martedì 4 dicembre 2012

La Fiera Banale

Cala un fiore nella notte ballerina
sulla brumma illuminata, d'incanto
ci provo, che ha sapori di ladra sbarazzina
tanto cara, pare fatta di pianto

non ho parole, né più alcun verbo
se l'interno e il cuore hanno un verso compiuto
di stare attento a definirmi uno zerbo
cessando coi misteri, divenendo conosciuto

è aperta e ventosa la fiera banale
no indugio, niente affanni, solo stasi
di letti esotici, di carni di animale
e la sequela sconfinata di solite frasi

giovedì 8 novembre 2012

Esperimento

Solo
inconsistente di ali
apertamente volo
al secolo maiali
di novità razzia fanno
celandosi piagnucolosi
dentro un finto affanno
e il danno è
dei i destini ombrosi
che portano con sé


Dolo
agevolmente animali
si aggrappano al molo
nè più umani ma cosi
non si curano del danno
di percezioni brutali
che ci vuol più di un anno
e la colpa non c'è
v'è invece altresì
il criminale disegno del che

lunedì 22 ottobre 2012

Capolavoro

Prima tuonò, e questo lo dicemmo. Poi ci fu il grosso temporale, pieno, ricco, zeppo. Il temporale fu uno dei più scroscianti e ricchi d'acqua della storia. Gloria. Alla fine fu gloria! La gloria della quiete, quella eterea che si stacca dal terreno e fluttua, errante, gaudiosa, temibile ai più. Abbiamo tenuto per troppo tempo un ombrello aperto; l'abbiamo tenuto a turno, anche se a me, in teoria, quell'acqua sulla testa non dava poi tanto fastidio. Ma diamine, c'era della solidarietà da spendere, ce n'era talmente tanta, e di natura verace. Dopo il tuono, la tempesta; aggrappati all'albero maestro, imploranti il Signore, niente terra all'orizzonte. Tempesta di plastica, tempesta di spirito, tempesta di speranza. Speranza che se ne andava, poi tornava. Poi se ne andava nuovamente. Che destino ammaliante. Aveva tuonato, si era messo lì come un dolcetto su un vassoio d'argento; poi tutto era precipitato sotto i colpi di un temporale, che dico, di una tempesta, quasi di un terremoto. La faglia pakistana. Poi la quiete, un film horror, le sue mani che stringono forte, le mani di lei. È nell'aria la quiete, bella matta e senza tempo, che è sfuggita sorniona a tutte le recriminazioni, a tutti i consigli nemici, a tutte le cose giuste da fare quando ci si trova in queste situazioni. Ma chi si è mai trovato in queste situazioni? Chi è stato sotto la pioggia scrosciante di una tempesta venuta dopo un tuono di quella specie? Già, prima tuonò, tanto tempo fa, tanti secoli or sono, poi ci fu il lungo temporale, che dico, una tempesta frivola, accattivante, ricca di tenebre malcelate dai fasci di luce intermittente. Poi la gloria, mascherata da quiete che nasconde i tumulti, il ferro, l'aria gelida, il piombo, i pistoni al massimo dei giri. Niente gravità, qui ci si gode la quiete, che non è poca. È tutto. È gloria. Due finestre, l'una contro l'altra, l'una di fronte all'altra, due modi opposti di di specchiarsi, due tempi senza tempo, due atti. Poi si mescolano insieme. Tuonò, ma questo fu detto, e non si può dire che la cosa appartenga al passato remoto. Poi fu la tempesta, quella che ti fa perdere la concezione. Infine fu quiete, la stessa quiete che ti tiene per mano durante un film horror, durante una conversazione in due, tre lingue; la stessa quiete che porta su un palmo la gloria.

giovedì 11 ottobre 2012

Un po' di Poesia

Che c'è? Tappeti volanti sotto i lombi, sotto i piedi, sotto il culo, sotto Fabio. Tappeti volanti a sorvolare le genti, a scompigliare capelli, a smascherare le menti. Tappeti verdi, a giocarci in posizione eretta, a scambiare battute. A sfoggiare forze brute. Che c'è? Si fa il verso al ragazzo malato, ci si mette in posizione surf, e si plana, si irride, sulla pochezza umana. Intanto ho preso un braccio, l'ho tirato su, gli ho fatto il check-in, e andiamo. Volo di un'ora o trasvolata oceanica? Vedremo, non ho mica messo il naso dentro il serbatoio. Che c'è? C'è che nonostante tutto sono ottimista, non perdo d'occhio le priorità, non nascondo tra le colpevoli nebbie la pista. Che ho? Tanta voglia volatile di sbattere qualche faccia al muro, tipo “questo posto mi è stato consigliato”. Ma poi qualcosa mi chiama, qualcuno becca il mio braccio bloccato; tappeti volanti sotto il culo di Fabio, a sorvolare fine sulle pochezze della gente, a schiudere le ali, inevitabilmente. Chi è? Nulla, niente. Che hai? Un tappeto volante di sotto, l'ardire incontrastato, una frase libera ed un motto; una birra, sfidante il freddo con solo indosso una maglietta, sfidante il freddo a fumare una sigaretta. Cosa? Il grido sordo, la dispersa gloria, un saluto balordo. Abbiamo perso ogni memoria. Che fai? Ti abbandoni alle pochezze che ti allontanano dall'essere femmina, che ti allontanano dall'essere eterea, dall'essere un puntino riconoscibile dal resto del creato, mentre mi ritrovo irresistibile, quasi senza fiato. E ora? Ora ti lascio alle tue vicissitudini, al tuo amico poco poco, alle panzane del cervello. Chissà perchè hai scelto proprio quello. O forse lo sanno tutti, che sei disarmata, che sei naufragata, dentro una stanza, dentro un bicchiere. Ma quali flutti? Chi sei? Hai forse deposto l'arma? Meglio così, era tutto un gioco, tutta una farsa, quella pantomima del karma. Che è stato? Solo un mondo virtuale, un gioco di persi, di guerrieri stellari, di buchi ancestrali, di respiri tersi. Solo promesse da seconda stagione, solo il capo di buona speranza, solo un panino, due cose buone, un fritto e una paranza. E adesso? Adesso sorvolo, col tappeto volante, la distesa di candele, i capelli che prendono fuoco, le certezze che se ne vanno, le italianissime sequele, uno stratosferico gioco. E il tutto con dolo. Che c'è? Nello spirito che tu hai nutrito, solo per un momento, ecco che salto sul mio tappeto che vola lento lento, sorvolo te tra tutte le genti, plano bastardo sulla pochezza dei tuoi movimenti, punto fiero verso est il mio dito, col vento tra i capelli nello spirito mi rinnovo. Sai cosa? C'è un mondo vecchio da scoprire, così vecchio che per me è totalmente nuovo.

martedì 25 settembre 2012

Intrepida Operazione

Adesso che ci si guarda e ci si sorride con gli occhi. Adesso che che siamo soli nella tua camera ammobiliata, con le tende aperte, con il cuscino fuori posto; adesso che sfuggi al mio contatto solo per un attimo. Adesso che abbassi lo sguardo, bramando di farti calamitare dal mio, che giochi coi capelli, che indossi una tuta, la felpa col cappuccio. Adesso che hai i capelli sciolti, lo smalto alle unghie, la salsa di soia a portata di mano. Adesso che sono il principe al centro della stanza, che il mio “altroieri” è diventato remoto, che conta una passeggiata sotto la pioggia sottile delle terre di mezzo. Adesso che sei presente, che hai brama di me, delle mie mani, del rifugio che potrebbe salvarti da un'educazione profondamente esotica. Adesso che devo inventarmi qualcosa, con il Suo aiuto. Come sempre. Adesso che siamo abbracciati, e poi adesso, che ci si bacia e ci si appaga vicendevolmente ognuno del sapore dell'altra; adesso che i tuoi occhi sono ancora più belli. E significativi. Adesso che la miccia è stata consumata, che scoppia ripetutamente il sentimento che abbiamo anelato insieme davanti ad una tazza gigante di caffè; adesso, ora, adesso, in modo perenne. È ardito cercare sempre nuove angolazioni, la pratica dello zigzagare, o del girare vorticosamente da un'aspirazione all'altra è sempre operazione impavida, intrepida. Ma adesso sei sfuggevole qual tanto da farmi credere che non lo sei, nel tropico del cancro della tua stanza ammobiliata, mentre il tuo corpo si allontana e le tue mani mi chiamano, astute. Mentre poggio la tua testa sul lettone, adesso, magari anche dopo, magari per sempre, magari. Perché so che adesso la tua bocca mi cerca, e le tue mani irresponsabili stringono le mie. Adesso che sei in pieno dolce dolo, adesso che ti guardo, prosciolto da ogni turbamento, guadagnando sul campo i gradi di comandante, proteggendoti, senza toccarti. Adesso che hai scoperto tutto questo, e lo hai fatto per merito mio, e lo hai fatto per me. Adesso che lo hai fatto per me, una strana sensazione mi tradisce: credo che dobbiamo fare l'ultimo passo, sono soltanto milioni di chilometri. Adesso, nudi e divoratori, inermi e spietati, deboli e invincibili. Adesso che vaghiamo nudi per casa, adesso che mangiamo il pollo, che intoniamo un inno, che ci parliamo senza aprire la nostre preziose bocche. Adesso che non c'è una grande città fuori dalla finestra, adesso che non ci sono rumori provenienti dal pianerottolo, che non ci sono ascensori operosi che salgono e scendono a pochi metri da noi; adesso che so quali cadeaux portare con me, che so quali angoli del tuo corpo posso disarmare con astuzia. Adesso che tu mi chiedi aiuto, che nonostante tutte le leggi naturali sei entrata dentro di me; adesso che il mo “altroieri” è passato, passato remoto. Adesso che per un attimo, un attimo soltanto, un attimo infinito, ci stiamo sorridendo con gli occhi, e quando ti libererai di me, avrai fatto tanta fatica , ecco, adesso, io sono qui.

lunedì 17 settembre 2012

Licenza di Guado

Metti un piede nell'acqua. Piano, nessuno ti insegue, avvertine la temperatura, ritira l'arto se vuoi, ma poi torna lì. Non avere paura, oppure sì, paura quanto basta. Adesso metti nuovamente il piede nell'acqua, abituati alla consistenza, ai gradi centigradi, al fondale inesplorato; poggia la gamba d'appoggio, sorridi di paura. Sorridi per scacciare la paura. Metti a mollo l'altro piede, mentre il primo si fa accompagnare dal polpaccio, dalla gamba. Smetti la maglia, buttala via, verso la riva del corso d'acqua. Due piedi dentro di già, ne hai fatta di strada. Mantieni l'equilibrio, cerca di assuefarti al nuovo stato, tieni d'occhio la riva, allarga le braccia per mantenerti in piedi. L'ultima cosa che vuoi è cadere goffamente, tristemente. Guarda i peli delle tue gambe bagnarsi ed appiccicarsi tra loro, mentre quelli sopra i polsi si drizzano; guarda i puntini dei brividi che si formano per tutto il corpo. Senti i tuoi capezzoli irrigidirsi, i tuoi muscoli contrarsi, le tue mani aprirsi e le tue ginocchia piegarsi. Adesso cammini dentro l'acqua, e sai che puoi muovere una gamba. Verso il centro del corso d'acqua... Pensa, oppure non pensare, metti un piede davanti all'altro, poni una gamba davanti all'altra, spingi con circospezione, battendo la forza dello strano attrito, innaturale attrito. Voltati a guardare la maglia lasciata a riva, la vegetazione asciutta, il cielo che si staglia sopra gli alberi. Poi desisti, rivoltati, osserva il pelo dell'acqua, che lento e inesorabile accompagna il tuo incedere verso il centro di questo canale, che può essere affluente, fiume, passaggio di fluidi che portano ad una cascata. La corrente si muove lenta, ma tu non farci caso. Concentrati. Non troppo. Adesso l'addome è quasi coperto d'acqua, la tua spinta si fa incessante, le tue mani non si sono ancora arrese mentre tu le tieni sopra la testa. Ma sei bagnato, definitivamente nei boxer, inesorabilmente nella maggior parte del tuo corpo. Il tutto comincia ad essere ineffabile, inenarrabile, quasi ingestibile. Ma ti prego, non fermarti, non avere paura. Non bloccare la tua disarmonica camminata sui fondali sconosciuti del fiume. Non c'è panico che tenga, paura che possa sconfiggere il miracolo di ciò che non è familiare. Allora un altro passo, a sommergere il petto, a spruzzare il collo, ad inumidire il mento di sporadiche goccioline; a bagnare i capelli sulla nuca; ad avere un incontro romantico e definitivo con la superficie del ruscello; superficie che chiama, che anela te, che ti sostiene, che è quasi materna. Non senti più freddo, il tuo corpo si è abituato; ma qualcosa ti ridesta bruscamente! Sei lì, esattamente al centro, metro più, metro meno. Che fare? E me lo domandi? Vivi la paura, assecondane le gravità, guardala in faccia, circondala in un perimetro di atti istintivi. Guarda indietro, ripercorri mentalmente i passi che ti hanno portato lì, vivi mentalmente il gusto del ritorno alla riva madre, prendi coscienza del fatto che sarebbe facile farsi riaccogliere dalle strade conosciute. Poi torna alla paura, al mistero, alle cose da fare. Strappa la vergogna con passo azzardato, mantieni basso lo sguardo per scacciare i demoni della tua anima, vinci i rossori e le vergogne. Valica la linea immaginaria che segna la metà del cammino. Adesso è adrenalina pura, la senti? Poni tutto ciò che è stato prima di quella metà in un angolo della mente, tra i ricordi belli o brutti; fallo automaticamente, non perdere la concentrazione. Di più, non perdere l'adrenalina che amplifica le paure, le incoscienze, i sensi di colpa, gli stati di ebbrezza... Ancora un passo e un altro ancora. I tuoi arti sono ormai avvezzi alla camminata dentro i fluidi del corso; i tuoi piedi hanno fatto l'abitudine alle viscide presenze del fondale, all'idea delle creature marine che sgusciano da tutte le parti. Non hai tempo per pensieri di questo tipo. Sei quasi arrivato dall'altra parte, ce l'hai quasi fatta. Mancano ancora pochi passi, pochi metri. Adesso fermati. Non muoverti. Il futuro, a volte, è più bello quando lo si immagina.

