mercoledì 29 dicembre 2010

Il Mio Regalo per Te

“Negletta prole nascemmo al pianto/ e la ragione in grembo de' celesti si posa”. Giacomo Leopardi


Chissà dov'ero, quel giorno, mentre venivi al mondo. Chissà se, nei miei giochi di bambino, ho provato un fremito in quello stesso istante. Non lava nulla, perchè non c'è nulla da lavare, questo 30 dicembre, non si propone nessun atto, e non è una vendetta. E' il 30 dicembre, punto e stop. Esiliato, mentre fuori nevica, vedo partire questa freccia; farà un lungo viaggio e ti trafiggerà, oppure si fermerà ad un metro da te. Ti osserverà, latrice dei miei occhi impauriti, mentre starai davanti alle fiammelle accese, mentre tutti ti guarderanno, mentre tu continuerai a cercare te stessa. 30 dicembre, per nessuno importante; domani, sì, domani stapperemo le bottiglie. 3O dicembre, la terra di mezzo, uno stagno, un mare, un oceano. 30 dicembre, mai realmente vissuto (da me), posato lì, in magazzino. Ma profuma tanto, il 30 dicembre, profuma di fiori...luccica, come un regalo prezioso. 30 dicembre, menomato dalla più grande delle distanze, ma è lì. E nessuno lo tocca. Scorrono le lancette dell'orologio, e lui, il 30 dicembre, resta lì. Non se ne va. Ed è giusto così. Per gli altri è solo l'ennesima pizza, la torta, il regalo, le foto, la quiete, prima della tempesta dei botti di capodanno. E per me è, invece, il 30 dicembre...E proverà a ricordartelo, che bastavi alla tua persona e al mondo intero; e a me. “Ma tu cosa vuoi dalla vita?”- e una preghiera si impadronì di me. “Serenità” fu la risposta, e la preghiera, in quel momento fu ascoltata. Nostro Mondo. Errata corrige:”Noi siamo uguali, non siamo diversi, Tonight, tonigh!”(fatevene una ragione cari Smashing Pumpkins). Tu ed io, abbattute tutte le barriere, amabilmente malinconici, Regina e Re di tutti i nostri punti di vista e da tutte le nostre angolazioni, terminatori e definitivi, quella notte, o quel giorno, o quel pomeriggio (quant'è bello dimenticare le sembianze del tempo, quando abbiamo tutto lì, con noi- ma ricordo perfettamente che erano le tre del mattino e ci eravamo amati tanto) ascoltavamo quel cantante che cantava:”mi rendi migliore, mi fai sentire a casa”. E io premevo costantemente il tasto per far ricominciare la canzone; “un'ultima volta, poi ci salutiamo”- dissi, senza dire niente. Tu, io, le nostre bocche. Non si volevano lasciare. Che qualcos'altro minasse quel momento. Fatto di noi. Che forse sapevamo. Come sarebbe andata a finire. Enjambement... E poi eserciti medievali, international phonetic alphabet, “Ami”, le parole ricercate, “mangia!”, gli mms bevendo un'aranciata... “Mia moglie”, Alessandro Baricco, Candido (di Sciascia), i Pixies, i dolci comprati in quel bar, il bucato, la spia dell'acqua, i sorrisi forzati e quelli sinceri; “Mio marito”, Norwegian Wood, quei film che mai riguarderò, e la mia Fierezza; e un Futuro che mi si apriva davanti... 30 dicembre, come un sordo grido, nella notte di Birmingham, appeso, con un cappio intorno al collo. Ma che importa! La Morte non riuscirà mai a sopraffare il Sentimento, questa è la lezione. E importa che è il 30 dicembre, non c'è un prima, non c'è un dopo. Non ricordo più la tua faccia, succede. Prima di oggi, il 30 dicembre, e dopo, mi armo di scudo e giavellotto, di elmetto e scimitarra, e armatura contro me stesso; e quei fantasmi... A volte mi chiedo come tu abbia fatto. Ma basta con le domande, oggi è il 30 dicembre. “Io ho una memoria selettiva”. Che bello non riversare nulla di cattivo in questa pagina. Il 30 dicembre mi apparterrà per sempre. Unico punto di contatto. Il 30 dicembre è uno scrigno, e io lo apro. E ti vedo, piccola e spaesata; premurosa e goliardica, colta in modo volutamente “desultorio”, e quindi spartana altrettanto; nobile e popolana, lasciva, intraprendente, amara e generosa. Umana. Infinitamente Donna. Lacrime, tante e per tanti motivi. Perchè “amare è una cosa semplice”. Puoi ricordarlo a te stessa.. Lacrime, di quando non riuscivo a farti mia, e di quando non riuscivi a farmi tuo. Odio le montagne russe, e tu mi ci hai portato. Sei stata brava? Che importa! No, non può essere, non mi hai mentito per tutto questo tempo, il mio sarebbe stato un “rifiorire” di plastica. Non ricordo la tua faccia, ma gli occhi, gli occhi “completi”, sì. Il 30 dicembre, stanotte mi è venuto in sogno, e mi ha detto:”salvala, contienila”. E' difficile, ho risposto. Goccioline di acqua limpida tenute insieme maldestramente da dita sudicie insudicite... Il tuo cuore striminzito-come le tue minigonne- aveva ragione. I tuoi occhi imploranti c'avevano visto giusto. Le tue parole misurate rendevano benissimo ciò che potenzialmente siamo. E tutto questo oggi, il 30 dicembre. Quelle lunghe notti parlando al telefono. Ma quanto era nostra la notte! E la nostra clandestinità, che ci implorava di non abbandonarla. Sciagurati, non l'abbiamo ascoltata. E invece Tu ed io, Narciso e Boccadoro, ci siamo scambiati i ruoli, e nel nostro incedere ci siamo incrociati a metà strada, e ci siamo guardati negli occhi. Che momento. E non ammetto nessun ma, perchè questo è il 30 dicembre. Che non si cura del fatto che sei l'Angelo Caduto, come il Prediletto di Dio, perduto nell'abisso, che è un abisso mio e soltanto a me appartiene. Il 30 dicembre mi viene in soccorso, e insieme ti teniamo in alto. Il 30 dicembre continua a renderti concreta, vera; esisti. Perchè la bellezza non è solo tentatrice, no, non può essere solo così; la bellezza deve per forza rappresentare qualcosa di aureo:”Cosa vuoi mangiare stasera?”. C'eravamo quasi riusciti. Oggi è il 30 dicembre, e io ti ho capita. Ho capito il tuo strazio, le tue vergogne, le tue grida, e anche il tuo girovagare da un modo di vivere ad un altro; e la tua pigra ricerca della felicità, perchè a volte la tristezza e la malinconia ci rendono più vivi. Quanto siamo uguali!!!. Il tuo senso dell'amore- la tua parte migliore, mi dispiace che ti sfugga, di tanto in tanto, o sovente; mi dispiace tantissimo. Non ti lascerò scappare, in un'altra vita. Sarò più forte, in un'altra vita. E visto che il 30 dicembre me lo ha detto, visto che il 30 dicembre è rimasto vergine, perchè non lo abbiamo rocambolescamente mai vissuto, adesso io so che sei rimasta lì, appiccicata al mio petto, sveglia nella notte, fiera della idea stessa di me; malata al pensiero di perdermi, con tutte le mie foto a portata di mano...in un'altra vita. E allora, in questo 30 dicembre che è tuo, la mia freccia si avvicina nell'unico modo possibile, e te lo sussurra ad un orecchio, come se ti stesse traducendo una canzone dall'inglese, perchè così ha deciso il destino, “e la ragione in grembo de' celesti si posa”: tanti tanti tanti tanti tanti auguri...

Ho finito.

venerdì 24 dicembre 2010

Buon Natale (?)

"Splende il sole anche d'inverno, pallido e indefinito come un alone di sperma nelle lenzuola faticose di un quattordicenne" scrisse un Tale. Be', splende il sole anche qui, nel West Midland, e con lavoro certosino cerca di sciogliere la neve, diventata ghiaccio, dei marciapiede della città brumma. Fino a quando non torneranno le nuvole, e la pioggia si trasformerà in fiocchi grossi, e le strade si ripopoleranno di bianco. Io cammino, butto lo sguardo a destra mentre attraverso, il sole basso, che più in là non va, non mi schiaffeggia con furia, non mi accarezza con dolcezza, mi si presenta e mi riempie il viso. Mi sembra di vedermi, in questa vigilia di Cristmas, con i miei occhi che diventano più verdi, più nocciola, con quell'aria triste scoperta dalla luce solare; camminando al ritmo di Yuppie Flu, in una mano il vino per stasera, nell'altra il regalo di Miscio. E' uno di quei giorni in cui mi fermo, arresto le mie frenetiche attività cerebrali, e mi chiedo:"ma cosa sto facendo?". Natale, come una scure che mi taglia il volto, come un voto disatteso, con la tuta e il maglione meno alla moda, tanto qua non importa a nessuno. Poi la domanda diventa più concreta:"Che Natale sarà?". Bisogna attendere per sapere la risposta. Rientro a casa, tolgo gli auricolari, e i Beirut e il loro folk melodico mi inebriano. Mamma starà sicuramente preparando le sue specialità. Per sto giro Christian non può chiamarmi per vederci dopo la mezzanotte a casa sua e giocare fino alle cinque, e lasciare che la bocca diventi amara per le tante sigarette, per il bicchiere in più (uno soltanto- sono astemio). Lì, dove ho passato i Natali più belli, ci saranno sempre le solite sorprendenti cose. E nella mia testa, dentro di me, cerco di immaginare i pensieri di tutti. Mi chiedo, maldestro, se tutto questo è un film di cui sono protagonista. Lo è per me, e per qualcun altro forse. Cammino per le strade di questa Birmingham che riesce ad essere naturale e frenetica al tempo stesso; mi guarda una tipa, vaffanculo, le dico, tra me e me. E Buon Natale le dico, tra me e me. E' solo un'altra, ennesima, occasione per stare da solo, mentre la casa si popolerà di persone con le quali non passerò mai più un Natale in vita mia. C'è la biondo-algerina, e la sua amica. Entrambe parlano un disastroso inglese. C'è Valentina, che renderà quest'occasione italiana, tanto riesce a sopraffare il resto della compagnia. C'è sto tipo che mi guarda e ridiamo- sappiamo bene il perchè, ma è un quasi segreto. C'è Peter il factotum, che pensa erroneamete che io sia felice di mangiare il suo piccantissimo salame ungherese; c'è lo schermo gigante, spento. C'è questa attesa per una festa sciancata, in cui ci scambieremo regali e reciteremo una commedia a cui manca poco per trasformarsi in dramma. Perchè qui è bello nei momenti ordinari; perchè io il mio braccio di ferro quotidiano lo vinco con o senza sforzo. Ma a Natale è un tantino differente, perchè il Natale non è un cazzo di Ferragosto, o la scampagnata del venticinque aprile; il Natale non è la festa cadenzata dal tempo che l'uomo ha creato. Il Natale è dentro il nostro corpo, è entrato in circolo, ci ha chesto tanto tempo fa di far parte di noi. E noi non solo glielo abbiamo permesso, anzi, abbiamo urlato festanti:"Ma certo, accomodati!!!".
Così il timore di un Natale che salta prende forma in me, e mentre rispondo alla domanda semplice ("ma cosa sto facendo?") nel più semplice dei modi ("ciò che va fatto"), rivolgo un pesiero ad ognuno di voi.
Auguri.
Fabio

martedì 21 dicembre 2010

Soap Opera

Perdonate la schiettezza, ma qui si comincia a marcare malissimo. No, non sto perdendo la mia proverbiale pazienza. Io sono sempre capace di perdonare tutto. Tipo, quei gruppetti di ragazze ubriache incrociate la notte che hanno appena dato l'anima alla Dea Birra; o le ragazzine urlanti per niente che si danno appuntamento in Temple Rowe; le ragazze solitarie che pur di non incrociare lo sguardo altrui, posano al suolo i loro splendidi occhi color verde pastello. Ragazze inglesi! Lo si è detto, e non sarà mai abbastanza, la comprensione degli usi e dei costumi è fondamentale, quando si decide di entrare a far parte di un nuovo sistema. Ma c'è una cosa che non sopporto, e farei una guerra lampo per risolvere il problema.
Abito in ostello, ormai dovreste saperlo. Ora, in ostello non è proprio come al Grand Hotel, nel senso che può capitare, ad esempio, che dormendo in una stanza con altre sette persone di qualunque razza, genere e religione, tornando a casa ad ora tarda, ed essendo sprovvisti di torcia di fortuna, si può, che ne so, scalciare inavvertitamente un cavo di un computer attaccato alla presa, o anche un telefonino sotto carica, la parrucca di un'anziana signora, il reggiseno di una ragazzina sbadata, il necessaire da viaggio di un operaio irlandese. Tutte ste cose appena elencate sono tratte dal libro "Cose realmente accadute", ed il libro non lo troverete in nessuna libreria, lo potete leggere uscendo di casa ogni tanto. Capita pure, nel suddetto ostello, ma penso in qualunque altro ostello, che quando vi viene fame non è che vi sedete a tavola e arriva il cameriere con la lista dei vini e il menù a la carte; se siete colti dal "leggero languorino" di ambrosiana memoria, o "non ci vedete più" di festiana memoria, vi alzate e andate nella cucina comune. E' aperta dalle otto del mattino a mezzanotte, quindi avete tutto il tempo. La cucina è bella che attrezzata: ci sono pentole, padelle, piatti, posate e bicchieri, e voi potete farne l'uso che più vi si confà. Vabbè, non esageriamo, potete fare un uso delle stoviglie, diciamo, tradizionale. Poi, una volta consumato il vostro pasto, non vi dovete aspettare che venga il cameriere suddetto (che sappiamo già che non esiste) che vi propone i profiteroles, o la setteveli, e non c'è la ragazza sparecchia-tavoli. Dovete fare tutto da soli. Andate in cucina e lavate ciò che avete utilizzato per preparare e consumare da mangiare. Questa cosa vi viene suggerita con garbo dai componenti dello staff dell'ostello; se in quel momento, da quelle parti, si trova il Capitano Zoltan (vedi il post Il Capiano Zoltan), la cosa vi viene imposta con la forza, se proprio lo desiderate, e lì son dolori...
E qui scatta l'aneddoto.
Ora, dovete sapere, cari amici che avete la sfortuna di farvi tediare con le mie noncuranti di voi storie, che la common room del Backpackers Hostel di Birmingham è uno dei miei luoghi preferiti. Mi piace tanto. Ci passo i miei momenti più belli. Vado al bancone, riscaldo l'acqua, prendo la tazza, afferro il cucchiaino, metto dentro la tazza il caffè solubile, lo zucchero (4 cucchiaini, un po' per le mie carenze di affetto, un po' per coprire il gusto ciofetico del caffè soluble che non è proprio quello del bar italiano. Ho detto che mi piace la common room, non il caffè, non si può avere tutto dalla vita), il latte; poi, una volta riscaldata ben bene l'aqua, la verso nella tazza. Tutto questo lo faccio mentre parlo con Miscio (si chiama in un altro modo, cioè si scrive in un altro modo, ma sarà impossibile per me che ho vissuto gli ultimi due anni ad Acitrezza) di calcio, oppure mentre intimo ad Ester che un giorno diventerà mia moglie, o durante una spettegolata con Valentina...insomma, pare sia una cosa normalissima, non tanto degna di nota. Sto per portare la tazza alla bocca, quando, con scatto, mi accorgo che il caffè macchiato e abbondantemente zuccherato altro non è che una bevanda tanto schiumosa, ma di quella schiuma con le bollicine con gli arcobaleni in superficie. Non è la schiuma tipica del cappuccio, quella tipo " mi fa un latte schiumato, per favore!", no. E' una schiuma che sa tanto di chimico, alla vista. E allora mi vengono in mente quelle scene alle quali ho assistito tante volte nella cucina dell'ostello. E la protagonista di tale scena è sempre di sesso femminile, appartiene sempre alla fascia di età che va dai venti ai venticinque anni, è sempre, irrimediabilmente inglese.
Cercate di immaginare l'idillio: io ho appena finito di mangiare i miei tortellini, o la mia pasta all'uovo, o più modestamente la mia fetta di carne con contorno di insalata, vado in cucina per lavare le mie stoviglie, e lì vi trovo, con positiva sorpresa, sta fighetta fricchettona che sta occupando il lavabo. La fighetta fricchettona ha le seguenti caratteristiche: caspelli biondi, attaccati alla nuca, chè tanto sta a casa e non è necessario scioglierli per farli vedere al mondo; felpone datato 1992, quello che usava Brenda Walsh nelle prime due serie di Beverly Hills 90210, piercing al naso, che ormai fa talmente parte di sè che la Nostra ha smesso da tempo di cazzaggiarselo con le dita. Porta un paio di pantaloni fuseaux, con i disegnini piccoli, e con buco di ordinanza nell'interno gamba (dovrei scrivere interno coscia, ma sto per scrivere la parola "coscia" più avanti e non è bene ripetermi spesso); ai piedi, solo un paio di calzettoni lanosi e spessi, che visti così sembra che possano sfidare la pioggia con più piglio rispetto ad un paio di stivali a coscia. "Hi", "Hallo", "where're you come from" etc etc. Lei non caga moltissimo, chè sta facendo una cosa che, vedremo, le toglie tante energie nervose; io preferisco osservarla in silenzio, e la nostra conversazione, di solito, finisce lì. Così, mentre cerco di capire se ha un bel culo, se avrà la accortezza di rivolgermi un sorriso, se dorme nella mia stessa stanza, la mia attenzione viene disturbata non da ciò che l'inglesina è, ma da ciò che l'inglesina fa.
Qualunque cosa tocchi, la tocca con i soli pollice e indice di entrambe le mani. Pollice ed indice a pinzetta (dovete leggere la z di pinzetta come la z di zoo o di o zorro, non come la z di zitto, insomma più pindsetta che pintsetta) come se da un momento all'altro dal lavello dovesse uscire fuori un mostro e la ragazza è già pronta per la fuga; la laureata in "tecniche di igiene" mette il sapone direttamente sul piatto o sulla tazza, non sulla spugna; poi bisognerebbe chiamare la scientifica per cercare di capire se realmente la spugna abbia toccato la stoviglia, perchè io non me ne accorgo. Indi, arriva il capolavoro. La nostra eroina, fa passare il piatto sotto il gettito d'acqua per due nanosecondi; sul piatto c'è ancora la stessa quantità di sapone di un qualsiasi schiuma party di Ibiza, e lei, la 'Nzunza (non posso spiegare tutto ciò che scrivo, spero che la parola 'Nzunza risulti onomatopeica) ripone lo stesso piatto nel vano apposito, come se fosse stato lavato e...sciacquato. Ed è ancora pieno zeppo di sapone, se non lo aveste ancora capito. Non c'è bisogno di ulteriori commenti. "Ecco perchè in inghilterra tutto ha il sapore del sapone" mi disse con la sua solita flemma un giorno il mitico Simon.
E allora continuate ad ubriacarvi felici, ad urlare per le strade dell'Impero, continuate a fissare il suolo sotto di voi, care le mie ragazze inglesi Tanto già so che non sposerò mai nessuna di voi, non voglio mica passare la vita a lavare piatti. Di certo non lo faccio fare a voi.

giovedì 16 dicembre 2010

Cuori

Cuori, è di cuori che voglio parlarvi. Non di cervelli, o di piedi; niente dita, pelurie varie, polpacci o fegati. Sporadicamente di muscoli, o sangue, ma soprattutto cuori. Cuori, sparsi nella common room del Backpackers, ognuno al suo posto, ma tanto, si sa, non è un posto definitivamente assegnato. Cuori, come stecchi dello Shangai, catapultati fin quaggiù da chissà quali e quanti posti; cuori appiccicati ai laptop, cuori che si alzano per andare a fumare, cuori intraprendenti, cuori smaniosi, nervosi; cuori in attesa, cuori che non vedono l'ora, o che si godono il relax.
Cuore di Stuart, cuore australiano, cuore forte, che pompa sangue e vigore, che batte come la batteria di Copeland. Cuore di Valentina, cuore grande, pieno, ricolmo, cuore che non si spaventa. Cuore di Sam, ragazza mezzosangue; un po' inglese, un po' sudafricano il suo cuore; cuore talmente lontano dal mio, eppure è qui accanto a me, ne sento quasi il battito.
Cuore di Zoltan, grande come un castello, una grotta che tutti accoglie. Cuore di Dominick, boccheggiante, malato, in fin di vita; cuore circondato dal nastro bianco-rosso, come nei film poliziecschi, "circolare, fatelo respirare"... Cuori, nella fredda Birmingham, riscaldata dal camino, cuore dell'ostello. Cuori che cercano o hanno trovato, cuori non più muscoli, cuori eterei, cuori cangianti e mutevoli, come gli stati d'animo. Cuori freddi, cuori dormienti, cuori oppiacei, cuori rivolti verso mille direzioni.
Cuore di Emma, colorato, cuore materno, cuore che basta a se stesso. Cuore di Ester, eternamente innamorato, giovane, cuore sano. Cuore di Jessica, cuore che spezza altri cuori, cuore impazzito come una palla da squash, che lascia segni sui muri, e per le strade, e per i letti... Cuore di Simon, imperscrutabile, quasi... Cuore di ragazza filippina che mi guarda, mi sorride di un sorriso di cuore. Mille storie milioni di cuori, pensieri verso cuori lontani. Cuori che si aprono e si chiudono, cuori che raccontano la vita. Afflitti, spaesati, fallaci, cuori che si vergognano e cuori dal miracoloso candore; intrappolati o liberi di volare, cuori sotto una bandiera, e cuori che cercano un'identità. Cuori che fanno il loro ingresso spaesati, cuori che comandano sulle menti.
E poi c'è il mio cuore, vilipeso e sopraffatto, ma ancora pieno di cose da dare; cuore che non ha avuto cuore. Cuore che non passa la mano, che cade e si rialza. Cade e si rialza. Cuore, che si vuole rialzare...

domenica 12 dicembre 2010

Una domenica con Dominick

Il senso di tenerezza non impedisce di essere uomini, nel senso virile del termine. Il senso di tenerezza potresti anche non averlo, e qualcuno può instillartelo, o può farti scoprire che ce l'avevi già, ma era latente, non riusciva a palesarsi. Questo è il motivo per il quale sarò sempre grato, nella mia vita, alla Mia Piccola Sciù, che spesso, col suo incedere, ricordava a se stessa e al mondo intero (e anche a me, che ho la fortuna di essere un buon osservatore), che la fortuna che le è capitata di essere sana, amata e compresa, dovrebbe appartenere a tutti. E ogni qual volta si accorgeva che la cosa non è per tutti sempre possibile, si lasciava andare ad uno sfogo di rabbia, accompagnato dalla lacrime di chi non può esprimersi altrimenti. Quello che è accaduto in quei sei anni è chiuso in uno scrigno del mio cuore, e mi capita spesso di attingere da esso i tesori sotto forma di esperienza da mettere in pratica.
In ostello ho conosciuto Dominick; è stato traumatico. Cercavo cinque minuti di collegamento internet senza necessariamente andare in camera a prendere il mio laptop, e visto che c'era il computer della common room acceso, ho pensato che fosse normale approfittarne. Mi siedo, e dopo pochi secondi sto ragazzone mi intima di alzarmi, chè lui stava pagando per usare qual computer... Ok, mi alzo subito, ma non fare così. E' inutile dire che naturalmente con Valentina, la ragazza italiana che lavora qui al Backpackers, non abbiamo perso tempo a prendere di mira sto tipo un po' strano.
Ma ecco che col tempo ho cominciato a conoscere Dominick...e le cose evolvono, cari amici, e cambiano, e fanno crescere, anche alla mia veneranda età.
Dominick viene da Philadelfia, Stati Uniti. Dominick ha ventinove anni ("tueninain man" mi disse un giorno, quando io tentando di indovinare gli dissi che per me era un ventitreenne); lo sguardo perso nel vuoto, non sapresti dire se stia pensando al nulla assoluto o ai mali che affliggono il pianeta. Giaccone lungo di pelle nera che fa pendant con le adidas totalmente monocolore, jeans larghissimi tipici della east coast, camicione oversize; sguardo iperpulito, da americano, occhi azzurri, capelli corti, castani. Quando non conosci la sua storia, ogni suo movimento sembra innocuo, privo di senso. Apre e chiude la sua agenda, e tu pensi che non contenga nulla di importante se non per lo stesso Dominck. Fa un controllo accurato della sua casella di posta elettronica, tenta di parlare con qualcuno al telefono che magari non gli risponde, e ancora tu stai lì a pensare che in fondo si tratta di un coglionazzo. Mannaggia alla subcultura tipica di noi provinciali del suditalia.
Poi, qualche giorno fa un gruppo di ragazze giovani e belle e francesi e sorridenti e apparentemente disponibili (ma questo si vedrà in futuro) mi invita per un piccolo party a casa di una di esse. Per andare bisogna prendere l'autobus, andare un po' fuori dai luoghi quotidiani, non si sa che ora si farà; però io voglio andare. Chiedo alla padrona di casa se posso portare un amico, chè mi secca non poco rientrare tardi da solo, e penso di portare con me Stuart, l'australiano figagnone. Tanto, penso, non c'è pericolo che se le prenda tutte lui, le francesi sono talmente tante che possiamo fare una bella lottizzazione italo-australiana. Torno a casa, e incontro Dominck, al quale chiedo subito dove sia Stuart. "Ha lasciato l'ostello stamattina, man" mi risponde. Allora prendo la palla al balzo così, istintivamente, e gli chiedo se vuole venire con me a sto party, "ci sono tante ragazze", cerco di allettarlo. Lui in un primo momento fa spallucce, mi dice cha ha dare fare, che l'indomani deve alzarsi presto, insomma cerca scusa per non venire. Io penso che gliel'ho detto e cho fatto il mio dovere di brava persona, ora sta a lui. Così mi metto a dormire un po'. Dopo quindici minuti Dominick mi sveglia e mi chiede a che ora è l'appuntamento con le ragazze. "Allora l'antifona ti è piaciuta" penso io, beffardo. Alle nove e quindici di un venerdi sera freddo e brummie, io e il taciturno Dominck camminiamo per le strade di Birmingham, direzione le palle del Toro di New Street. Lui timidamente comincia a dirmi che è stato in Italia, a Venezia, a Florence, a Roma, dove ha visto la "Sistina Chapel". Poi, arrivati sul luogo convenuto, in attesa di Sarah che ha appena mandato un sms con su scritto che ritarderà un poco (le ragazze sono uguali da tutte le parti del mondo, quando si tratta di appuntamenti e di puntualità) ecco che i discorsi tra me e il ragazzo di Philadelfia scivolano inesorabilmente sul personale. E allora Dominick prende forma in me; e la sua natura bidimensionale lascia spazio ad un uomo, alla sua storia, alle sue sofferenze. Scopro che è stato sposato, con una ragazza orientale, della quale è ancora palesemente innamorato, ne porta una foto con sè. Ma il mondo di Dominick mi si apre del tutto, quando, alla domanda "hai figli?", lui abbassa lo sguardo, e la sua espressione orribilmente monocorde, rivela la più grande tristezza che un essere umano possa provare. Mi dice che sì, c'ha un figlio che compirà sei anni tra due mesi, perchè solo un padre ha l'accortezza di essere così doviziosamente preciso... Poi i suoi occhi si abbassano ancora di più, quasi piange e mi dice:" I MISS HIM". Che pianga pure, penso, se devo essere spettatore di tale straziante spettacolo, vuol dire che Qualcuno o Qaulcosa mi ci ha messo di fronte. E allora ho pensato che il senso di tenerezza non mi ha abbandonato, ho pensato che se ci fosse stata Sciù avrebbe fatto fatica a non abbracciare sto ragazzone che ci ricorda che nulla è per caso, che se adotti un'espressione un motivo ci sarà, se sei apparentemente assente, forse, è perchè non vedi tuo figlio, colui che ti ha "cambiato la vita", da tre mesi; che se te ne stai per conto tuo dentro una casa piena di ragazze pronte a nuove esperienze la cagione c'è, e non vi è alcun bisogno di farlo sapere a tutti; le intime tribolazioni, a volte, sono talmente visibili che non ce ne accorgiamo neanche. E allora dobbiamo approfittare dell'insegnamento di Sciù, se abbiamo avuto la fortuna di passare con Lei sei anni strepitosi.
Oggi è domenica, e Dominick, non sapendo che scrivo di lui, mi viene a cercare, mi chiede se oggi pomeriggio lavoro. E adesso so che ha bisogno di non restare da solo, di non pensare che gli manca suo figlio. Lavoro, cazzo! E lo porterei con me, giusto per provare a tramutare in sonore risate quegli sporadici, tristi, quasi imperscrutabili, rari sorrisi.

martedì 7 dicembre 2010

Cavalleria Rustica

La lontananza, ma che bella invenzione! Anche se a volte mi prende quella strana malinconia, tipo voler andare a giocare a poker da Christian, o farmi una bella chiaccherata (cioè parla solo lei, e sempre della stessa cosa) con la mia Valeria. Tant'è! Potenza di Skype, a volte ci riesco a rientrare in camera di Chirstian, poi Giusy guarda dentro la webcam e io, con tanto affetto sia chiaro, le mostro il dito medio... Ma credo di potermelo permettere, dopo più di vent'anni. Poi ci sono gli "scambi" di opinione con la succitata Valeria, la quale, però, qualche giorno fa mi ha dato CONTEZZA (a qualcuno non piace che io usi spesso la parola CONTEZZA, quindi in barba a tutte le regole di netichetta la urlo con Sua Maestà il Tasto Maiuscole)di un fatto assai singolare che è capitato nella mia città qualche giorno fa.
Andiamo per gradi. Cito wikipedia, cioè faccio copia-incolla, ma la parola "cito" fa più figo: Il cavalierato è una onorificenza in uso in molti ordinamenti, con la quale si insignisce il destinatario del titolo onorifico di cavaliere. Micacazzi!!!
Onoreficenza, titolo, onorifico, quante belle parole, per non parlare del verbo insignire, che non so neanche dove ha gli accenti, ma mi sembra una gran cosa, a voi non pare? Ebbene, durante una delle mie ultime avventurose conversazioni internaute con la bella Valeria cosa vi vengo a sapere? Che Catania si è autocelebrata, e ha distribuito titoli come lattughe al mercato ortofrutticolo alle 6 del mattino... Finalmente, aggiungo io dalla lontana terra di Albione. Però mi faccio subito una domanda: dove stavano i catanesi?
Ok non scherziamo, oggi voglio essere iperpolemico, e vorrei tanto togliermi questi faraglioni che ho nella scarpa e che mi infastidiscono un pocopochino. Hanno dato il titolo di Cavaliere a Michela G., una donna che non ti saluta quando ti vede. Io immagino che un cavaliere debba tenere un comportamento probo, un'andatura leale, debba emergere in codesta persona il dato inconfutabile della rettitudine. "Buonasera" scandivo perbenino io all'ingresso degli studi radio-televisivi, e il mio saluto si perdeva in un'eco impareggiabile, e poi toco toc toc, rumore di tacchi andanti...
E che dire dell'onoreficenza impartita al nostro Umberto T.? Prono e asservito? Noooo! Pavido e donabbondesco? E perchè mai. Ce le ricordiamo tutti le sue incalzanti domande durante le funamboliche interviste a Issintaco (una volta Catania aveva 'O Sindaco, L'Uomo del Mare, oggi ha Issintaco, con la T); fuoco e fiamme in quelle discussioni senza fine. Pare che Ron Howard, per il suo Frost/Nixon si sia ispirato proprio alle interviste di Umberto T. a Issintaco. E poi, onoreficenza e titolo da appendere al muro anche per Salvo L. R., che tanto ha fatto per la città dell'elefante. Well I wonder to myself: erano tutti d'accordo? L'hanno fatto alla luce del sole in pompa magna o hanno approfittato del buio della sera, quando i lampioni della città non illuminano perchè quella città è ancora in the dark, complice qualche bolletta energetica non pagata? Oppure hanno utilizzato come sfondo la splendida cornice delle macerie di Piazza Europa, con la povera Madonnina che si è salvata dalla colata, sì, ma non è riuscita a sottrarsi alle intemperie del vizio che ha l'uomo di voler sopraffare tutto e tutti? Fuori dal luogo convenuto c'erano i posteggiatori abusivi? Il tanto vituperato Calcio Catania, messo alla berlina sottobanco perchè di dire le cose alla luce del sole non se ne parla neanche, e che rappresenta uno dei pochi miracoli veri a cui ho avuto il piacere di assistere in vita mia (rappresentare in serie A una città da torneo salesiano, con tutto il rispetto per il torneo salesiano), è stato invitato alla "cerimonia"? E poi, ancora, visto che mi è preso lo "sciddico": perchè non dare il nobel per la letteratura a Brigantoni, considerando il fatto che lui sì che ben ci rappresenta financo all'estero? Se questo blog non fosse un blog, ma fosse un giornale vero, si aprirebbe una polemica senza fine, e a me farebbe anche piacere, perchè sarebbe qualcosa di democratico. Ma l'idea muore in partenza come un cucciolo che non potrà essere svezzato. Nessun giornale in città oltre quello che c'è già.
Che tristezza infinita mi fa questa catanietta che fa il verso all'italietta, che ormai ha cessato di essere il luogo cha ha dato i natali a Dante, a Leonardo, a Marconi, e che oggi, io ne sono testimone, è vittima del vitupero proveniente da tutte le parti del mondo. Mi domando cosa penserebbe Gabriello Carnazza, e cosa avrebbero da dire nell'ordine Luigi Capuana, Giovanni Verga, Filippo Eredia, