avrei dovuto farlo, sì, il bassista, che alle riunioni su come si deve impostare il tour dice poche cose ma buone. Il bassista della band alternative rock, che alla fine se ne fotte di tutto, perchè al soundcheck sono i bassi che vanno tarati, e niente più. Sarei dovuto essere un bassista, l'uomo coraggioso che prende i suoni gravi e bassi dagli inferi e li porta in superficie. Ma non toccateli, cazzo, non ne avete il diritto, potete solo ascoltarli. Dio mio! Cazzo, perchè non ho fatto il bassista? Con i pinocchietti al concerto, con la t-shirt rossa degli Einsturzende Neubauten, con la ragazza più figa, con il tatuaggio più bello. Avrei dovuto fare il bassista, che risponde per le rime al produttore, che registra da solo la sua parte, che ha un ascendente particolare nei confronti del cantante, che va in giro con una macchina volutamente anni 70. Sarei dovuto essere un bassista, ne ho le caratteristiche, ne possiedo i crismi, ne ho ottenuto l'anima nel corso degli anni. Il finale cercatevelo da soli...

giovedì 21 aprile 2011

La Scoperta dell'Omerika

Narrami oh Musa, narrami adesso dell'eroe spuntato che son io; narrami della mia lunga ed infinita Odissea... Due Penelope a casa, una viva nel ricordo, l'altra morta, annientata da se stessa. Una circondata dai Proci, scegline uno, fallo; l'altra circondata dal nulla. E io vago, confuso e ammaliato, esploratore di me, prima che dei mari mai navigati prima. Narrami adesso oh Mia Musa benevola, benefica, bendisposta; narrami del grande Ciclope Ignorante che mi segue ovunque. Capisse che a volte sono troppo debole per lui; lui che ha un solo occhio, e non vede le profondità, non le distingue, non vede la mia profondità. Narrami della mia gente che prende forme e colori sempre più nuovi. Del travolgermi per il gusto di farlo; delle Dee Calipso pronte e disponibili. Della Mia Odissea in cui le Colonne d'Ercole sono state divelte, con sprezzo per tutte le superstizioni e per tutte le paure. Narrami di Circe alla quale sfuggo per non cadere nelle tenebre. Di questa navigazione senza scossoni, di questa navigazione con un'indefinita quantità di pericoli...tutti superati, tutti messi a tacere con l'abilità di un navigatore scafato, esperiente, esigente. Narrami della mia esigenza di andare sempre più avanti, non importa quanti nodi all'ora percorro, non importa il numero delle miglia percorse. Narrami oh Musa Mia e Mia solamente, narrami delle tempeste, narrami della calma piatta del tramonto inglese, quando il Sole colora di un giallo cangiante i muri, le strade, i pensieri... Narrami adesso Musa, tanto Telemaco non esiste, ed è sicuro che il cane Argo mi riconoscerebbe dovessi tornare. Ma non c'ho voglia, no, non lo voglio. Voglio ancora esplorare, sentire su di me la brezza marina di quest'Odissea infinita fatta di pepe nero, di mostri che si tramutano in infanti che sorridono inebriati guardandomi negli occhi; voglio ancora percorrere, oh Mia Musa, mari e strade, voglio sfruttare i venti di Eolo, voglio spingermi oltre. E allora narra, Musa, narra ancora ed ancora, perchè si perda nei gusti e negli odori il ricordo di due Penelope, una giusta e semplice, l'altra terribile e morta, vilipesa da se stessa. E quindi narra ancora, che ti costa, oh Mia Musa, narra e racconta in tempo reale, dei treni che volano soavi e agresti sulle campagne celtiche, sulla pelle liscia delle mille e più Sirene, il cui canto è dolce e ha smesso da tempo di essere mortifero. È solo accattivante! Musa Mia Splendida, continua e non smettere, di narrarmi le gesta che mi appartengono, di quando sono protagonista attivo, e di quando allargo le braccia e mi esprimo così:”fate di me ciò che volete”. Di quando, un giorno, dovrò realmente dare contezza di tutto questo, di quando Itaca mi riaccoglierà, solo per qualche giorno, e ci sarà qualcuno pronto ad approfittare di tutta questa ricchezza. Narrami di questa storia senza tempo e senza alibi, di questa festa colorata o di questo pianoforte che suona in una stanza vuota. Narrami della mia vita, che è un barcone dalla chiglia finalmente solida che si allontana, e si allontana sempre di più. Narrami del futuro, bianco e illuminatissimo; anzi no, non narrarmi del futuro. Narrami oh Musa, della fierezza di Laerte, semmai fosse fiero di me; e ancora delle tele infinite di due Penelope, una meritevole di tutto, fors'anche di me, l'altra morta, schiacciata dal peso delle sue tristezze...

