venerdì 23 aprile 2010

La partita più bella della storia

Quando avevo 15 anni ero un po' critico nei confronti di mio padre. Lui non mi faceva mancare niente, avevamo una villa grande, spaziosa, piena di comforts; io vivevo in una stanza che era grande quanto la casa di alcuni miei compagni di classe, e mia sorella, nella sua, ci faceva dei pomeriggi con le amiche che sembravano dei parties esclusivi. "Vuoi la moto?" mi chiedeva il genitore con l'aria premurosa, e la moto ottenevo, così come la gran parte degli aggeggi che si anelano a quell'età. Il fatto, però, era che mio padre, per mantenere la sua famiglia, e quindi anche me, faceva un lavoro poco...come dire, etico. Vendeva armi. Le vendeva a tutti, non faceva distinzioni; e io, che come tutti i quindicenni pensavo di poter cambiare il Mondo col mio solo ardore , protestavo. Gli dicevo:"come puoi, papà, dormire la notte, sapendo di vendere degli strumenti di morte?". Lui, serafico, con in mano l'occorrente per il barbecue, mi diceva con fare calmo:"Cresci un altro po', figlio mio. Vedrai che la vita ti farà capire che ci sono zone grigie dentro le quali passiamo quasi tutto il nostro tempo e dentro le quali operiamo. E allora capirai che per la nostra sopravvivenza, e per quella dei nostri cari, il più delle volte dobbiamo mettere da parte quella che gli altri definiscono Coscienza". Io, di solito, a quelle parole rispondevo a tono, ma visto che lui, al mio torpiloquio, rispondeva con l'ennesimo sorriso, e poi, rivolto a mia madre urlava con garbo:"Cara, dov'è la carbonella???", preferivo tornare in giardino a dare due calci al pallone.
Già, il pallone, il calcio, la mia esistenza già da molto tempo prima che prendessi cognizione del lavoro di mio padre. Ero bravo, anzi bravissimo, e fu così che il calcio divenne la mia vita. Approdai tra i professionisti all'età di 18 anni, e già a 22 ero titolare nello Sporting, la prima squadra della città di mia moglie. Ho giocato anche in Nazionale, ho fatto i Campionati Europei, ed è stato fantastico vestire la maglia azzurra...
Domenica scorsa, non ancora ventinovenne, ho deciso di lasciare il mondo del calcio; e l'ho deciso nonostante abbia ancora due anni di contratto, e per questo il mio procuratore mi ha già citato in giudizio, e nonostante l'interessamento del Real Madrid. Ho preferito me stesso.
Era l'ultima di campionato, il mio Sporting contro il Firenze. A noi mancava un punto per la certezza matematica della permanenza in serie A, a loro mancava un punto per la sicurezza di disputare, la prossima stagione, l'importantissima Champion's League. Il mercoledi precedente, dopo uno sfiancante doppio allenamento, il nostro capitano, Gianluigi Amodio, classe 1979, venne convocato in sede dal Presidentissimo Dottor Giacomo Maglie. Noi componenti la squadra fummo invitati dallo staff a rimanere al centro sportivo in quanto, alla fine del colloquio, lo stesso capitano ci avrebbe dato contezza di alcune disposizioni "presidenziali". Al suo ritorno, Giangi, lo chiamiamo tutti così, non sembrò nè esterrefatto, nè in alcun modo sorpreso. Tutto nella norma, sembrò dirci con lo sguardo. E infatti, le parole che profferì alla squadra furono proprio queste:"Ragazzi, il Presidente ha parlato con il loro Direttore Generale. Un punto noi, un punto loro, e siamo tutti felici". "Ottimo" disse subito Cesare Raffa, il nostro centrocampista più in forma, arrivato a gennaio. Io pensai subito di obiettare che con i tre punti avremmo superato il record storico ottenuto dalla nostra squadra in 77 anni di storia in serie A, ma, forse perchè dopo due sedute di allenamento si è tutti molto stanchi e desiderosi di riposo, o forse perchè la notizia era nell'aria, tutti i gicatori cercarono lo sguardo del Mister chiedendo malcelatamente di andare a casa.
Il sabato precedente la partita, nella lobby dell'hotel in cui solitamente facciamo il ritiro pre-gara, molti dei titolari parlarono senza ritegno di come, dopo scambi di sms con i nostri avversari, si sarebbero dovute svolgere le cose. "Passano in vantaggio loro con Alemao Lima che deve vincere la classifica dei cannonieri, poi mettiamo a ferro e fuoco la porta avversaria con tiri da lontano, così Benedetti fa tre-quattro parate e il CT lo porta al Mondiale. A cinque minuti dalla fine loro sbaglieranno un fuorigioco, noi pareggiamo e lo stadio viene giù. Tutti contenti e arrivederci all'anno prossimo". "Perchè non fai goal tu?" mi chiese l'allenatore, "a Madrid sarebbero contenti, visto che ormai ci saluti e vai laggiù, a vestire la maglia Blanca". "Chissà" risposi, e tornai in camera, dove Gianluca Lo Piccolo, il nostro infaticabile fluidificante stava leggendo D. H. Lawrence.
La domenica a pranzo mangiai cinque tortellini, e spiluccai tre fogliette di lattuga romana. Declinai l'invito ad assaggiare la crostata del nostro cuoco Michele, crostata della quale sono sempre stato ghiotto, e tornai a chiudermi in camera in attesa della chiamata per salire sul pullman. Quando arrivammo allo stadio, con una scusa, evitai di fare il solito giro di campo in abiti borghesi. Avevo l'idea di evitare qualsiasi sguardo. Il mio atteggiamento fu così misterioso che ad un certo punto pensai che l'allenatore, temendo una mia insubordinazione, potesse scegliere di non farmi giocare. Ma già sul pullman Mister Ranovic, il Serbo di Ferro, aveva comunicato l'undici che sarebbe sceso in campo, e io ero nella lista. Quando l'arbitro venne nel nostro spogliatoio, alla fine del riconoscimento che si fa pro-forma prima di ogni incontro, ci fece un discorso sull'osservanza delle regole non scritte di lealtà sportiva. Ranovic lo interruppe dicendogli che la sua squadra non aveva bisogno di certi suggerimenti, e lo fulminò con lo sguardo. Poi guardò me, e i suoi occhi sorrisero. La squadra si mosse, ed uscendo dallo spogliatoio, Mirco Matrignani, il nostro Bomber, incitò ognuno di noi con urla, sproni, sollecitazioni. Mi allungò anche la mano in attesa di un "batti cinque", ma io feci finta di non vederlo...

Schierati sul cerchio del tappeto verde, da bambino daresti il braccio di qualcuno che conosci per poter fare sfoggio della tua persona al centro di un campo di serie A. Fischio dell'arbitro, saluto al pubblico. E' maggio, fa caldo. Stretta di mano ad ognuno degli avversari che, in qualità di ospiti, ti devono sfilare davanti con la mano tesa. Non incroci gli occhi di nessuno. Foto di rito. Allunghi lo sguardo solo verso la tribuna dove speri che non ti stiano guardando tua moglie e tuo figlio Roberto, cinque anni, maglia del papà, sorriso fiero... Oh merda!

La partita cominciò e per dieci minuti solo il canto della curva e il sordo "pum" delle scarpette sul pallone di noi giocatori spezzarono il silenzio di quel primo pomeriggio di maggio inoltrato. Poi Alemao Lima prese il pallone sul vertice dell'area di rigore, lo passò ad Abelardo Vasquez, lo spagnolo venuto in Italia a finire la carriera, e si propose per il passaggio di ritorno. Zinho, il nostro difensore brasiliano, restò indeciso se intervenire anticipando il connazionale che stava involandosi verso la porta, o buttarsi sullo spagnolo per evitare che il suo pallone raggiungesse l'obiettivo. L'indecisione, calcolata, fu fatale. Alemao Lima colpì malissimo la sfera dopo il passaggio che chiuse il triangolo; Cristiano De Paola, il nostro portierone, restò in piedi, mentre il pallone, piano piano, ballonzolante, superava la linea di porta e finiva la sua flebile corsa tra le maglie della rete. Tutto previsto, il Firenze in vantaggio, adesso toccava a noi. L'esultanza dell'attaccante brasliano fu però assai particolare. Dietro la porta di De Paola c'era la "nostra" curva, eppure Alemao fece pugnetto proprio verso quella parte di stadio, dimostrando una mancanza di tatto senza precedenti; poi, voltandosi, schiaffeggiò l'aria di rovescio, come a voler mandare i "terribili diecimila" a quel paese, quindi fece capolino con lo sguardo sul sottoscritto, i suoi occhi produssero un sorriso befardo, di superiorità; quindi, col suo accento brasileiro, passandomi accanto, disse:"Sfigaji!".
Io ero mortificato e affranto, provavo un'intima disapprovazione,mentre quasi tutti i miei compagni di squadra facevano finta, eppure non dissi niente. Raggiunsi il centro del campo come si fa dalla notte dei tempi del calcio quando si subisce un goal. Anche il pubblico, però, mi sembrò aver preso coscienza che c'era qualcosa di strano in quella situazione. Ci mancava un punto per salvarci, stavamo perdendo l'ultima di campionato, eppure non si rumoreggiò, non si fischiò, non si incitò la squadra. C'era solo silenzio. E dire che il gesto del brasialiano era stato palese, visibile a tutti con chiarezza. Questa situazione mi mise dentro un'angoscia che fece presto a trasformarsi in rabbia. Ma fu una rabbia, almeno in quel momento, silenziosa, morale, solo e soltanto mia.
Sei minuti più tardi, Lo Piccolo fece fuori in dribbing due avversari, e dalla tre-quarti fece partire un cross teso e fendente. Teso e fendente se non fosse stato per la deviazione di Latorre, mio concittadino, ormai bandiera del Firenze. Latorre e io siamo praticamente cresciuti insieme, frequentavamo lo stesso oratorio salesiano; ma lui andava all'Istituto Tecnico Industriale, io invece al Liceo Classico. Suo padre era un conducente di autobus di linea. Quando gli emissari del Torino chiesero ai genitori di Latorre di poterlo portare in Piemonte, avevamo entrambi 13 anni. Io non dormii per tre settimane, tanto fui colto da un'invidia lancinante. Naturalmente, nonostante i pianti della Signora Latorre che mai avrebbe voluto disfarsi del figlioletto ad una così tenera età, la decisione fu positiva, e il piccolo si trasferì subito nella città della Mole. In seguito Latorre passò al Firenze come merce di scambio nel clamoroso affare che portò a Torino l'attaccante rumeno Gaev. Oggi Gaev non gioca più a calcio e in pochi lo ricordano, Latorre, mediano infaticabile, fascia di capitano bianca su maglia viola, è la storia del Firenze. Potenza di uno sport talmente somigliante alla vita da apparire, a volte, quasi innaturale. Il cross di Lo Piccolo, deviato da Latorre, fece prendere al pallone una traiettoria a campanile, come dicono i giornalisti vecchio stampo. Il Sole mi accecò per un attimo, stavo seguendo con gli occhi la sfera che a piombo veniva dall'alto verso di me; non uno dei miei avversari fece il gesto di venire a contrastarmi, d'altra parte eravamo ad un trentina di metri da Benedetti. Certi ragionamenti vengono fatti in una frazione di secondo, e in molti li confondono con la genialità. Penso di aver chiuso gli occhi in quel momento, e mi affidai completamente all'istinto. Colpii la palla col collo del piede e la accompagnai con una tale potenza da sentire il cuoio della sfera anche sul malleolo esterno. Benedetti vide partire il tiro, ebbe anche il tempo di sistemarsi la visiera del cappellino, addirittura di fare due passi verso la sua sinistra... Il pallone picchiò durissimo sul palo, nell'ultima parte prima che lo stesso incontra la traversa, con una velocità indicibile andò a sbattere sull'altro palo, e infine si insaccò al centro della porta. Uno a uno. Il mio settimo goal in campionato fu accolto da un silenzio che non credo sarò mai in grado di descrivere. Io corsi come un matto verso i diecimila della curva, e solo in quel momento i miei compagni cercarono di raggiungermi per festeggiarmi. Non l'ho mai fatto, ma in quell'occasione mi permisi un vezzo che ho sempre ritenuto stupido: mi tolsi la maglia e la sventolai in onore dei miei tifosi. Naturalmente l'arbitro, per tutta risposta mi mostrò il cartellino giallo. Ero in diffida, all'inizio dell'anno successivo sarei stato squalificato, ma pensai che la cosa mi importava pochino. Mentre riindossavo la maglia guardai Alemao Lima; stavolta i suoi occhi esprimevano preghiera, compassione, mi chiedevano di non fare altri scherzi. Grazie a Dio arrivai anche a capire l'ulteriore beffa che si stava perpetrando ai danni dello sport, dei tifosi. L'Under, cioè la somma dei goal sotto i tre in tutta la gara, era quotato da quasi tutte le agenzie di scommesse a due e venti. Evidentemente le due squadre avevano anche scommesso, attraverso vie truffaldine, sull'andamento dell'incontro.
Un minuto dopo, rubai palla, feci finta di passare a Matrignani, sfruttai un'indecisione difensiva avversaria, ed entrai nell'area di rigore. Tirai con tutta la mia forza, ma Benedetti respinse il pallone con i piedi. Il pubblico applaudì, i miei compagni, furbi, si rammaricarono per l'occasione persa; Benedetti mi fulminò con lo sguardo. Io contraccambiai. Era cominciata un'altra partita. Quella tra me e coloro che stavano sporcando il mio sport preferito.
Ma da quel momento per tutto il primo tempo, nessuno dei miei compagni mi passò un pallone, e di avversari pronti a marcarmi ce ne furono almeno due. Poco prima della fine della prima parte, Fiorenzo Tacchini, la nostra seconda punta, mise male il piede. Sentii "crac" da venti metri di distanza, poi le urla di dolore del povero Fiorenzo. I nostri medici entrarono in campo di corsa, e il Dottor Berni, non arrivò neanche dalle parti di Fiorenzo, che già faceva segno a Ranovic con l'indice destro che girava attorno al sinistro che bisognava cambiarlo. Rottura del tendine d'achille. Fiorenzo fuori in barella, applausi del pubblico, e Cox in campo. David Cox doveva farci fare il salto di qualità quando fu acquistato, ma non si è mai ambientato; e poi quando conobbe quella ragazza, e successivamente fu scoperto dalla moglie che tornò in Inghilterra con i due figli, la sua vita prese una bruttissima piega. Adesso poteva salvare per sommi capi la sua stagione, prima di fare ritorno a Sheffield con le pive nel sacco e senza una fondamentale convocazione per i mondiali di calcio. Cox era perfetto per quella partita. Non avrebbe segnato neanche a porta vuota. Troppo lento, troppo impacciato, troppo timido, troppo l'ombra di se stesso. Io non mi interessai di quella sostituzione; già da molto tempo prima che avvenisse sapevo che la mia partita, la partita che stavo giocando personalmente, era tutt'altra cosa rispetto a quella che gli altri stavano disputando sul campo. Nei minuti successivi ebbi altre due possibilità per fare goal. Un colpo di testa in tuffo, con annessa pedata in faccia di Latorre, fece la barba al palo; e a cinque minuti dalla fine del tempo, provai direttamente da calcio d'angolo. Benedetti dovette inarcarsi non poco per evitare di prendere una segnatura sotto l'incrocio dei pali. Ero convinto che non sarei rientrato dopo l'intervallo; Mister Ranovic mi aveva già intimato di indietreggiare di molto il mio raggio di azione. "Tieni d'occhio lo spagnolo!", aveva gridato più volte nei confronti del sottoscritto,"a segnare ci devono pensare gli altri". A tre minuti dall'intervallo, però accadde un altro fatto strano. Lo Piccolo ebbe uno scontro molto violento con Abelardo Vasquez, ma la sua onestà non lo fece rimanere a terra, si rialzò. Il pallone arrivò sui piedi di Valerio Corsi, il centrale di centrocampo del Firenze e della Nazionale, il quale verticalizzò subito per Alemao Lima. La nostra linea difensiva avanzò mettendo in fuorigioco il brasiliano, ma solo per tre quarti. Il povero Lo Piccolo stava appena rialzandosi e non fece in tempo ad avanzare con i suoi compagni di reparto; notai con certezza l'assistente dell'arbitro essere sul punto di alzare la bandierina per segnalare il fuorigioco, ma accorgersi della presenza sulla tre quarti campo del nostro fluidificante e cominciare a correre, facendo segno che tutto era regolare e che l'azione poteva continuare. Quasi sbalordito, Alemao si involò verso la nostra porta. Solo. Senza ostacoli, con davanti il nostro De Paola. Il portiere, uscì dall'area di rigore, andando incontro al giocatore avversario. Solo io mi accorsi che la punta brasiliana calciò fortissimo il pallone per superare in dribbling il portiere sì, ma con l'intento di fare sfilare la sfera a bordo campo. Il destino, domenica scorsa, volle però avere un ruolo importante nello svolgimento dei fatti. La palla, infatti, calciata con quella veemenza, andò a picchiare sulla mano sinistra di De Paola, che si era appena portato fuori dall'area di rigore. Raffa, l'unico nostro uomo che aveva seguito l'azione, arrivò sul pallone scagliandolo via. Ma l'arbitro si stava già portando sul punto dove era accaduto il tutto, e stava mettendo la mano dentro il taschino, e di lì a poco avrebbe estratto il cartellino rosso nei confronti di De Paola, reo di aver toccato con la mano il pallone al di fuori dell'area di rigore. Alemao Lima, dal canto suo, sembrò voler spiegare al direttore di gara che non c'era bisogno di espellere il nostro portiere. Fu un momento quasi comico. Io feci fatica a sopprimere un moto di ilarità. Ranovic era furibondo. Abbaiò a Otto Glattauer, il secondo portiere austriaco, che i maligni indicano tutt'oggi come l'amante della figlia del nostro Mister, di infilare i guanti e di entrare subito al posto di Matrignani. A cambio avvenuto, il pubblico rumoreggiò solo un po'. Usciva il nostro capocannoniere, è vero, ma era altrettanto vero che Ranovic non poteva fare uscire dal campo il povero Cox che era appena entrato. Naturalmente la punizione del Firenze non ebbe esiti degni di nota, se si eccettua il fatto che per pararsi da un tiro volutamente sparato lontano dai pali, un giovane raccattapalle si lussò un gomito ed ebbe bisogno dello spray anestetizzante.