martedì 11 settembre 2012

Scusate il Ritardo

Il numero 38 si sperde e si disperde. Nel freddo che comincia a farsi sentire, lentamente ed inesorabilmente, tra gli spifferi che si insinuano maligni e vividi nelle fessure lasciate impunemente da frequentatrici di corsi sconosciuti. C'è qualcosa di miracoloso in questa ciclicità che avanza e non lascia tracce, non lascia strascichi. Un'altra partita di calcio, un altro sguardo alle notizie dall'Italia, alla amene realtà che mi sfiorano e mi fanno solo sorridere. Sto crescendo. Finalmente, direbbe qualcuno. Intanto mi accorgo che mi manca riservare un po' di quel sano astio dalle parti delle falde del vulcano attivo; e come se non bastasse, cioè come se non bastasse la presa di coscienza che c'è tanto bisogno di questa stolta benzina, moltiplico le mie forze per passare al setaccio le ordinarie incongruenze. Non ci avete capito nulla, vero? Ricominciamo daccapo. Il numero 38 si perde e si disperde, non ho ancora capito se sono libero da stereotipi, oppure sono prigioniero di questa calzamaglia verde. Tant'è! Mi sto gustando questa riffa quotidiana, oppure sto facendo rifornimento, mentre quando va via... Bene, un libro da rileggere, un posto nuovo da scoprire, da prenderci un caffè dentro, un canale da passeggiarci accanto, una partita di calcio da giocare, uno sguardo da incrociare, l'ennesimo, non l'ultimo. Ma il freddo comincia a farsi sentire, e con lui la voglia di settle down, la voglia di spartire queste sacre fluttuazioni, i vantaggi della convivenza, il numero 38 che con fatica ritrova la sua identità. Lingue sconosciute, dardi lanciati da lontanissimo, pietre scagliate da vicino, una tazza da lavare, una boccetta di profumo. Non credo che così vada meglio, ma ci avete fatto il callo. Il numero 38 è una piacevole presenza, mi guardo allo specchio, oppure vado per strade, ad incontrare gente, ad osservare il nuovo negozietto a Digbeth, a by-passare il vecchio indiano alla cassa, dritto verso la cash point. Lavoro di pollice, metto fieno in cascina, adesso diventa troppo, poi come si fa a gestire tutto? Tutto è sotto controllo, almeno così sembra. Goodbye Fabio, I'll Miss You, Ti Amo. Come fa il numero 38 ad essere ben visibile? La calzamaglia mi sta a pennello, la bottiglietta d'acqua mi guarda, push up, esercizi per le gambe, addominali. Una inconsueta quantità di Giulia, un'altra doccia tenendo il boccaglio con la mano destra. Sono pensieri solo miei, li metto qui su questo blog, in attesa di tempi peggiori; scusatemi se poco importa il fatto che non ci avete capito molto.

lunedì 3 settembre 2012

Eternamente Amici

Chiusi al chiuso, nella penombra di una cellula stanza, divorati dalle attenzioni di un campus che si fa pancia; oppure sorretti dagli archi dei ponti di Digbeth, ammaliati dalle mani sapienti di una cameriera che spilla birra dal bancone di un irish pub. Chiusi al chiuso, compartimenti stagni, gelatina sui muri ad attutire colpi proibiti. Ma qualcuno ascoltava, e forse qualcuno sentiva. Adesso tu spicchi il volo, non senza paure, ma diamine se lo stai facendo. Hai rotto la membrana, e lo hai fatto mentre tutti ti consigliavamo di lasciar perdere, con sforzo sovrumano, da abbandonarci le energie. E io ti guardavo. Chiusi nel chiuso di un posto dove ci si incontra e ci si vive reciprocamente, a stracciarci di palle in buca, a raccontarci di come è inumano e miracoloso il mondo che abbiamo scelto, le vie tortuose che abbiamo intrapreso, i pianeti oscuri che aneliamo. Paure, terrori, scarpe, tutto inzuppato insieme ai biscotti al cioccolato. Tu adesso spicchi il benedetto volo, io ammiro lo squarcio nella membrana, sento sulle mani il raggio di sole che filtra malandrino. E ti chiedo con voce strozzata di aspettarmi; di aiutarmi, magari. Niente battiti di cuore, niente patemi incontrollati e auspicati; niente Grecia, niente porcherie. I miei battiti sono andati via quando... Chiusi al chiuso, maledettamente superiori, spiriti impacchettati chissà da chi, armi. Tante armi, tutte sotterrate. Provate a togliercele. Ci si è bruciati un po', ci si è bruciati tanto. Ma adesso, fuori dal chiuso in cui eravamo rinchiusi, fuori tu (io sto qui ancora un po', non che lo abbia scelto), adesso e per sempre, si vola. E si vola di paura, di terrore, di angoscia e di panico. Ma si vive. Nevvero? Con un machete ci si fa largo tra le soffici pochezze che ostacolano l'ordinario, ci si bea della quotidianità raggiunta. A volte. Eravamo chiusi al chiuso, adesso sei un puntino lontano che continua ad osservarmi, perché posso dubitare di tutto, di donne che mi baciano senza “volerlo”, di tristi personaggi che recitano da cani nel palco della vita, di tragici dispensatori di parole grandi come il vento; e ancora di matite che si spezzano come fossero bacchette di zucchero, di muri che cambiano colore, di questo tempo celere che non cadenza più, ma segna il passo mentre il terreno si muove. Posso dubitare della nostra capacità di tenere il conto in pari, ma mai della tua onestà. Chiusi al chiuso, o l'uno ammirante il volo dell'altro, decisamente Eternamente Amici.

lunedì 27 agosto 2012

Per Sempre, Da Sempre

Come il sole di fine settembre, che richiama il pezzo di sotto della tuta, che richiama una doccia calda mattutina, che alle undici diventa focoso come un amante insistente; amante che andrebbe respinto. Come il sole finale, quello di settembre, maniche corte e ai piedi le ciabatte infradito, fresco dappertutto, sonno recuperato, capelli arruffati. La sigaretta buona, la cui cenere viene sparsa sul terrazzo, insieme ai pensieri di una corta giornata che è appena cominciata, e che sta per finire. Il telecomando lanciato distrattamente sul divano del soggiorno, le notizie del telegiornale, la brezza marina che sale da posti reconditi alla vista; il basso numero di giri del motore di una macchina in avvicinamento, motore spento, rumore di sportelli che si aprono e si chiudono. C'è una spesa da portare dentro. Come il sole di settembre, o meglio, come quello dei giorni di fine di settembre, quando l'estate ha già stancato, e ci si alza premurosi e vivi di nuova rinvigorita energia; arriva il suono incantevole di una voce:”A tavolaaaa!”- urla. La sigaretta brucia silenziosa, accompagna innumerevoli pensieri, vicino ai rovi pericolosi del futuro, sfiorando i battuti terreni delle malinconie. Il rumore di stoviglie, di piatti e di bicchieri, di posate sistemate alla rinfusa. “Ma lo vuoi capire che è pronto?!?”- dice raggiungendomi, schierandosi dalla parte dei buoni. Adesso questo non c'è, si è perso su un binario in disuso alla stazione dei ricordi; tu mi mandi messaggi ogni dì, vuoi sapere che sto bene, e poi ne vuoi anche la prova. La verità è che io e te vorremmo toccarci le mani, vorremmo sentire ognuno l'odore dell'altra; vorremmo continuare a vivere quello strano e unico rapporto che si è creato tra noi col tempo, e che è nato quasi un anno prima che io nascessi. Perchè i figli son tutti uguali, ma poi diventano diversi. Mi piace il pensiero che ti so far divertire, che so farti sentire viva col mio essere “impossibile”; mi alletta l'idea di essere arrivato tardi, di essermi posto nell'angolo più remoto di una stanza, pieno di problemi ma scevro di attenzioni. Nessun affidamento si può far di me... Come il sole di settembre, di settembre inoltrato, quando l'acqua di mare è freddissima da accidenti e tu continui a dire che “era una favola”; io protesto e ti tratto fintamente male, mentre osservo i tuoi occhi semichiusi, il piccolo male che ti porti dentro, male benedetto che racconta di quanto sei sensibile, di quanto siamo uguali. Tu non lo sai, ma io, noncurante perchè la noncuranza mi appartiene come tratto distintivo, io ti porto dentro. E ti racconto le cose che mi accadono, anche quelle che non ti racconterei mai, neanche sotto una tortura. Io ti proteggo dagli speciosissimi fatti che sorvolano la mia nuova esistenza, io ti tengo a casa quando non è il caso di uscire, e ti perdono ogni giorno per per non essere qui. Per essere così provinciale, per accorgerti di tutto, per essere stata una scoperta ogni giorno, e poi, per non esserlo stata più. Adesso ci sei, e per sempre, da sempre. Ad ogni sguardo buttato sul disordine della mia stanza, ad ogni pietanza inventata nella cucina del Backpackers, ad ogni sguardo che incrocio con l'ennesima ragazzina tedesca venuta qui da sola a fare nuove esperienze. Ci sei in tutto e per tutto, col tuo “ma come ti combini?” quando indosso qualcosa di azzardato, con i tuoi entusiasmi smontati finemente dalla perfidia dei tuoi figli. Ti amo. E vorrei con te fare un viaggio, io e te da soli, nell'Europa del nord, tra i pini e le rocce. A urlare al mondo che siamo guariti, che il filo che ci lega è doppio perchè così doveva essere; perchè un panino ci basta, anche se tu lo sai fare meglio. Perchè tutto questo non può essere invisibile, è come fosse illuminato da un sole. Già, il sole di settembre, della fine del mese, che asciuga la terra bagnata delle prime piogge, che rende l'aria frizzante e la pasta che cucini ancor più saporita; sole che resta fermo lì, sulle undici e tre quarti, mentre fumo una sigaretta, mentre spazzi avanti e indietro per il terrazzo, mentre io, impuro, osservo la tua purezza, e mi rendo conto di quanto tu sei speciale, e che non ci sono le parole per dirtelo. A proposito, io sto bene, Mamma...

lunedì 20 agosto 2012

Il Mio Ruolo

Adesso sto seduto sull'orlo... lui mi guarda e mi dice:” è arrivato il momento di mostrarmi al mondo”. Ci starebbe un ritorno da mamma. Campane a festa, oppure osserviamo uno strano silenzio. C'avevo una festa a cui andare, o così pensavo, e mi sono ritrovato ad uno di quegli incontri conviviali calmi e da adulti. Io, che adulto non sarò mai! Il mio ruolo mi sta ancora stretto, e forse la paura risiede in questa idea minuscola e fastidiosa. Così, tra una cena cinese mancata e un cinema saltato, ho tirato le somme di una densa settimana, e l'ho fatto in compagnia di Nuria, che è catalana di Girona, ha la battuta pronta, e sa fare i palleggi col pallone. Chissà quante idee dovrà ancora cambiare; chissà come si muoverà ancora tra le frastagliature della vita, chissà come raggiungerà un'adulta esistenza. Come la neve e il sole, diventiamo acqua avvicinandoci l'un l'altro; niente di scabroso, per carità, io e la catalana siamo amici, e ci siamo ritagliati un modo per esserlo, tra omelette tipiche e cioccolata con i cereales. Lei continua a parlare e parlare, anche per evitare di dover ascoltare cosa dico, e quindi di dover sforzarsi di comprendere, io invece me ne vado ancora un po'. Approfitto della stessa terrazza in cui ero qualche giorno fa con Myrto la greca, do uno sguardo alla cattedrale sovrastata suo malgrado dalla balena Selfridges, e me ne vado un po'. Sfuggo con scaltrezza ai capitoli che mi inseguono, alla sciagurata idea che ho partorito un melodramma da soap opera, che il mio stile non aiuterà la storia a prendere il volo, che mi sono ammantato di un ruolo non mio. Sto seduto sull'orlo, o cammino spericolato sul ciglio, oppure ancora, e al contrario, trovo una nicchia isolata nella quale sperdermi o nascondermi come sempre. Giusto per dare un'ultima occhiatina, un tocco ancora, mentre Nuria mi chiama e ride di me, ché non ci sto con la testa. Ecco trovato il mio ruolo nel mondo! Adesso ci vuole un po' di coraggio e ammettere le debolezze, ci vuole un pezzo lungo lungo di David Sylvian, ci vuole una sigaretta, un fermacarte, un macinino, una tertulia con annessi spaghetti e camicie di fuori; ci vuole una foto opaca, un viaggio nelle Filippine, il sorriso di quella ragazza, proprio quella lì. E ancora coraggio, c'è solo da pigiare un tasto, e provare a vedere l'effetto che fa. Nuria sbadiglia e i suoi vent'anni diventano inesorabilmente dodici, ci riincamminiamo verso casa Backpackers, stavolta manteniamo il silenzio di chi si è giocato tutti i bonus di giornata; l'I-Phone vibra di messaggini orientali, di telefonate di Andrea che chiama dall'Eldorado; il sofa, accogliente sofa che non mi ospita, ma mi avvolge, fa il suo dovere, accompagnandomi nel rituale della sbirciata dalle parti della moquette colorata; il mio GMT, amichevole ma sornione, anche un po' beffardo, non si cura di essere finito, continua a chiamarmi... Io lo amo di amore paterno, lascio passare le sue finezze, le sue debolezze, i suoi capricci. Sarà lui a trovarmi un ruolo nel mondo. O no?