giovedì 14 aprile 2011

Babelerama

Let me know when the dream is over... un'invasione, pacifica e terribile, viva e mortifera. Due viaggi paralleli, fusi, diventano uno solo. Con Seila facciamo una cosa da Guinness, lei mi parla in spagnolo, perchè viene da Saragoza, io le parlo in italiano, perchè vengo da Catania. Passiamo del tempo insieme, tra un “como se dise” e una frase pronunciata very slowly. Let me know when the dream is over. Una ford Ka, che nella mia vita non fa mai male, le strade Brumme, un colpo di tosse; “Sicilian, porta il tuo libro di italiano”- già, tempo un mese e dobbiamo parlare un 'altra lingua. Un'altra ancora... Seila mi porta allo Spotted Dog, tredici o quattordici minuti di arrampicata sui muri impervi delle nostre rispettive mothertongue, qualche sorriso, uno shortino di bacardi con dentro della coca-cola per me, una cerveza per lei. Patatine al gusto di formaggio e cipolla. Sguardo furtivo (mio) verso il grande schermo del pub, Manchester United- Chelsea a volte mi chiama. Let me know when the dream is over... Allacciate le cinture, il legno del tavolo è troppo accogliente, e così si materializza la Babele tipica dei miei giorni diventati mesi di questo lungo, molto probabilmente interminabile, soggiorno inglese, Come un viaggio lento verso Nowhere, perchè a volte la destinazione è di gran lunga meno importante del tragitto. Ecco Vangelis, il Greco, con la sua giacca nera sulla maglietta girocollo, con la sua capigliatura alla Batistuta; porta seco (scusate, era una vita che volevo scrivere “seco”- ce l'ho fatta finalmente) Valerie, che viene dalla Francia. Valerie parla anche lo spagnolo, così Seila può cimentarsi senza affanni. E' un viaggio in cui le strade non sono propriamente strade, sono più bolle di sapone. Dal nulla si materializza Anna, “Arscentina”, vive a Parigi, “e che ci fai a Birmingham?”- domando io, ingenuo. La risposta è talmente articolata che neanche la capisco. Let me know when the dream is over... Puoi scorgere, sul ciglio della strada immaginaria, queste collinette che nascondono il Più Bel Mondo, quello che ti piace. Seila, con la sua bellezza dei diuturni dolori, a volte si chiude nei suoi tormenti passati...ma solo a volte. Adesso il viaggio è illuminato da luci notturne, l'andatura è lenta, come se dovessimo fermarci per prendere il traghetto, “sveglia, dobbiamo proseguire a piedi per un po'”- e l'aria diventa piacevolmente fresca, rinvigorente. Una sigaretta, rigorosamente in the garden, un piatto sconosciuto di Curry, Seila, Anna e Valerie si triangolano una conversazione fittissima in ispanico; Vangelis mi guarda e mi sorride, chè lui non ci sta capendo un cazzo, con quel suo pizzetto che lo rende simile a Belzebù, ma un Belzebù buono... Da un altro tavolo arrivano risatine in portoghese, la band suona del jazz live...ma è un suono sordo, quando incontro gli occhi di Seila, e i miei pensieri si formano in tante lingue differenti. E ancora una volta Let me know when the dream is over. Arriva James, che fa il tifo per Norwich, jeans bassi, t-shirt fintamente trasandata. Poi Susi, lituana che ha vissuto in Spagna; scambiamo due parole, ridiamo, mentre una ragazza dai capelli strani ci guarda, e sorride anch'essa. “Fabio”- mi chiamano col mio nome. E allora è ufficiale, faccio anch'io parte di questo gruppo che rimanderà per sempre la decisione finale di stabilire la propria natura, work in progress... Seila è stanca, domattina deve alzarsi alle sei, andiamo via. Non sembra più un pub lo Spotted Dog, sembra il soggiorno della casa di tutti noi. Let me know, please, when the dream is over; il momento dei saluti è lungo, gioioso e per nulla formale. Saliamo sul Coche, “in italiano macchina”, il sorriso degli occhi di Seila non tarda ad arrivare; le strade brumme si sovrappongono perfettamente a quelle del nostro viaggio personale (e di gruppo), fino a quando devo scendere, devo salutare:”ciao”. “Hasta luego ”. Birmingham, la Sicilia, l'Aragona, il Rio de la Plata, la Grecia, la città di Giovanna d'Arco. Il coche immaginario ha fatto un bel pezzo di strada, parlando una lingua soltanto. Quella di una Babele viva e mortifera, terribilmente pacifica. Sì, te lo chiedo per favore, let me know when the dream is over. E fallo dolcemente...