Intervallo. Corsi mi chiese di scambiare la maglia, mentre tornavamo negli spogliatoi, io mentii, dicendo che l'avevo già promessa ad un suo compagno in panchina. Camminai lento verso il serpentone che mi avrebbe portato nella pancia dello stadio, davanti al camerino dell'arbitro, davanti all'ufficio federale, davanti al laboratorio dell'antidoping, davanti allo spogliatoio degli ospiti, e finalmente dentro il nostro...
Ranovic mi accolse con aria inviperita. "Che cazzo stai facendo?" urlò. "La partita è tranquilla e tu la stai innervosendo". Sapevo che quelle parole avrebbero introdotto una mia sostituzione, quindi ero pronto a ribattere dicendo finalmente ciò che pensavo di lui e di tutti coloro che stavano facendo l'azione più sporca nel mondo del calcio: combinare un risultato. Ma prima che dicessi qualcosa, Lo Piccolo, paonazzo e sofferente, disse all'allenatore:"Mister, io non ce la faccio a rientrare". Ranovic guardò il nostro terzino con un'aria imperscrutabile, poi ringhiò qualcosa al Dottor Berni, il quale non si curò minimamente di ciò che stava dicendo il Mister; anzi, indaffaratissimo, disse una serie di parole che riguardavano lo stato di salute di Lo Piccolo, e tra queste aggiunse "ambulanza". Significava che Gianluca doveva andare in ospedale subito per degli accertammenti; significava che Ranovic doveva sostituire Lo Piccolo. Significava che io rimanevo in campo perchè le tre sostituzioni a disposizione erano definitivamente esaurite. Mi dispiacque tantissimo per Gianluca, ma quella notizia mi entusiasmò. Guardai Ranovic, lo guardai e basta. Poi andai a fare una doccia, c'era troppo caldo, e avevo bisogno di far cadere su di me tanta acqua fredda per permettere alla mia circolazione sanguigna di ravvivarsi.
Al posto di Lo Piccolo entrò il diciottenne Mario Guerra. Fu l'ultimo ad uscire dallo spogliatoio prima di me; notai i suoi occhi lucidi, la sua forte emozione era palese anche per via della camminata impacciata. Non gli si poteva dar torto, visto che sarebbe stata la sua prima apparizione in serie A. Aveva già giocato in Coppa Italia, ma in quella partita, contro il Genzano, squadra di seconda divisione, i giovani della Primavera ad esordire erano stati sei. Adesso poteva finalmente giocare, farsi vedere in campo dalla mamma e dal papà, allo stadio con i biglietti che la società ha sempre regalato ai parenti dei giocatori che vengono convocati in prima squadra. In quel momento avrei voluto spiegare al piccolo Mario che il gioco del pallone sa, spesso, essere una grande delusione. Ma preferii evitare.
Rientrai in campo.

Tutti ti guardano, forse perchè sei l'ultimo a riguadagnare il terreno di gioco. Eppure in quei momenti ti chiedi se c'è la possibilità che l'intero stadio sappia della combine, che gli spalti siano popolati da persone che per l'amore di rivedere i propri beniamini nell'elite della serie A, ti stiano chiedendo di non fare altri scherzi. "dai, che ti cambia, falla finita, prendiamoci questo punto così come viene e torniamo a casa".

Quando Amodio calciò il primo pallone del secondo tempo, se è possibile, il silenzio fu ancora più surreale rispetto a quello dei primi minuti dell'incontro. Avevo bisogno di dare una scossa a tutto. Ma sapevo che non avrei avuto l'ausilio di nessuno. Quarto minuto, tiraccio senza pretese di Vasquez, palla tra le braccia di Glattauer. Sesto minuto, palla contesa a centrocampo che schizza dalle parti Zinho. Cross noioso. Palla che si perde sul fondo. A quel punto però, il pubblico cominciò a rumoreggiare. Il pareggio va bene per tutti, ma un po' di spettacolo sarebbe stato gradito dagli spalti...

E' domenica successiva. Sono sulla mia barca, sto pescando, e mentre pesco ripenso a quel goal. Due avversari davanti a me, finta e controfinta; pallone dato al giovane Guerra che con tocco morbido mi restituisce la sfera e mi mette davanti al portiere avversario... Palla in rete ancora prima che il resto del mondo possa accorgersi che ho toccato forte con il piatto del piede destro. Corsa sotto la curva, mi tolgo la maglia ancora una volta, la getto via, guadagno lo spogliatoio senza aspettare che l'arbitro mi esponga il secondo cartellino giallo.
E' domenica successiva, sto pescando sulla mia barca, a pochi metri dalla riva dello stagno; e do le spalle a mio padre che mi chiama per andare a pranzo. Ma io do le spalle alla riva e anche a lui, senza un lavoro, senza un futuro, ma con la consapevolezza che a ventinove anni ci si può riappropriare dell'ardore dell'adolescenza.

sabato 10 aprile 2010

Fogli...

Nell'Era dell'informazione automatica (abbiamo dimenticato che il termine informatica è la contrazione dei due termini "informazione" e "automatica"?), siamo ancora sommersi dalla carta.
Fogli, da tutte le parti, a tutte le ore, in tutte le salse, in tutti i modi, in tutti i laghi... Fogli da compilare, il contenuto dei quali poi verrà caricato su un pc, fogli-documenti rilasciati dagli uffici competenti, fogli dentro le scatole degli elettrodomestici, dei tv color, dei telefonini. Fogli inviati dalla banca:"ci deve 4,ooo euro please". Che poi, con la suddetta banca ti sdei messo d'accordo per ricevere tutto via e-mail, ma loro, per scrupolo, ti mandano a casa i fogli. Fogli dentro i quali c'è scritto se stai bene, se i tuoi esami clinici sono andati come dovevano; fogli per l'iscrizione, fogli dentro i libri (ma quelli li leggiamo volentieri e li perdoniamo e li teniamo cari), fogli dentro i giochi della Play Station. Fogli di calendario, che spreco!!! Ogni mese, li strappi e li butti via; fogli fatti a pezzi che diventano biglietti per lo stadio, per il cinema, per il teatro, per il concerto. Fogli per scrivere lettere d'Amore, fogli da decifrare, quelle sono le bollette; fogli di cartone che contengono sigarette, sigarette fatte con fogli, fogli dentro le agende che ti regalano a fine anno e tu ci scrivi solo il tuo nome e il tuo indirizzo e poi niente più. Fogli, grandi, grandissimi, immensi, che diventano cartelloni pubblicitari, fogli di giornale, che diventano il cesso dei nostri animali, fogli di carta colorata che avvolgono i nostri presenti ogni qual volta abbiamo l'incombenza o il piacere di fare felice qualcuno con un regalo; fogli di carta, di cartone, di cartone ondulato, di carta velina, increspata, di carta carbone perchè le cazzate si ripetono sempre. Fogli di carta glassine, rotoli di fogli di carta igienica per asciugarsi il culo, fogli di carta morbida per metterci dentro il naso, o per pulirsi dopo essere stati in quel posteggio lì... Fogli di carta da parati per decorare casa; fogli di carta gommata, monolucida, patinata, politenata, siliconata! Fogli di carta da forno, che non si brucia, incredibile. Fogli di carta lucida, carta chimica, carta termica. Fogli per fare assegni bancari, postali.
Fogli per fare banconote, quelle sì che mancano. Cazzo!