lunedì 13 agosto 2012

Da Farci La Doccia

Non ci è dato di saperlo. Una prateria, ecco cosa vuol essere tutto ciò, una prateria sconfinata, da attraversare al galoppo, o da superare a piedi scalzi, da valicare guardandosi intorno. Altrimenti ci si ferma e ci si accampa un po'. Non c'è magia, non c'è disillusione o arte e lindi sentimenti; c'è tanta vita da quelle parti, con la ricerca della felicità, non della perfezione. Avvolti e travolti da sensi impazziti, da istinti che andrebbero tenuti a bada. Le polveri si posano troppo tardi, o troppo presto, ma è naturale. Oh mio Dio, ho usato una parola che non mi piace. Perché è ancora e ancora vita; donna, coi tessuti adiposi amplificati dalla coscienza, con la fretta di mettere il sale nella pasta, con la paura di sorridere, e con quella di fare un passo in più. Ma stupenda, stupenda di imperfezioni e di errori, di slanci umani e di cattiverie disarmanti; di voglia di lasciarsi andare e di àncore affondate con tutta la forza sul fondale delle incoerenti congruenze. Non posso giudicare oltre, visto che con le unghie sanguinanti mi aggrappo alle rocce appuntite per non cadere nell'abisso dei tuoi occhi. I tuoi occhi sono oceano piccolissimo nel quale mi ritrovo ancora più piccolo; sono paradiso infernale che mi fa violento, che mi fa scacciare le sirene che cantano il mio nome, che mi fa usare le suole delle scarpe, che mi fa nutrire ancora quella parte di me che non si cura più di niente. Da tenere in alto, ma solo per u attimo, perché la vita degli altri, di tutti e anche la tua, va tenuta a distanza e va osservata; magari proverei a deviare qualche corso di qua e di là. Da tenere a cortissima distanza, mentre metti sei volte il sale nell'acqua per la pasta, o prendi le lattine, o ti lamenti del disordine infinito che c'è nella tua casa, nel tuo armadio, sotto il letto, dentro te... Da scoprire silenzioso, mentre fuori è musica osservante e occhi rumorosi; e volteggi con cautela, perché incontrarsi il più delle volte significa accorgersi delle sofferenze patite nei luoghi persi nel tempo passato. È ancora abisso, incorruttibile abisso, ne scalfiamo la natura facendoci le marachelle, ma tu vinci, perché l'abisso parte dai tuoi occhi. E puoi celarlo dietro la tua natura, dietro il tuo passato e la tua storia, dietro le tue sincere voglie di fare del bene al prossimo e dietro i peccati che continuamente commetti. Ma è tuo, io faccio lavoro di unghie conficcate nelle rocce per non caderci dentro come nelle sabbie mobili; mentre mi chiedo perché mai. Da saltare in padella, da leggerci una fiaba, da tenere al petto; e se vengono anche le moine ce le prendiamo. Da vivere con paura e con coraggio, senza la tv, con lo sguardo fisso al pavimento; sguardo che si ridesta, affonda i suoi occhi con tutto l'abisso che ti appartiene, sorride di finte amarezze. Da farci la doccia, una colazione, una rottura di scatole, una masticata al dentifricio, una passeggiata solitaria per le strade brumme, a chiedersi cosa, a chiedersi perché, a chiedersi quando finiranno le domande e ci si metterà di buona lena a cercare di vivere. Ma di domande possiamo farne tempeste, resta sempre la dolce faccenda, l'inebriante evenienza, la paradisiaca circostanza dell'abisso accogliente dei tuoi occhi. Il resto, non ci è dato di saperlo. E meno male.

lunedì 6 agosto 2012

Is It Really So Strange?

Non dovrebbe essere un male. Voglio dire, mantenere una fragile sensibilità, e rimanere immune dalle estreme tribolazioni della passione. Minuscola passione. Però da più parti sono oggetto di attacchi a ripetizione; ci stanno provando, e sapete una cosa? Non mi dispiace, perché è vita! Ogni giorno una dichiarazione di guerra, mentre cerco ristoro mentale nel cortile del BackPackers, tra le catapecchie in disuso e i neon ammassati lì dagli elettricisti che ci hanno dotati di un nuovo impianto. Il muro di fronte, coi mattoncini rossi e la canaletta per far passare i cavi; Frank passa, va verso la sua nuova casetta alla fine del cortile, mi dice che mancherà ancora una settimana, “See you on the weekend Bro”, e poi mi sussurra un “ciao” d'ordinanza. La nicotina si impadronisce ancora di me, passa il treno sopra il ponte retto da fantasmagorici archi anni trenta. Piove, e gli attacchi si fanno insistenti, dalle oscure e distanti brezze del nord Italia, ai vicinissimi villaggi dell'Estremo Oriente, passando per la Grecia, il Mar Morto, le Indie... Non provate un po' di invidia nei confronti del sottoscritto? C'ho un presente da afferrare e un futuro (iperprossimo) da vivere smanioso. La nicotina mi pervade le membra, i tre tavoli rotondi, uniti insieme per chissà quale recondito motivo, accolgono i posacenere a pancia in giù, ché piove ancora nella città dei Duran Duran. Un messaggio, una telefonata, una foto scattata in qualche stanzetta adolescenziale, un cerchietto per tenere i capelli in ordine, un paio di occhi, due, tre e quattro. E così via. È in arrivo un carico di sinonimi sul binario sette, affrettiamoci. C'è gente che si chiede come faccio a presentarmi in condizioni differenti, in compagnie differenti, in ristoranti differenti, con appetiti differenti. Ma posso stare qui, davanti a questa tastiera, per anni e anni, e comunque non riuscirei mai a rendere ciò che c'è. Dovrete annusarne lo spirito, dovrete carpirne l'odore, dovrete acciuffarne le essenze, perché io oltre non vado. “Tu devi ballare con me”- mi è stato detto. E io non ho neanche risposto, ho solo armato i miei occhi. Storie che finiscono, e storie che ricominciano, mentre il Messico mi dichiara guerra, mentre il cortile dell'ostello si fa deserto, poi negozio di giocattoli, poi panetteria. A proposito, devo dare alla tedesca la scatola nella quale ha messo i dolcetti che mi ha regalato per il compleanno. Il pallone da basket sta lì e nessuno lo tocca, mentre quello da calcio cambia sempre posizione ché c'è sempre qualcuno che ci palleggia un po'. Le due palazzine del BackPackers mi stringono teneramente a tenaglia, una ragazza francese misura il peso del bagaglio e lascia tutti. Intanto continuano gli attacchi, e non ho ancora capito se dentro c'è qualcosa, e allora ecco un lavoro certosino di martello e scalpello, oppure non c'è niente, e allora sarà meglio non rovinare il fondo della padella. La porta d'emergenza è sempre aperta, lì all'angolo c'è il posacenere a colonnina che Zoltan ha fatto mettere per me, così non semino cicche. Il Galles è lontanissimo, il pool pure, Quando anche... Adesso la smetto, ma devo rimanere qui, c'è un ultimo chilometro da percorrere. “Why is the last mile the hardest one?”- dice il Candido Poeta. Appunto, ho un appuntamento importante. Con un foglio bianco.

martedì 31 luglio 2012

Working Class Hero

Comincia la notte, anche se sono le otto. Comincia la notte, fredda da maniche corte, fredda da brividi di nostalgia. Il cielo che ci sovrasta ha il sapore della plastica; gli alberi che circondano la fabbrica sono scuri e paurosi. La prima sigaretta, quella della corta attesa. L'elmetto per proteggere la testa, le scarpe per non farsi male, con la punta rinforzata, i tappi di cera per le orecchie, ché dentro il rumore ti trapassa il corpo. E poi i pantaloni da lavoro, che saranno popolari, ma quanto sono fighi. Si discute, ci si altera, si ride e si scherza, la notte ha da passare, tra le lande desolate e oscure, viste così da chi è forestiero, e anche da chi ci è nato e ci è vissuto da queste parti. Il mio ruolo di osservatore prestato alla working class a volte mi impone di festeggiarmi da solo, nel tentativo più o meno riuscito di vederci qualcosa di degno in tutto ciò. La sala mensa, gli odori di caffè e linoleum, gli appositi bidoni in cui riporre i rifiuti, tutto sale vorticoso come un ticchettio che comincia battendo in sordina, poi si fa travolgente. C'è sempre qualcosa da appuntare sul taccuino da viaggio, c'è sempre qualcosa da mettere in saccoccia, esiste la possibilità che in questo angolo marginale di mondo ci sia una nota da attaccare sulla bacheca dei pensieri con una puntina da disegno. Infatti arriva lui. Non ha nome perché nessuno glielo chiede, tanto meno il sottoscritto, e allora toccherà dargliene uno di convenienza, perchè conviene eccome parlare di lui. C'è sempre qualcosa da appuntare sul cazzo di taccuino da viaggio, compresa la faccia triste e rassegnata di questo ragazzotto che chiameremo John, come un qualsiasi ragazzotto triste e rassegnato. È alto John, magro, ha la faccia scavata dalle impurità dell'esistenza, e quando si ferma a fumare una sigaretta pure lui, si stravacca per terra, schiena contro un palo, una gamba distesa l'altra piegata verso il petto, a sorreggere col ginocchio il braccio venoso la cui mano tiene la paglia che fuma. I suoi occhi azzurri non sorridono mai; mentre si ride e si scherza, mentre il gruppo fa la conta delle cose che si possono fare per superare il guaio di pensare ad un'esistenza scarna, mentre il resto della combriccola con una mano sola fa la conta delle meraviglie del creato, mentre tutto il soggettivo diventa, in questo angolo di mondo, oggettivamente drammatico, gli occhi di John non sorridono mai. Forse ha saltato due o tre passaggi, forse due anni fa ha comprato una macchina e il giorno dopo è successo qualcosa di drammatico nella sua vita; o forse ha sposato una ragazza che non ama, ci ha fatto un figlio che non lo fa dormire. Non lo fa dormire di giorno. John non sorride, non parla, è chiuso, sotto il cielo che sovrasta anche lui, e che ha il sapore della plastica, avvolto dagli alberi scuri e paurosi, pure lui. Lui che non vorrebbe stare qui, lui che di questa comunità ci fa parte per arrivare a fine mese. Lui che ha dimenticato il significato della parola gioco; John, o qualunque sia il suo nome, capitano della squadra della tristezza, gambe in spalle controvoglia, non si diverte mentre la Regina presenzia alla Cerimonia di Apertura, mentre si ride e si scherza, mentre si fa la conta striminzita delle cose belle. John non è brutto ma non fa girare le ragazze, le sue scarpe sono consumate, avrebbe il tiro in canna, ma purtroppo non è armato; se qualcuno lo chiamasse per la Rivoluzione, lui si alzerebbe a fatica e partirebbe lentamente. C'è una cappa grigia che avvolge l'esistenza da queste parti, e John ne è vittima consapevole. E forse è la sua consapevolezza che lo tiene ai margini della felicità, ben oltre la linea border line di chi non può tornare indietro, non può rimettersi a studiare, non può andare con gli amici, c'è da chiedersi quali, al pub a ubriacarsi. C'è una notte da passare qui, l'ennesima notte costeggiata da alberi scuri e paurosi, sotto un plastico cielo; c'è un break da anelare, da passare tra l'odore di caffè e linoleum della sala mensa, oppure nello spiazzo dove si può fumare, a far la conta delle cose belle della vita, a fumare distratto e pensieroso, il culo per terra, la schiena su un palo, il ginocchio a sorreggere la monotonia di un braccio venoso la cui mano tiene la sigaretta che sbuffa fuma lontano. John, la sua tristezza per niente celata, si rialza con sprezzo, osserva ingrato, torna a lavoro. Nulla gli appartiene, non l'elmetto per riparare la testa, non i tappi di cera per le orecchie, né le scarpe con le punte rinforzate; i pantaloni da lavoro fanno figo anche lui, mentre i suoi occhi lasciano cadere l'astio per una vita spesa male, mentre i suoi occhi asciutti mandano segnali di resa. “E se potesse tornare indietro, indietro lui ci tornerebbe”. Viva John, mica tanto!

martedì 24 luglio 2012

La Guerra Senza Senso

Io l'ho visto stamattina. Volevo comprare un giubbotto, stavo seduto in macchina, dietro. Volevo un giubbotto, quello lì. Con le maniche asportabili, di due colori double-face, perché ce l'hanno tutti. Lui guidava la macchina, stava al volante, e io stavo dietro, volevo solo comprare un giubbotto, e speravo che lui non si tirasse indietro all'ultimo momento. Stamattina ho visto il freno, la mano che si interponeva tra me e la mia voglia di adolescenza. Volevo solo comprare un giubbotto. E guardavo dal finestrino della macchina, e lui guidava, e lei lo affiancava, sempre. Lui guidava e io guardavo fuori dal finestrino, e speravo che non cambiasse strada, che non decidesse di far valere il suo potere, le sua potestà, il suo becero caporalato. Combattevo una guerra impari. Non volevo una guerra impari. Per la quale ero disarmato. All'idea di perdere il giubbotto, mi venivano i brividi, sentivo già l'odore dell'umiliazione. L'ho capito stamattina, l'ho visto, mentre il mio giubbotto, comprato nonostante fosse di un colore che non mi garbava, ma mai avrei detto che saremmo tornati un'altra volta, perché un'altra volta avrebbe avuto un solo significato, cioè quella di morire abortita o scacciata come un bambino deforme da un villaggio medievale, mentre il mio giubbotto sarebbe stato mio fino al mese di maggio, mentre il mio giubbotto non sarebbe mai stato perso di vista, mentre il mio giubbotto chissà dov'è finito, io stamattina, l'ho capito. E l'ho perdonato, per le sue debolezze, per il sangue che mi ci lega, per tutto quello che si è perso, per tutto quello che ancora perderà; per la sua guerra vinta quando era impari, e per la sua guerra finita quando gli ho concesso la tregua senza aspre condizioni, senza fare prigionieri, senza dettare termini. Io l'ho visto stamattina, mentre Black Francis mi cantava ad un orecchio, esattamente come allora, mentre mi accarezzavo i polpacci da quindicenne, esattamente come a quei tempi; mentre il mio cuore batteva forte, proprio come quando guardavo fuori dal finestrino, non perdevo la mia falsa fierezza, e speravo inerme che lui non cambiasse idea. E speravo inerme che lui ne fosse felice.

lunedì 16 luglio 2012

Ninna Nanna

Mi sono rotto il cazzo! E direi che la cosa risulta pure normale, se il mio interlocutore non ha mai ascoltato i Clash. Mandrie di esseri brufolosi, con una poco inconsueta inclinazione alla voglia di potere, martiri di sé stessi, ambigui spettatori della vita che si trovano, ad un certo punto, spiazzati ma armati nel considerarsi attori punto e stop, si fanno beffe inconsapevolmente delle vite altrui. E lo fanno perchè manchevoli in delicatezza. La vera Rivoluzione dovremmo farla qui, in questo campo di battaglia. L'ho detto e scritto talmente tante volte che ho assunto e definitivamente fatto mia l'idea che la cosa non mi stanca. La vita è già dura per conto suo, perchè dovremmo “dare conto a gente che preferiremmo prendere a calci in faccia?”. “Abbiamo deciso”. E chi sei, un call center? Siamo uomini quando ci conviene, quando si tratta di indossare una camicia, quando si tratta di andare in giro con andatura dinoccolata, quando sfoggiamo la cera che lucida i nostri capelli, chè il gel è passato di moda. Siamo uomini, siamo giganti, quando c'è da sovrastare il campo di battaglia che un bambino ha approntato per i suoi soldatini di plastica. Siamo perfetti, agili e scattanti quando il muro da scavalcare è alto quattordici centimetri. Poi la maschera che fa spola tra la faccia e i coglioni si rattrappisce vieppiù sotto i colpi della coscienza...ma anche quella è passata di moda. Adesso è arrivato l'atto finale, siamo realmente in guerra; sconfiggere il Male fatto di idiozie falsamente pregne di reconditi significati, di marketing da serie c, e di psicologia avariata. Dispiace ma siete condannati a morte. Una morte molto più definitiva di quella fisica. Se volete vi canto una ninna nanna. Canto per voi prima che vi addormentiate. Voglio ancora vivere circondato da cerchi di fuoco odoroso, voglio dormire su letti cosparsi di sagaci impressioni; voglio immergermi nel mare delle mie delicate trovate. Voglio costringere le vostre membra a darsi un contegno. Nessun Presidente in visita, solo la Vita, quella vera. Quella che passerà in rassegna le vostre facce intrise di rancore verso voi stessi. La vita buia di Kafka, quella fintamente agognata da Leopardi, quella cantata da Omero. La voglio, il resto è contorno, e poco importa se al contorno avete dato nomi onomatopeici che stridono con le capacità di ascoltarli. Vincere, cercare un paio di occhi che sfuggono per pudore e imbarazzo, stringere una mano, deporre ancora una volta una rosa sul selciato, tacere per dare dignità a sé stessi, ricordare qual è il vero gap, e mettere tutto in conto, ha l'acre sapore di una vendetta che arriverà troppo tardi. Voglio la ricompensa! Quest'ultima frase dimenticatela in fretta, non è indirizzata a voi. Ancora una volta energie contro le ventose che non vogliono stare attaccate ai vetri; ancora una volta sollievo nel basso di un pezzo dei Karate, ancora una volta lo sguardo lì, dove si incontrano tetto e muri. Ma continua a piacermi l'essenza del mio vivere. Io, amici miei affezionati, sono un eletto. Ma ciò non vuol dire che non mi sia rotto il cazzo!

lunedì 9 luglio 2012

L'Anno del Gatto

E adesso? Due mani sapienti toccano i tasti del piano, a sinistra un canale che pare sporco, ma mi dicono che così non è. Al mi accompagna al suono del suo “Anno del Gatto”, e allora le nuvole si fanno poesia, dolcezza e malinconia. Una di quelle malinconie che giovano all'ispirazione; una di quelle malinconie che dolcemente ti tolgono il respiro. La vita prende altre pieghe, altre direzioni, nuovi punti di vista, nuove considerazioni. Come una chitarra con le sue note alte, e ci devi mettere te stesso per fare subentrare un sax che ti porti dentro la leggiadria di cui ha bisogno, e che meriti. Verso Nord continuiamo a tenerci sott'occhio, lui adesso ha il problema della gestione dei suoi nuovi sentimenti, e io arrivo in soccorso. D'altronde, cari amici miei, è già difficile, per uno come lui, gestirne una, figuriamoci due. È sempre l'Anno del Gatto, la voce di Al si intromette con quella fastidiosa delicatezza, con quell'aria antipatica da primo della classe. Però mi ricorda che ho bisogno di quei violini, di quelle corde spagnole, e ancora di quel piano che accompagna con la consapevolezza del proprio essere indispensabile. Poi arriva la ragazza di Norimberga, le sue correnti alternate, il suo sguardo duro pronto a bordo campo, finché i suoi occhi verdi (o azzurri , “ma queste cose succedono, come vedi ho dimenticato...comunque, ciò che voglio veramente dire... i tuoi sono i più dolci che abbia mia visto”), si fermano un attimo sui miei. E mi scrutano, chissà con quali misteriosi aneliti. È ancora l'”Anno del Gatto”, ma è anche quello del Dragone, Quando sta trasvolando con pensieri imperscrutabili, e io cammino ancora costeggiando il canale. Un boomerang. La passeggiata sotto le nuvole di Inghilterra mi ricordano i miei doveri, che vogliono incappare docilmente con le mie aspirazioni; un uomo mi guarda e mi racconta di cose ultraterrene, di cose che servono alla sopravvivenza del genere umano, di cose che riempiono la pancia. E vorrei dirgli che “sì, lo so”, ma vorrei anche spiegargli che posso vivere di sola poesia, posso nutrirmi di sogni, posso trovare sostentamento con l'ausilio di roba che ti fa levitare dal terreno. E che non voglio queste catene. D'altra parte nel momento in cui ci si saluta, il più delle volte ci si sorride. Dateci un'isola, datecene una, una soltanto. E noi la popoleremo, vi scriveremo regole nuove, vi costruiremo una scuola in cui nessun bambino andrà. Al si incazza un po', mentre canta di questo amore che gli sfugge di mano, e allora io mi ritrovo ad essere solidale con lui; perché la sua donna profuma troppo, è vestita come fosse l'unica. Quanto lo capisco. Non mi curo di questo angolo di Italia che qualcuno ha costruito da queste parti ( non io di certo!), non bado al ciarpame della mente, non mi occupo del giusto accoppiamento dei colori. Figuriamoci, per me giallo e bianco stanno benissimo! Solo Al, il canale al mio fianco, le nuvole sopra, le leggerezza dei miei passi, il sax che scompone educato il dolce incedere di due sapienti mani che toccano la tastiera del piano. Sono tornato, e poco importa se non è proprio l'Anno del Gatto.

sabato 9 giugno 2012

Fuori dai Cori

Confusione nella mia città, che vive di falsa religione mista a storico paganesimo, e di calcio, calcio e calcio, con aggiunta di pandemonio mediatico in cui, a volte converrebbe un sonoro ahinoi, tutti hanno voce in capitolo. Parliamo di calcio, o di quel che resta di questo amato sport, vissuto nella penombra dell'obelisco, tra le falde di un monte vulcano che si frastagliano fino a divenire roccia nera, sabbia fine, ciottoli odorosi, e il tutto si poggia in un mare speranzoso. Parliamo dello sport che ha smesso di essere tale, e dopo aver toccato le corde della cultura popolare, si è messo a fare il birichino, tentando la via del dolo e della distruzione dei sentimenti. Non sempre riuscendovi. Dal mio edulcorato punto di vista all'estremo nord dell'Europa non posso dire di avere in mano il polso della situazione; posso immaginare, facendo leva su ciò che leggo un po' qua e un po' là, che esiste una buona fetta di miei concittadini, di nati cioè sotto lo stesso cielo sotto il quale ho visto per la prima volta la luce, che ha un curiosissimo modo di riflettere e, immantinente, di esternare il riflettuto. Il Direttore, con il suo carico di cattiva creanza, con le sue “bastonate nei denti” dispensate alla bisogna, con i suoi modi da padre-padrone è andato via. Ha lasciato la squadra, la società, il Presidente, la scrivania, la finestra dalla quale osservava, novello signorotto, il feudo di Torre del Grifo, laddove calciatori bravi ma sconosciuti, o calciatori sconosciuti intenti a diventare bravi, si prodigavano nella pratica dello sputare sangue e sudore, al fine di ottenere di entrare nelle grazie del signore succitato. Ho osservato il lungo incedere del Direttore nella sua parabola rossazzurra, dapprima da semplice tifoso, poi, via via, da addetto ai lavori (onestamente ero un addetto ai lavori atipico, se, com'è vero, mi permettevo di dire cose che nessun altro collega poteva dire, per via del fatto che la mia noméa aveva i crismi della “licenza di uccidere” col sorriso), un addetto ai lavori che a poco a poco conosceva il suddetto, costruendo nel tempo anche un rapporto di velata amicizia personale. Ma il Direttore era, è e resta un personaggio scomodo, ricco di sfaccettature spigolose, ingrato che rende ingrato chi gli sta attorno; ma a scoppio ritardato. Quando si è concretizzata la fine dell'idillio, da più parti ho scorto urla di giubilo e apoteosi degne dei botti di capodanno. Fine di un'era oscura, fine dei giorni dell'apocalisse, fine di una dittatura aspra e medievale. “Che vada via”, è stato altisuonato a squarciagola mentre le membra di Pietro facevano già capolino sotto la Lanterna. Facile no? È agevole quanto elementare gettare via una maschera per, magari, indossarne un'altra, giusto per far piacere al nuovo corso; giusto per far piacere ad un Presidente che da qualche tempo ha smesso i paraocchi, ha dimenticato tutto ciò che negli anni gli è passato davanti, e ha scoperto di essere un impavido attore del mondo del calcio. Salvo poi, e in questo i miei concittadini sono maestri mondiali, dare un'occhiata sospettosa di tre quarti al nuovo arrivato, chè ancora ha da dimostrare ciò che vale. Però la domanda sorgerebbe spontanea a chiunque: cosa vale in questo sottobosco sociale calcistico che degnamente rappresenta il mondo reale? Valgono i modi e le espressioni? La comunicazione e le gentilezze mediatiche? Valgono i biglietti omaggio a “Lei e Signora”? Oppure, infine, valgono i risultati, soprattutto in una piazza in cui, per tanto, troppo tempo, si è mangiato pane con amaro companatico fatto di terra di campi di periferia, Tricase, Olbia e Gravina? Un giorno, quando ancora Torre del Grifo era meta giornaliera di carpentieri e muratori, e bisognava entrare lì dentro muniti di elmetto a norma di legge, il Direttore mi disse, in uno dei suoi (pochi) slanci di familiarità, che gli avrebbe fatto piacere pranzare con me proprio lì, in cantiere. Il pranzo fu un panino simpaticamente rubato dalla cesta degli operai, naturalmente. Durante quel pomeriggio in cui distinsi a occhio nudo l'eccitazione del Direttore che vedeva la sua creatura crescere sotto i suoi occhi, parlammo di tante cose. Io non sapevo, o non mi rendevo conto, che di lì a pochi mesi la mia vita sarebbe cambiata, e il Direttore mi raccontò, come è solito fare, una marea di aneddoti. Mi parlò di errori, di sviste, di atti dovuti, di giocatori venuti dal Perù che non avevano più voglia di giocare al calcio e che, spronati da Pietro, avrebbero continuato la carriera, fino a raggiungere mete insperate. Mi raccontò di giocatori finiti ceduti per intere fortune, e di giocatori rotti smistati a grandi società; parlammo di tecnica e di tattica, del gioco del calcio come va inteso anche da chi, fortuna sua, in quell'ambito ha la grave “incombenza” del maneggiare danari per interposta persona. Ogni volta che parlavo con lui, e l'ultima volta è stato lo scorso novembre, quando con suo fare mi disse che avevo scelto la città “più brutta di Inghilterra” come luogo in cui vivere, ho sempre avuto l'impressione che oltre ai muri, lontano e vicino a noi, ci fosse sempre stato il tumulto latente di chi avrebbe fatto volentieri a meno dei suoi servigi. E ogni volta ho intravisto il palesarsi della sua armatura, della sua difesa ad oltranza, sempre e comunque “per il bene del Catania”. E allora mi chiedo, armato di quel piccolo ma costante fastidio che ti tedia l'animo ancor prima che il corpo: dov'è finita l'intelligenza machiavellica? Come fa un popolo di “so far tutto ma...” a non avere l'acume di zittirsi, di chiudere gli occhi, di non soffermarsi sulle forme e concentrarsi sui contenuti? A che titolo ci si arroga il diritto di puntare indici tesi su chi ha compiuto un miracolo? Perchè di miracolo si tratta. Il miracolo di una azienda prospera ed arzilla che rappresenta in serie A una città da radiare; il miracolo di essere lì, nell'Olimpo della sfera di cuoio, nello scintillante pianeta della pedata, che scintillante, conviene sempre ricordarlo, a Catania negli ultimi quasi due lustri non è stato. Perchè bisognava tenere i piedi per terra, perchè di pane si vive, di sogni ad occhi aperti si può durare un fiat. E ancora “perchè comprare un attaccante di nome per fare felice la piazza può significare andare in B, e il gioco è fatto”. E invece i catanesi, che ancora oggi stropicciano gli occhi per la perla dell'uruguaiano contro l'Inter o per la lunga parabola del calatino in quel di Palermo, tassello luccicante di un poker che fa storia prima ancora che leggenda, oggi si ammantano della veste prestigiosa di chi ci è arrivato lì. Senza chiedersi il perchè e il per come. Perchè si fa il tifo per la maglia. Dimenticando che qualcuno quella maglia, per fede o per moneta sonante, la deve indossare, e poco importa se poi in campo si va in undici, quella maglia la indossano tutti coloro che dopo la sveglia hanno l'incombenza, il dovere, il piacere, e persino l'onore di operare nella società rossoazzurra. Lui ha inculcato tutto questo, facendo rinascere dalle ceneri gaucciane, tanto per rimanere nel recente passato, una società che mai come adesso si è appropriata di un'identità che ha solcato il terreno del giuoco del calcio nazionale. Solo con quello spirito di abnegazione, mai conosciuto dalle parti della Sicilia Orientale, e che ha richiamato, chissà perchè, i vituperi dei buontemponi, si poteva superare di slancio la tragedia del Due Dicembre. Potrei continuare per tanto ancora, rischiando piacevolmente di essere stucchevole. Tutto ciò che ho visto, da spettatore a metà strada tra la tribuna (ma non la curva, popolata da persone con le quali non mi riconosco) e la mix zone, dai banchetti della quale davo il mio piccolo, quasi insignificante contributo, è stato un crescendo irresistibile di prestigio e storia, questi sì tanto veri, che pare abbiano ignorato tutte le malignità dei petulanti da solotto e degli avvocati prestati al commento tecnico. C'era, da quel lato, dal lato di chi apriva gli occhi e la mente, un fiore che germogliava in mezzo al niente e al letame, mentre si ledevano le loro maestà di presentatori televisivi e di politici politicanti. C'era, a dispetto di coloro che si allenavano nella pratica dell'arricciamento del naso, una creatura da forgiare e da lasciare che andasse sgabbettando lungo la penisola italica. E intanto “quell'addetto stampa non va bene”, “quest'anno non abbiamo comprato nessuno”, “ma perchè non possiamo andare in Coppa Uefa?”, mentre facendosi i calli alle mani, il Direttore teneva ben strette le briglie di una realtà che, la storia lo ha detto e non vi è alcuno che possa confutare, doveva essere trattata solo così. Facendo finta di niente quando si trattava di lasciar perdere, e sguainando la spada quando a perire dovevano essere coloro che minavano la tranquillità di un'isola felice che ha fatto calciatori maiuscoli ragazzotti provenienti dalla serie C argentina. Resta la confusione, che sa tanto di entropia; resta l'amarezza che per l'ennesima volta in questa nostra storia fatta di recriminazioni (tante) e di applausi meritati (pochissimi), non c'è una stretta di mano che funga da lodevole commiato. Resta la falsa religione mista al becero, storico, paganesimo, e il calcio, calcio e ancora calcio, vortice doloroso che investe umanamente con la forza di un pandemonio mediatico in cui, ahinoi, tutti hanno voce in capitolo.