venerdì 8 aprile 2011

Simo e Sami

Come un cielo, come una pioggia rigeneratrice, come un quadro, ma di quelli belli. Ma lo devi cercare, prima; e lo devi trovare, dopo. Stare nella cucina di un ristorante, a lavare piatti, a sciacquare padelle, a sminuzzare prezzemolo, a preparare tiramisù, può, a volte, portarti in mondi lontani, può portarti a scoprire nuovi algoritmi vitali. Può farti riscoprire cose perdute, che non ti si ripresenteranno mai più, e le puoi vedere rinascere negli altri. Stare nella cucina di un ristorante può significare ripassare a memoria l'intera discografia di Francesco De Gregori, e magari insegnarne le melodie ai cuochi e agli chef che non ci capiscono niente, chè loro vengono da paesi lontani. Come un cielo, tra un Santa Lucia e un Rimmel, ecco l'Immenso Ingenuo. Almeno io l'ho battezzato così. C'è Fabio che canta, c'è sta feritoia che unisce noi lavoratori della cucina e le cameriere. Le cameriere usano la feritoia per passarci le comande, noi lavoratori della cucina usiamo la feritoia per passare il cucinato e pronto. Ma che mancanza di poesia... Come una pioggia rigeneratrice arriva l'Immenso Ingenuo. Quanti anni sono passati. C'è Fabio che canta, e la feritoia, che divide il bianco e l'acciaio della cucina dal marrone e verde della sala, assume il ruolo supremo. Contatto!!! Sami ha ventinove anni, è algerino, e fa il cuoco. A volte è un po' incazzoso, a volte ti sorride. È un uomo normale. Sembra la copia venuta male di Ronaldinho, con quei dentoni... Simona, chissà, verrà dalla Russia, o dall'Ucraina, ti guarda sempre col capo chino, come se ti stesse chiedendo il permesso di farlo. Immagini lei quando ascolti “La Luce dell'Est” di Lucio Battisti. Come un quadro, ma di quelli belli, Sami e Simo si scrutano da lontano, divisi da questa barriera-feritoia che ricorda loro quale sarebbe la differenza. Ma le differenze si abbattono. Basta uno sguardo, una carezza mentale, la voglia (di lui) di proteggere lei; la voglia (di lei) di farsi, magari un giorno, proteggere da lui. Come I Due Zingari che “stavano appoggiati alla notte”, Simo e Sami ci mettono quella lena paziente di chi ha a cuore il vedere germogliare qualcosa di unico e di raro. E per questo dilettante della canzone-da-tiramisù, che sono io, è un ritorno alla casa del Padre. L'Immenso Ingenuo si infila tra queste due storie diversissime, quelle di Sami e Simo, e le stimola prima, poi soavemente le solletica. Come un cielo che si apre sopra le padelle su cui lui fa saltare le penne; come una pioggia rigeneratrice con cui lei lava i bicchieri e le tazzine da caffè, come un quadro, ma di quelli belli, in cui i loro occhi si incontrano, e abbozzano quel sorriso che deve ancora nascere, ma che sicuramente nascerà. Rischio di tagliarmi col coltellone mentre, sminuzzando il prezzemolo, ripassando “Alice” che guarda i gatti, mi perdo in questo idillio che profuma agli occhi di Immenso e Ingenuo. Simo e Sami, come un ritorno al passato, che vorrebbe tanto tuffarsi nel futuro. E poi ancora paure, domande che mai usciranno dalle bocche, curiosità, artigli pronti, mescolanza di stati d'animo, fierezza che si trasforma in delicati modi, capi sempre più chini, penne saltate sempre più sbadatamente sulle padelle. Un altro strato di savoiardi, il mascarpone, Simo furtiva che lancia la sua dolce occhiata. Sami se la gusta tutta. Come un cielo, aperto sulla sua vita che cambia colore; come la pioggia rigeneratrice, scrosciante sulla sua vita che cambia sapore. Come un quadro, ma di quelli belli, che tramuta tutto, con la forza suprema e irripetibile del nostro potente amico, l'Immenso Ingenuo.