sabato 2 giugno 2012

Quando e Lei fanno Ooohhh

Sapevamo che sarebbe finita, ma ce la facemmo durare. Noi sapevamo benissimo che, nel dramma di un'esistenza di uomini, di uomini veri, tutto avrebbe avuto il sapore del mortale. Lo sapevamo in quattro; ognuno di noi, diversissimo dagli altri, sapeva quel poco che bastava per contenere l'urto di un avvenimento senza precedenti e senza strascichi, ognuno di noi aveva la consapevolezza che sarebbe stato unico, molto più isolato che straordinario. Ma è stato stupendo... Giovava un pizzico di spavalderia, ci servivano una manciata di gesti sfrontati, anche se da questa parte della barricata a comandarci a bacchetta c'era la Paura in persona. A pochi giorni di distanza sembra tutto così ovattato e avvolto nel mistero e nelle nuvole sconsiderate di un periodo che invece ci ricorda l'estate; a pochi giorni da una circostanza molto più che desiderata resta la presa di coscienza che forse non si è verificata. Ma era troppo reale; Quando, con le sue false timidezze, si è lanciata in un volo di un metro, e tutti abbiamo applaudito. Lei che vinceva le sue, di timidezze, sfoggiando un'aria quasi sicura; immergendosi in un lago di controsensi, sfidando la sua natura provinciale. Un altro sorso alla Stella, un altro sguardo alle stelle. Erano le dieci ma era mezzogiorno, erano le dieci ma era fermo il tempo. Gli occhi, occhi di una sola fattezza, e le braccia si sono bloccate, mentre ridevano tra loro, mentre ci prendevano in giro, mentre usavamo paroloni impegnativi. Grazie al cielo è successo però. Perchè a noi sarebbe bastato quel poco, anche se a tempo, anche se ad orologeria. “L'amore è vero e reale ma non per gente come noi, amore mio”. Niente più patatine perchè la grassezza è dietro l'angolo, mentre dall'angolo più scrutato facevano capolino un paio di occhiali da vista. Zumba pomeridiana, scommesse, giochi ed esperienze ludiche; e poi ancora matti, matti di un amore che salta gli Urali con un balzo felino, di un amore che salta a piè pari le ipocrisie dei paladini dei luoghi chiusi e ottusi, chè noi siamo esseri superiori e ci sforziamo di capire. Se solo loro capissero anche questo, se solo loro accompagnassero questa astuta ed immane coincidenza. Ma torniamo lì, se potessimo farlo ogni giorno, ogni notte, ogni singolo istante di questa esistenza che prende senza dare, e quando dà elargisce poesia. Già, poesie, ce ne vorrebbero a bizzeffe, perchè sapevamo benissimo che sarebbe finita, e ce la facemmo durare finché non ci avessero buttati fuori dal locale, finchè non ci avessero detto che era arrivato il momento di andare a dormire. A sognare, magari. A fare la conta striminzita delle magie, a fare il processo finale, a commentare ancora ed ancora. Mentre avevamo una colonna sonora sullo sfondo, mentre si rideva di pochezze infinite, mentre le palline entravano in buca accompagnate da “ooohhh” disarmanti, mentre tutto intorno era muto e sordo, sapevamo benissimo che sarebbe finita. Sapevamo che quel momento non sarebbe durato per sempre, ed è per questo che lo abbiamo amato di più. Ed è per questo che è stato stupendo...

sabato 26 maggio 2012

I Tempi Passati e i Futuri Anteriori

C'era profumo di fiori. C'era quel tipico profumo che sfida gli altri odori. E li sconfigge. La mia nota malinconica del tempo perduto mi accompagnava con la solita gentilezza, mentre io sfoggiavo i miei nuovi abbigli con contorno di bianca musica distorsiva. Le linguine al ragù del giorno dopo hanno prerogativa di essere defatiganti; un sorso al succo, un'occhiata furtiva alla casella dei messaggi e ancora un attimo lì. Come un usurpatore, ma mica con la U maiuscola. C'era profumo di fiori, c'era tanta estate improvvisa, c'erano vesti greche, foto luccicanti, un aperitivo al gusto di sciroppo per la tosse. Sembrava lo facesse apposta. Seduti ad osservare le regole, ma anche no. C'era sempre e comunque profumo di fiori; come una landa imperfetta da planarci sopra con un deltaplano, come un fascio di capelli biondi accarezzati da un vento di giugno, chè giugno ancora non è. Come i fumi di un pic-nic che ti rimangono addosso fino alle sera, quando sei stanco morto, aneli il tuo letto, ti ci butti sopra con la brama di infilarci dentro forchettate e palate di benessere. C'era profumo di fiori, nel mese mariano, con circostanze circonvenute circolando da circhi di tutte le guise. Si parlava a gesti, mentre i fiori giacevano sui cesti. Si parlava ammirati, mentre si veniva mirati da innocui mirini. Gran gala da una parte, grida e atteggiamenti lascivi da un'altra. Dove cazzo è finito Ivan? C'era profumo di niente che possa minare le nostre gioie, c'era la Dea che furtiva lanciava occhiate, c'era aria di pazzia controllata. C'erano i tempi passati e i futuri anteriori. C'erano tacchi troppo alti, e profumo di fiori. Nessun monito, nessun ammonimento, nessun monile da conservare, solo tacchi alti, occhi a mandorla che non guastano mai, gente da impagliare silente, morti da tenere lontane; e c'era, scusa ancora la ripetizione, profumo di fiori. Un profumo assordante, un profumo accecante, un profumo ammaliante. Come la fine del dolore di una ferita che si cicatrizza, come il torpore materno della sua carezza; come il pensiero, sì, che le anime esistono davvero. E ancora come un fascio di luce fredda che non ti scompone, ti accompagna, ti porta in braccio perchè stai dormendo, e non ti fa sbattere la testa da nessuna parte. C'era, e mi rivolgo a chiunque abbia voglia di sentirlo, profumo intenso, ma non invasivo, di fiori. Di fiori legati insieme da un elastico, di fiori colorati o di fiori solo rossi; profumo inebriante, che si stacca sornione dal resto del mondo, che si contorce, che ti chiede l'accendino, che ti morde fugace e poi scappa via. C'era profumo di fiori, e io, non me ne vogliate, stavo lì, con la gentilezza della mia malinconia.

sabato 19 maggio 2012

La regola dell'Amico

Le mie gambe si stanno abituando alla leg press, il mio corpo ricresce sotto i colpi degli esercizi fisici e delle proteine finali; intanto dalle parti di Harborne si studia a ritmi elevatissimi cercando di recuperare il tempo perduto per chissà quali reconditi motivi. E si scattano foto accattivanti. È un mese pieno di compleanni, un altro. Io e il mio amico ci produciamo nel lavoro inutile di stilare un dizionario, mentre il Racconto prende forma con un crescendo degno di una cavalcata sulla sabbia, o di un pezzo di Mogwai che parte lento, bisbiglia, si ammazza di sudore, svertebra tutto a chitarrate, indossa un vestito da gran gala, e muore definitivo con la consapevolezza della propria completezza. È il mese del finale di stagione, e forse per questo mi sento fiacco e debole, forse per questo vado a letto alle undici, solo una volta però. Le ragazze italiane mi ricordano il loro retaggio culturale, e poi mi ricordano che il loro retaggio culturale va a fare in culo quando si tratta di sputtaneggiare a destra e a manca, o quando danno fin troppa importanza all'amico brutto innamorato che si intromette tra me e loro, muoia Sansone con tutti i Filistei. L'anello più debole della catena della dignità si fa persona umana e ha fattezze di un essere privo di midollo, di un essere che non si cura della grande brutta figura che sta facendo con se stesso. Viviamo, giochiamo a biliardo, dormiamo in letti non nostri, indossiamo le cuffie del nostro I-Phone con dentro la musica che ci piace di più, inventiamo gerghi, ci distruggiamo di biscotti al triplo cioccolato, facciamo giri del mondo comodamente seduti al tavolo diciotto; beviamo succhi di frutta più salutari che buoni. Pronti partenza via! Chè se le gambe non reggono non importa; tanto il tempo è l'unica medicina, e non costa tantissimo. L'unico problema è che non vediamo la fine di tutto ciò. Già, chi sa dirmi dove finisce, e se finisce? Forse nell'interstizio tra una moquette e un'altra, forse nel messaggio di una ragazza romana, seducente come il suo “Ti A...” venuto su questa terra da chissà quali galassie lontane; forse finirà nella capacità che ha un uomo di sessanta anni di essere stupida falena che sbatte la testa sempre e comunque su quella fonte di luce lì. Oppure finirà, inverosimilmente e magicamente, tra le stradine della Città Proibita, nei lunghi viali di Pechino, tra le sindromi della Principessa. Chissà Quando... Non è solo un momento da godere, non è solo il momento di godere, è la vita. Quella che c'era ma era latente, e non si palesava, perchè tutti si mettevano davanti e oscuravano la vista. Qualcuno picchietta su una nota altissima del pianoforte, poi c'è chi si strugge l'anima se ballo con una ragazza, se la faccio ridere di gusto, se sfioro le sue labbra con le mie, se mi faccio portare a casa sua. Gnocchi con dentro seafood, per favore. Spalmo ancora un po' di crema alle mandorle sul mio petto glabro, osservo attraverso lo specchio le mie evoluzioni muscolari. Tranquilli, non solo lo faccio ricordando a me stesso che sembro un coglione, ma poi, con un colpo di coda, accendo il laptop e guardo un film coreano, pieno di arte e filosofia. Intanto le sue mani mi cercano, si accorgono con stupore che non perdo la giovinezza neanche a colpi di scudiscio, e mi anela, come fossi una mela. Succosa. Ma è l'amico smidollato che si presenta come un esattore, e ci ricorda che l'assenza di dignità è un pozzo senza fondo. E mi dispiace, tanto per lui quanto per me. Fate vobis; io mi sto abituando al puzzo dei vostri piedi, e nonostante la leg press e il cangiante clima delle West Midlands, nonostante i vorticosi giri del mondo stando seduto al tavolo diciotto e il pezzo di Mogwai che sembra una cavalcata sulla sabbia, come il Racconto che cresce, nonostante i balli col doppio fine e gli gnocchi al seafood, mi faccio forte di un “Ti A...” che so benissimo che ha da venire. Qualcuno mi sa consigliare un'App divertente da scaricare? Bevo un bicchiere di vitamine e vi dico ciao.

venerdì 11 maggio 2012

I Due Zingari

Avevano tutto. Avevano un letto per dormire, una serie tv, un pacco di biscotti. Avevano tutto, i bicipiti e le spalle, un gergo, il dinamismo e una speciale abilità nel mettere le palle in buca. Avevano armadi, pochi, e vestiti, quasi tanti. Avevano occhiali da vista. Avevano le note al punto giusto, le travi, le favole, i martiri quotidiani, gli appuntamenti mancati, le saune del cervello, la strada piena di persone, la strada spoglia, gli alberi, i treni; avevano la libertà di salutare tutti e andare via. Avevano documenti in regola, avevano la domenica mattina; avevano diversissimi modi di vivere la domenica mattina. Avevano poesie e dizionari, amiche venute da luoghi lontani, e amiche venute da luoghi vicini. Avevano tutto, anche se mancava loro il ferro da stiro, anche se mancava loro l'asciugacapelli, anche se mancava loro... Avevano i giochi, i libri, i film, le poltrone, i sofà, la telepatia. La bistecca con sopra un uovo, le mercanzie della mente, i bambini che indicavano la strada, i bambini che indicavano le stelle. Avevano musica e colori, strati su strati di cioccolato, tatuaggi, suonatori di cetra. Avevano la luna che illuminava le finestre, avevano il sole che illuminava tutto, soprattutto le finestre. Avevano baci e abbracci, venti minuti di automobile, cinque minuti a piedi, otto di bicicletta; avevano la pioggia sotto il sole, un Egitto in cui rifugiarsi, un Pakistan da bombardare. Avevano un piano, il decimo, o il primo; avevano una cucina, la quarta da destra. Avevano la disperazione, i pugni, le birre, il valzer e la capacità di capire in anticipo i tradimenti. Avevano l'incombenza di lavare i piatti, quella di cucinare la carne, quella di dover dimenticare e quella di resistere. Dita veloci, passi felpati, luride ambientazioni, cappucci per coprirsi, pistole spianate formate da indici e pollici. Avevano risposte per tutto e grandi interrogativi; avevano fratelli lontani, cessi a pochi passi, francesine che non volevano scoprirsi. Avevano storie da raccontare, un amico a Bocca di Porto, un'amica vicino allo stadio. Avevano grandi interessi e interessi molto terreni, attrezzi e prodotti per pulire il tutto. Avevano micce e detonatori, plichi da consegnare a vecchi attori come fosse una corsa contro il tempo. Avevano voglia di ritornare al futuro, un ballo da anelare, un'idiosincrasia da qualche parte negli angoli nascosti dei loro corpi; avevano ancora strade da percorrere, e sguardi rivolti all'indietro. Avevano caratteristiche uniche e imprendibili. Avevano tutto questo, insieme a mondi lontani. E ce l'hanno, chissà per quanto tempo ancora. Avevano un Sogno, e lo stanno inseguendo. Adesso.

sabato 5 maggio 2012

I Campi Verdi

La storia è già scritta. Io e te ci conosciamo, e tu ti metti a tuo agio; ti volti, mi sorridi, ti ridesti, mi dai il tuo fianco migliore. Io faccio il simpatico, passo all'attacco facendo lo splendido, sciorino vieppiù le mie qualità, le metto sul piatto senza parsimonia. Tu sorridi con gli occhi, poi schiudi la bocca e mi mostri i tuoi bianchi denti. I tuoi riccioli cadenti, il tuo “oh cazzo, non ho fatto lo shampoo e devo essere un mostro”, le tue mani semplici, non curate, ma pulite. Io faccio il trasandato, il noncurante, il dimesso, ma tutto è calcolato, poiché, almeno per te, la sciattezza non mi appartiene. E tu sei bellissima. La storia è scolpita nella roccia, io mi accorgo di te, e con fare quasi sbadato mi sorprendo e ti dico due parole con la bocca; e te ne recito una sfilza coi miei occhi. Il tuo sguardo si posa sul mio, il mio vaga alla ricerca delle tue orecchie, del tuo top, della lunghezza delle tue ciglia; della presenza maligna di un tuo compagno. Ipotetico. Mi parli, mi continui a guardare, ti continuo a guardare, mi tendi tranelli per testarmi, mi studi, mi presenti il conto. E io, è scritto, mi sento forte, terminatore, armato di attenta bastarda indifferenza, triplo ossimoro di un germoglio che va curato con tutte i riguardi possibili. È scritto, è stampato da qualche parte, qualcuno lo ha annotato sbadatamente, ci si becca presto, con ausili virtuali, con i telefoni, con le promesse che sanno tanto di affinità elettive. Si chatta in spensieratezza, ma senza perdere di vista il terreno che ci sta sotto i piedi, senza dimenticare la missione che ognuno di noi ha di tenere testa, di mantenere il controllo. Ma è soave questo sentiero costeggiato dai fiori sul quale stiamo passeggiando. È armonioso il nostro aritmico procedere nei campi verdi e aromatici delle nostre chiacchierate, è predominante la voglia di saperci, la bramosia di distinguerci tra gli altri. Ci si becca, ci si schermisce dalle false scorrerie vicendevoli, ci si attacca con il desiderio e la consapevolezza che non ci si vuole colpire mortalmente. È un gioco, il più meraviglioso di tutti, è scritto. Poi ci incontriamo, superiamo non senza difficoltà i primi imbarazzi, chè la presenza de visu abbatte i muri ma denuda un po'. Denuda tanto, a volte. E allora dobbiamo rassicurarci, dobbiamo nutrirci della nostra stessa fiducia, e infonderla l'uno all'altra. E tu sei bellissima. È scritto, è tatuato sulla pelle di un vecchio pescatore, è limato sulla roccia più alta dal vento poderoso. Dobbiamo, entrambi prede di una magica trance, continuare, dare seguito alle nostre sensazioni, ai nostri proponimenti, alle promesse che ognuno di noi ha fatto a se stesso. Tu giochicchi con la forchetta sulla torta al cioccolato, io sorseggio grave il mio caffè, tu perseveri con l'arricciarti una ciocca sull'orecchio, io, con il mio, tiro su il tuo sguardo. Cerco di tranquillizzarti, ciò che tu vuoi io voglio. E allora ci si desta dal tavolo, si supera agevolmente l'imbarazzo minore quando sono io che pago per il nostro caffè, e ci si incammina arditi, mano nella mano, verso un futuro troppo prossimo ma anche troppo inebriante per poterlo circumnavigare con le mestizie della mente. È scritto, la storia è già stata vergata con inchiostro indelebile. Tu mi ami a tempo determinato, io ti sussurro parole passate per caso tra i meandri del mio cervelletto. Poi ci si abbandona, vinti, dalle tempeste dei mondi reali, che puntuali arrivano solo e quando non vogliamo la loro manifestazione. Ma tu, questo è scritto durevole e ineliminabile, resti sempre bellissima.

sabato 28 aprile 2012

La Costante

La Luna sta sui tetti, le mani si muovono a piacimento, la finestra sta sempre lì, di fronte. Il backpackers, durante il week-end, continua ad essere teatro di andirivieni di tutti i tipi, di tutte le fattezze. Si aspetta un'ora, o forse due, per giocare una partita senza senso con le palle rosse e le palle gialle. Intanto si fa opera di digitazione telematica usando in tutti i modi possibili i telefoni di ultima generazione. Ma la testa non si muove da quel tema ricorrente. Perchè Lei ha fatto questo, perchè Lei ha fatto quello. Tutto il resto è contorno. Ma non funziona così. O meglio, il resto sì che deve essere contorno, ma attorno a me, o attorno a te. Non a Lei. È solo una convenzione se si è guadagnata la lettera maiuscola. Da altre parti mi staranno già perdonando. La Luna sta sui tetti, forse, visto che le nuvole hanno trovato casa sui nostri cieli e sembra proprio che non vogliano sloggiare, la finestra sta sempre lì, nessuno la sposta; magari qualche egizio impertinente accosta le tende giusto un paio d'ore, ma quanto è vitale il mistero che si cela da quelle parti! Io mi perdo dentro il pensiero che certi sguardi non mi attraggono più, e intanto restiamo ancorati al sogno di un paio di braccia conserte, di un paio di occhiali, di un pomeriggio in cui la desolazione è tenuta fuori. Un pomeriggio in cui i canali non richiamano altri pensieri. C'è Lei, c'è tutto! “Sei felice?”. E poi vorremmo spaccare tutto, vorremmo spiegare, con l'ausilio delle slides di Power Point com'è che funziona la vita. La Luna è sui tetti, l'ascensore parla, il Sole sorgerà domani, e almeno lui non ha mai dimostrato di avere fretta; io mi ritrovo a scrivere di un minimo comune denominatore che incalza e ci parla delle nostre vite di adesso. Palla otto in buca ad angolo. Siamo forti, e sorseggiamo una birra. Non c'è noia, non c'è rimorso, non c'è remora che nuota sulle nostre schiene allenate in palestra. C'è solo una Luna, visibile o celata, viva o dispettosa, che sta sui tetti, mentre le finestre anelate si illuminano o restano al buio. È come se fossimo seduti in una spiaggia, come se stessimo guardando una nave che si avvicina, o un'esplosione nel cielo; è come se fossimo due facce della stessa medaglia. Giallo contro rosso. “Hai idea di quanto voglia uccidere la tua voglia di rimanere appeso a questo filo insperato?”. Ma poi penso che non voglio ucciderla, questa voglia; poi penso che ti ci vorrei accompagnare io da Lei. La Luna è sempre sui tetti, la finestra sta sempre lì, e io ho scritto questo post senza rileggerlo mai. Tienti stretta questa Costante, se è Lei che ti tiene in vita.

venerdì 20 aprile 2012

Niente Additivi

Mi piacciono le feste rumorose, tutto qui. E magari arrivarci un po' in ritardo. Scrutare nei volti della gente convenuta il giubilo per il tuo avvento, la noia per ciò che è successo fino a quel momento, la preoccupazione. Mi piace andare alle feste, piene di “musica e di gente, giovane e animata”, il Candido Poeta entra sempre in gioco. Entrare subito in sintonia con le persone che stanno lì, a colpi d'anca, che per i primi momenti sono sporadici, quasi di riscaldamento, poi diventano sempre più parte della festa. Divento sempre più parte. I bicchieri sparsi per le terre, i tavoli di vetro che miracolosamente restano intatti, sebbene più di un ginocchio ha avuto l'ardire di sbatterci contro. C'è chi si produce in una conversazione a tre, chi guarda dalla finestra e pensa alla ragazza che lo ha lasciato, chi fa il simpatico; c'è chi è simpatico. Mi dilettano le feste rumorose, in cui nessuno tocca le tartine preparate con cura da un'amica della padrona di casa, in cui è sempre vuota la bottiglia del tuo drink preferito, e allora sei costretto a ripiegare su qualcosa di diverso. Mi garba fare parte di un piccolo nucleo terrestre, di una scatola chiusa che non si cura del tempo che c'è fuori, pioggia o vento, neve o sole, dall'altra parte del mondo. Chè il mondo, per adesso, è qui. Mi piacciono le feste, soprattutto quelle rumorose, quelle fatte nell'appartamento di qualcuno, che non ha l'ardire e l'intelligenza di pensare che quando tutto sarà finito dovrà fare operazione faticosa di rigeneratura, di pulitura. Quelle feste, o party come si dice in questi luoghi, durante i quali puoi scorgere qualunque tipo di attività umana. C'è chi si apparta nell'angolo più remoto della stanza, provando a dare un senso sessuale alla propria serata; c'è chi si da all'alcol, c'è chi ha delle cose da dire proprio a quella persona lì, e allora la festa è già finita, perchè la conversazione è lunga, ma d'uopo. C'è chi si imbatte su qualcuno già conosciuto, non si sa dove e quando, c'è chi crede che basti poco per conoscere una ragazza e portarla a letto, ma poi deve irrimediabilmente ricredersi sulle plastiche facilità della vita. C'è chi si ostina a pensare che che la gente, alle feste rumorose, ha una aerea natura, come fosse bidimensionale, e allora non crede affatto che ognuno dei convenuti, alle feste rumorose, ha una propria vita, un proprio passato, un vissuto. E allora ci si perde, perchè anche alle feste rumorose non bisogna mai perdere di vista il senso della vita. Perchè il senso della vita sta, in qualche misura, dentro le feste rumorose. I massive parties sono un'allegoria fantasiosa dell'esistenza in salsa tecno-pop, sono un piccolo scibile delle nature di ogni dove, in cui tutti provano a trasmettere qualcosa usando youtube e propinando agli altri i propri gusti musicali. Dinosaur Jr per me, o magri un pezzo grunge dei Bush, che secondo me sono stati sottovalutati, o magari soltanto offuscati dagli altri gruppi del panorama di Seattle. Questo vorrei dire alle feste rumorose del venerdì, o del sabato. Poi la musica scivola sorniona dalle parti dei pezzi in cui ci si può cimentare in balli poco convenzionali, molto dirty. Ma la festa continua ad essere rumorosa, ha voglia la padrona di casa, a fare “shhh” formando una croce con il dito indice e le labbra. Durante le feste rumorose puoi dire quello che vuoi alla ragazza con la quale stai ballando, lei è troppo brilla per rendersi conto dei tuoi errori-orrori grammaticali, lei è troppo andata per capire, così una risata alla fine della frase, lei ti viene dietro, e scoppia in una risata per una battuta che non ricorderà in eterno. Alle feste rumorose, quelle che mi piacciono tanto, c'è “musica e c'è gente, giovane e animata”, c'è birra, c'è vino, c'è chi ha messo i jean's, c'è Fabio con la t-shirt di Doolitle dei Pixies, c'è sempre una fotocamera in azione, c'è gusto, c'è teoria, c'è tanta pratica, c'è gente che vorrebbe aprire un ombrello. Mi piacciono le feste rumorose, e devi fare la fila per andare in bagno. Fumi l'ennesima sigaretta quasi baciandoti con la finestrella aperta e dalla quale entra un gelo quasi innaturale, ne offri una a qualcuno che le ha finite e non ha avuto l'accortezza di fare scorta. Passa un joint assassino, e io mi chiedo se ci sia bisogno di additivi, visto che la festa rumorosa basta a se stessa e a noi tutti. Mi piacciono le feste rumorose, anche perchè, scusate l'ardire, ci si può produrre in un bel peto puzzolente, e magari dare la colpa del tutto al vicino di baldorie. Tanto nessuno avrà il coraggio di lamentare un bel niente. E poi ci si incammina furtivi verso la fine, e allora ci si rende conto del troppo bevuto, del troppo fumato, del troppo gridato. Lo rifarei stasera stessa. Perchè mi piacciono le feste, soprattutto quelle rumorose.

venerdì 13 aprile 2012

Gli Errori Apparenti

Ah le verità... cambiano come i deodoranti, come il nuotare dei branchi di pesci in mare, come il vento sottile che si fa imponente. Oggi un fungo mi guarda con la testa reclinata, e ieri ho perso due ore di sonno; e l'ho fatto per una buona causa. Ti cerco e non ti trovo, e ciò che avevo sentenziato la sera prima, la notte prima, è andato a farsi benedire. Quando viene, lo decide, io sono d'accordo, e mi ritrovo a contare dei nei su una pelle liscia e glabra; su una pelle bianca quasi all'inverosimile. Quando si fa prendere dagli slanci, quando vuole venire con me nel mio paese, nelle mie terre, tra i miei agi, pochi. Quando vorrebbe insinuarsi tra i rumori delle feste, quando vorrebbe mettere la testa nei miei cappelli in ordine sparso nella mia camera piena di disordini. Quando beve una tazza di tea, quando mi chiede di andare a lavare la tazza. Quando mi implora di non smettere; quando crede che la si debba comprendere. Sindrome della Principessa. Quando mi dice che preferisce guardarmi giocare, quando invece prende la stecca e si concentra sulla palla da colpire. Colpito! Ancora, come sempre, a tempo. Tempo finito. Suona un piano, come se a suonare fosse la mia mamma... quando, sua mamma fa il compleanno. Qualcuno mi ha detto che non sono facile da comprendere, e forse ha ragione, ma basta saper leggere tra le righe. Le righe forse non ci sono, è vero, ma è una pura congettura. Il mio stomaco in disordine ubbidisce devoto, quando parla di Londra, ancora una volta, ancora lì, a mangiare cose strane. Quando mi dice che studia ancora un po', e le mie correnti alternate oggi sono piene di fiducia. Fiducia nei miei sensi, a corrente alternata, stormi di pesci che cambiano direzione senza avviso. Quando vuole stilare una lista di cose da fare; quando insiste sulle meraviglie rurali dei villaggi di lì. L'ultima parola non è stata messa a caso. Quando fa tutto per farsi odiare, e poi, con uno sguardo, over the top, eccola che si riprende tutto. So perfettamente che tutto questo sentire non durerà che un breve volgere di lancette, ma ho già deciso che devo prendere quello che c'è, che il futuro non esiste, che il destino sa e io no. Quando sa, e io no, allora in quel momento la mia scelta diventa rigida, chiusa e finita: soffrire e chiedersi perchè, oppure cavalcare e sentire d'olfatto. Quando scelgo, anche se a tempo, anche se finito. Il tempo è finito, come aggettivo qualificativo. Tanti margini, tantissimi margini per provare altro, per provare ancora nuovi gusti e nuovi odori, ma quando viene, be', il mio stupido bloccarmi si impadronisce di me. Quando, naturalmente, si impadronisce di me. Qualcuno mi salvi, quando è ancora qui!

venerdì 6 aprile 2012

Da Manuale

Mi chiedo intimamente, anche se so che non si fa, se il merito è mio. Merito in senso letterale, naturalmente. Ho già detto che non amo tanto le montagne russe, vero? Sacchi pieni di roba sportiva mi scrutano da vicinissimo, mentre i Dinosaur Jr fanno il loro dovere, spaccando tutto con la potenza delle loro chitarre: “ogni tanto vorrei uccidere te”. Nella solitudine della stanzetta che accompagna i miei sporadici sonni e le mie infinite giravolte oniriche ho tutto il tempo per farmi migliore. Un sorriso, una frase pensata, un Greenwich Mean Time, un barattolo di proteine, i Joy Division...Love will tear us apart. Mi tengo forte, fortissimo, mentre da più parti cercano di sballottarmi, di sbattermi contro i muri, di portarmi in mondi meravigliosi e melensi. Falsi, naturalmente. Ho già smesso di credere che si tratti di ingiustizie, non c'è bisogno che me lo si ricordi; alla fine ho trovato la giusta collocazione per le Nike che fanno rumore quando cammino. Ok, andiamo avanti; ci sarà sempre da qualche parte un minimo di ristoro, e io lo so, visto che di ristoro ce n'è tanto da queste parti. Nella vita è sempre questione di potenzialità espresse. Io le mie cerco di esprimerle, anche se ho perso un po' di tempo. Tant'è, ho dalla mia sempre una giovinezza infinita. Poveretto! Aspetto che arrivi qualcuno, un mio fratello a caso, una mia sorella sperduta tra i libri, un nuovo orizzonte. Intanto cresce la mia creatura, la guardo, la scruto, la immagino, la dimentico e mi ci sforzo appresso. “Potrei ma non voglio fidarmi di te...sono una nuvola...e non c'è niente che mi sposti o vento che mi sposterà”. Mi chiedo intimamente, anche se so che non si fa, quando finirà. Perchè odio le montagne russe, e i cinema 3d; odio le incongruenze, anche se amo la parola “incongruenze”. Adesso si può solo battere il tempo col piede destro, continuare con i giusti propositi, dare un'occhiata sporadica al conto in banca, spostare con gli occhi i primi giorni della settimana e anelare senza ritegno gli ultimi. Mi chiedo perchè, non si fa, lo so benissimo, ma, cazzo, lo sto facendo intimamente, se non ci sia qualcosa nell'aria europea, se non ci siano miscele maledette che cambiano umori, sapori, collocazioni geografiche addirittura. A proposito, come si traduce un proverbio? Meglio tornare lì, ai tempi in cui era tutto plastico e artificiale, ma almeno aveva parvenza di sogno. Ricordate? Nelle lande e negli altipiani, con un piccolo battito cardiaco, di quelli piacevoli, tra i cespugli odorosi, senza funi che ti tengono qui. Così puoi rimanerci di tua sponte. Sono solo un ragazzo, e non mi sembra che sia il più grave dei mali; la ricerca dovrà essere più accurata, ma caspita che soddisfazione quando finirà. Se finirà. Miracoli in casa ne sono già avvenuti tanti, e non si può calcare la mano. Adesso è solo olio di gomito, esercizi per i tricipiti, sciogliere i muscoli, farli respirare. Sono Fabio Pantuso, una tabula rasa piena di tutto, un piano inclinato che può portarti alla perdizione o alla salvezza suprema; devi essere tu, devi trovare la chiave. Forse è meglio prepararsi, stasera, bando alle ciance, si va all'ennesima festa a casa di Matilda. Tutto il resto è lavorio sterile. Mi chiedo intimamente, anche se so che non si fa, se vendono un manuale da consultare. Un manuale che potrete consultare per capire il sottoscritto. Benvenuti nelle montagne russe.

venerdì 30 marzo 2012

Un Fiore o Una Stella

Sui blocchi di partenza. Come un bimbo che emette il suo primo vagito. Rimani così, resta ferma nei tuoi intendimenti impanàti nella teoria; non trasformarti, no ti prego, non farlo. Sulla linea di partenza, da soli, nessun concorrente alla vista; ci si gira e ci si guarda intorno. Niente. Primo passo, poi secondo, e quindi terzo. Tersa l'aria che ci circonda, è fatta di sbalzi di temperatura, di “allacciate le cinture di sicurezza”, di “vuole un caffè?”. Nessuno sa dove tutto questo ci porterà, tanto meno io e te. Te ed io, un mucchio di posti bellissimi in mezzo, un mucchio di posti normali, un sequela sconfinata di posti senza senso. Andiamo, e dove? Non ho risposte per questa domanda, tutto ciò che io sono è qui, dentro i miei propositi, dentro le tue teorie, dentro la pratica bramata come un osso da un cane. Resta così, il resto è aria, vitale, ma aria. Strana sensazione di abbandono, di tristi presagi, di malinconia che magari può giovare, ma la posizione che ricopro è quella di chi mette da parte tutto, e gambe in spalla parte per questo viaggio. Sui blocchi di partenza, un'altra volta, direte voi, un altro step verso la dipartita. No, rispondiamo insieme, stavolta è diverso, è perenne. Anche se non ne siamo certi. Ma ci crediamo, ed è per questo che giochiamo la partita. Diremmo basta con la preparazione, basta con lo studio dell'avversario, basta con questa menomante teoria, adesso vogliamo andare in campo, sentire il boato del pubblico sugli spalti, sentire le urla di gioia, gli incitamenti, e truccarci un po' prima di farci vedere. Il basso e la chitarra, dovremmo trovare un posto anche per loro; “sei quello che si sogna, si aspetta, si maledice perchè non arriva”. Funziona così: il mio cervello si produce in un vorticoso andirivieni, come quello dell'ago del rilevatore sismico quando c'è una scossa, poi si ferma e manda tutto a puttane. Perchè sei arrivata, senza tempo e senza carni, ma con dei libri sottobraccio, con gli enzimi e con la scollatura al punto giusto. I blocchi di partenza adesso stanno un po' stretti, le mie parole diventano arie, i miei passi diventano ali, l'ordinario diventa sterco. Sono Lui, più che Fabio, un mucchio di buoni propositi fatti non per lenire mali, ma per vivere. Con te, adesso. Forse verrà il momento in cui ci si ridesterà dai blocchi, forse verranno i due colpi di starter che ci diranno che la partenza è falsa. Forse. Ma non v'è certezza di tutto ciò. È il meno ermetico dei miei post, è il più nudo, è il più palese. Non mi affanno alla ricerca di sinonimi e contrari, non mi butto a capofitto sul dizionario; la tua fortuna è che so di cosa parlo, la mia fortuna è che lo stai scoprendo adesso. Vorrei andare con Darwin nelle Galapagos, trovare una nuova specie di fiore, e darle il tuo nome; vorrei comprare un telescopio, scoprire una stella, e darle il tuo nome. Vorrei solo abbandonarmi al più magico dei sonni, bruciare un paio di libri stupidi, tendere le mani e farmi trasportare dalle note dei Cure. Vorrei essere solo pur avendo te alle spalle, davanti, al fianco. Vorrei non dover cucinare. Vorrei puntarti il dito contro. Sui blocchi adesso, ci sono, e ci sei. Fumo un'altra sigaretta, spero che i nostri corpi siano di nostro gradimento, spero che i nostri odori siano fatti alla bisogna, spero che i mondi antichi non ci scoppino tra le mani. Non togliermi la concentrazione, resta così, resta ferma nei tuoi intendimenti; non disumanizzarre te stessa. Io sono Lui, ovvero Fabio, i documenti da uomo, le fattezze da bimbo, i pensieri delicati. Un paio d'ore, nulla più, per attraversare un mucchio di posti bellissimi, per guadare un mucchio di posti normali, per valicare la sequela sconfinata di posti senza senso. Un giorno andremo anche a Firenze, e anche quello sarà uno di “quei” momenti. Facciamo che mi maledici solo un po', visto che sono Lui; ma portami qualcosa da leggere, portami qualcosa da attaccare al muro.

domenica 25 marzo 2012

Tema Ricorrente

Tutto è giusto quando ci si ritrova in un parco accogliente. I panini e le bibite, la pasta fredda, le bevande impossibili; i plaid di fortuna, le braccia scoperte, gli occhi buttati su quei ragazzi lì, che palleggiano mentre tu vorresti raggiungerli. E poi ancora le ragazze bellissime coi cani al guinzaglio, le ragazze bellissime a coppie che parlano lontano, sdraiate, a pancia in giù; che parlano di sesso spinto, o almeno le si immagina così. Gli occhiali da sole, le sigarette buttate da qualche parte, vicino alle scodelle di plastica. C'è sempre chi si da da fare a non far nulla, e c'è sempre chi distribuisce vivande e attenzioni. Le scarpe comode, i tatuaggi in bella mostra, il verde che ci ricorda che è un giorno in cui non si deve andare a lavoro, il legno delle sporadiche staccionate, i bambini che corrono, e quelli che cadono rovinosamente per le terre. Triangolazioni di conversazioni che nascono e non muoiono mai, o finiscono in un dimenticatoio eterno. Che importa? Tutto è giusto al pic-nic, dentro un parco accogliente, e il tempo si dilata e si dilegua; Sua Maestà il Tempo molla le briglie e ci lascia liberi di scorrazzare sui prati, di dire cazzate, di immortalare immagini e tenerle dentro le nostre fotocamere, dentro i nostri telefoni di ultima generazione, dentro le nostre menti che stanno già facendo il lavoro di cernita dei momenti belli, e di quelli da catalogare come scomodi. Giusto, tutto lo è; anche se poi finisce, anche se la goliardia deve cedere il passo ai doveri, agli obblighi, alle incombenze. Ma non dobbiamo mica pensarci adesso, per intanto tutto è giusto al parco, durante il pic-nic, tra le margherite piccole piccole. Ne prenderesti un mucchietto e le offriresti alle ragazze se non fosse che non tutte meritano il gesto. E allora via di passeggio tra gli sparuti gruppi venuti al parco, ad osservare papà e mamma con in mezzo il bimbo piccolo, ad osservare papà e mamma che tengono il passo breve delle leve piccole del bimbo; ad osservare calzoncini arrotolati, ancora occhiali da sole, ancora palloni e frisbies. Fino a quando il mio sguardo torna dalle parti del nostro gruppetto, lo rimette a fuoco da lontano, gambe in spalla e si fa ritorno lì. Non è un party, non è un convivio, non si tratta sicuramente di baccanali. È il parco, che ci accoglie e ci nutre di noi stessi. Delle nostre prerogative, dei nostri infiniti difetti, dei nostri sporadici affetti. Manca qualcuno, manca tanto, manchi tu. Ma non si può volere tutto. Chè il tutto non esiste, e ha prerogativa di non saziare. Ci si stanca, ci si saluta, le strade si dividono; il verde parco londinese ci accompagna dolce all'uscita, e ci ricorda che sta sempre lì, qualora volessimo rivivere il momento. Adesso treno, di ritorno verso Casa. I piedi doloranti per il troppo camminare, le gesta dell'Ammiraglio Nelson, la batteria dell'I-Phone che lentamente muore, la fame da McDonald, i buoni propositi. Torneremo, o forse no, in un parco giusto, tutto giusto. Torneremo, o forse no, tanto non importa. Importa averlo fatto, importa averlo ricordato. “Il solito, per favore!”

venerdì 16 marzo 2012

Un'Arancia ad Orologeria

Sballato, sballottato, imbarbarito, barba incolta. C'è da svegliarsi, fare colazione, una di quelle colazioni robuste, che danno la carica, che fanno passare lo sfiacco, che entrano subito in circolo, e poi, gambe in spalla, via verso la città. Non importa quale. Viso mimetizzato a dovere, oppure no, viso mimetizzato che fa trapelare le fattezze, non stiamo a guardare il capello. Mazza, sciabola, randello, bastone, clava o verga. Tutto fa consistenza. Contare fino a tre, e quando si dice “due” cominciare a spaccare tutto. Tutto ciò che merita di essere spaccato. Randellate ben assestate contro l'ipocrisia, la malvagità, la supponenza, l'ingordigia di chi dovrebbe sapere che non c'è niente da raccogliere sul ciglio della strada. Spaccare tutto; muri costruiti per dividere colpevolmente, porte troppo pesanti per essere aperte con agio, oppressioni senza fine. Demolire le perverse aspirazioni di chi dovrebbe stare a casa, a guardare la tele, e che invece, nessuno sa spiegarsi il perchè, si è trovato un ruolo all'interno del pianeta; annientare senza ritegno coloro che fuggono dimostrando, adesso sì, di avere un po' di sale in zucca. Sfasciare quelle teste che non fanno altro che mostrare di essere troppo pigre. Dar pane ai denti di chi vive nell'insinuazione, nella provocazione, nel disturbo. Siete stanchi di questa società, ma non avete neanche una piccola schifosa idea di alternativa? Bene, spalle al muro, e pallonate medicinali sui reni, sulle costole, sui vostri crani insulsi. Sangue, tanto sangue che pare finto per le strade della città; bastoni raccolti chissà dove, e via a falcidiare di giustezza, a demolire tutto il “senza senso” che c'è. Ancora state lì a crogiolarvi nel vostro umile ruolo spacciandolo per unico? Spigolate di vecchi ma poderosi mobili settecenteschi sui vostri denti finti, sulle vostre bocche che vanno aperte solo per accogliere il legno appuntito. State ancora lì a far finta di niente? Non avete ancora capito che questa guerra l'avete dichiarata voi e che noi ce ne siamo accorti? Bene, l'effetto sorpresa vi distruggerà. Sballato da cotanta amarezza, sballottato da siffatta inutilità, imbarbarito e barba incolta, non c'è neanche da guardarsi allo specchio, non c'è da chiedersi se si è vestiti alla bisogna. Via verso la città che lentamente si desertifica, loro stanno fuggendo. Il ruolo di chi, con un colpo di mano, passa da preda a cacciatore, da vittima a feroce inquisitore, calza a pennello, moltiplica per mille le facoltà. Le capacità di sbaragliare. Sterminare senza pietà, questi sono esseri che si moltiplicano, anche questa è una cosa già detta. E allora via, con gioia, con senso di protezione per la casa, a schiacciare teste che giacciono per le terre, boccheggianti. Via, dopo una robusta colazione, a non curarsi delle richieste di perdono di chi sta lì, inerme, chiuso in un angolo, disarmato. Se ce l'avesse lui un'arma, non avrebbe pietà. Ripagarlo con la stessa moneta. Guerra preventiva. Fuoco e fiamme, ruggine e lacrimogeni, faccia avvolta da una bandana. Ma la causa è giusta. Lo è oggettivamente. Devastare senza remore, senza freni inibitori, tutti questi soldati del male che stanno remando verso l'abisso. Salvare con VIOLENZA le strade, i giardini, i futuri, la conoscenza, i disegni dei bambini. Imporre a colpi di annientamento la legge sopraffina scorta solo da dita sottili e aggraziate. Loro no! E quando tutto sarà finito, scriverlo da qualche parte. La storia non va mai dimenticata.

venerdì 9 marzo 2012

Rappresaglia

Taglia la corda, te lo dico così, perché oggi è il giorno in cui penso che sia più giusto farlo. Non è una fuga, non è un atto codardo, è tagliare la corda, in modo tale da respirare un po'. Taglia la corda, per dormire meglio, per mangiare sano, per non chiuderti dentro stanze in bianco e nero, dentro recipienti stagni, dentro mondi favolosi ma non permissivi. Metti il gel ai capelli, e se non hai capelli in testa, metti un berretto cool. Ma taglia questo cordone teso e tagliente, oppure questa cima zigzagante, questa fune intermittente che ti fa fare il doppio della fatica. Taglia, con forbici o cesoia, con un'ascia, con i denti se è necessario. Il viaggio è troppo lungo, il futuro, quel plastico futuro fatto di eteree e paradossali frivolezze, in realtà è troppo buio; qui, da qualche parte, in un angolo nascosto non remoto, c'è il vero punto di partenza, qui è la Salvezza. Qui è la Resurrezione, l'Eldorado. Anima Mundi. Eppure tu continui a vedere tutto ciò lì, mentre con una corda ti strozzi, ti ferisci le caviglie, sanguini dai polsi. Te lo dicono tutti, e te lo dico pure io: taglia. Un coltello appena arrotato, una pietra di fortuna raccattata chissà dove, i denti. I tuoi denti. Taglia la corda, gesto netto, doloroso ma rinvigorente; poi indossa un paio di scarpe comodissime, e corri, corri e fermati per riposare, ma continua a camminare. E poi corri ancora. Avrai tagliato la corda. Ma adesso non badare al futuro anteriore, devi prima fare ciò che ti sto dicendo. Niente congetture, niente teoria imposta alla pratica, niente stanze in bianco e nero, nessun recipiente stagno, devi dire un secco no ai mondi favolosi che non riescono a permetterti di viverli. Taglia, prima che lo faccia qualcun altro; taglia con la forza animale, con una scure, a colpi di randello, anche se ci metti più tempo. Da qualche parte si accorgeranno che lo stai facendo e la storia potrebbe cambiare. Recidi di netto, elimina il collegamento, fendi, come stessi usando un machete, come stessi dentro una foresta impervia, e fatti strada nel futuro. Il tuo. Elimina tutte le scorie di questo maledetto canapo, trancia i ferrosi elementi di questa trama sanguinante. Sanguinante di te. Taglia la corda, te ne prego. E corri via, verso qualcosa di meritevole, o verso un'altra corda da tagliare. Ma tu corri, come se ti stessi lanciando in un inseguimento senza fine; e se sarai stanco, potrai fermarti continuando a camminare. Non abbasserai lo sguardo, prolungherai la tua vista verso l'orizzonte, perché è lì che ti starai recando. Ma non andiamo fuori tema. Adesso, e non prima; adesso, e non mai, taglia la corda, non badare al resto. Non dare retta ai petali profumati, alle proibizioni, alle mosche bianche, agli attriti veri, e a quelli che si sono annidati nella tua testa. Non dare contezza delle tue aspirazioni, non ne vale la pena, credimi. E non fossilizzarti su ciò che di meraviglioso stai scorgendo. Taglia la corda, falla a pezzettini, ma solo se ti resta tempo; ammicca beffardo con la testa altrove, approfitta ingordo del pallido raggio di sole, e cavalcalo adesso, finché puoi, tagliando la corda. I mondi in bianco e nero, per definizione, non esistono; i recipienti stagni, a lungo andare, diventano tediosi; i mondi favolosi, credimi, li hanno inventati apposta per mettere una corda tra te e il resto. E allora guida la carica con gesto eroico, e sguaina la sciabola; oppure, di soppiatto, furtivo e caustico, con una limetta nascosta tra le dita, fai quel che devi. Non pensarci a lungo, non riflettere all'infinito, fallo e basta. E poi piangi di brutto, perché sappiamo entrambi che ciò che avrai perso è tanto malvagio, quanto immensamente meraviglioso.

venerdì 2 marzo 2012

L'Allineamento dei Pianeti

Stiamo seduti e aspettiamo; a volte ci si ridesta, ci si incazza di sangue e di pugni alla parete, di pianti e di risate. Ma sempre di attesa si tratta, visto e considerato che il nostro prodotto interno lordo non si può neanche minimamente paragonare al loro. Quindi dividiamo il mese in decadi, osserviamo finestre da finestre, telefoni da telefoni, stati d'animo da stati d'animo, e attendiamo. Aspettiamo. Vorremmo che ce ne fosse concessa l'occasione solo per poche ore, o per tutta la vita; pochi istanti, con contorno di sorrisi e di conversazioni quadrangolari, di segreti e di misteri svelati in un batter d'occhio; o per tutta l'esistenza, facendo il gesto dell'ombrello al mondo intero, ad una parte di mondo. Stiamo seduti sul letto, o sulla sedia, guardandoci negli occhi, o guardando il computer davanti a noi, o guardando un film con la testa altrove; e aspettiamo, attendiamo che la natura si sforzi e si produca in un piccolo ma consistente miracolo. Non sappiamo immaginare se sarà tutto buio o emetterà una luce fortissima, non abbiamo la minima idea di come potrebbe svelarsi questo fenomeno strano e anelato, e allora non ci resta che attendere, sapendo benissimo che l'evenienza ha prerogativa di essere molto improbabile. Ma tanto cosa costa? Stiamo sempre e comunque seduti, non c'è molto altro da fare, stiamo seduti e osserviamo le Stelle; esse sono impervie, forse invivibili per i più, ma noi sappiamo di essere attrezzati. Seduti, immaginiamo il momento (oh mio Dio, sarà solo uno?), e allora ci si apre un sorriso dentro, e un altro viene fuori dalle nostre bocche, tra i nostri denti, dai nostri occhi. I nostri occhi in attesa, le carni che ribollono quando sentiamo che il fenomeno è lontano dall'arrivare, quando sentiamo il bip del messaggio ricevuto; i nostri cervelli che girano a vuoto, che calcolano matematicamente le possibilità, le nostre mani che cercano, invano. A volte! Attendiamo il fenomeno più grande, più solidale, più coraggioso che la natura possa offrirci e non ne abbiamo paura. Abbiamo paura solo che non avvenga. Un tavolo da biliardo, un birra, un bevanda fredda e due calde; uno sguardo di qua e uno di là, un sorriso complice. Ecco, nient'altro! Sembra tutto facile, ma ci vogliono calcoli tolemaici complicati il giusto, possiamo stare lì a osservare il firmamento bramato. Stando seduti o in piedi, possiamo stare lì ad osservare il cielo, lo spazio, la volta celeste, le stelle, ma non dipende da noi. I miracoli della natura vanno attesi, stando seduti o meno, e quando accadono, se accadono, possiamo soltanto sussurrarlo ad un orecchio.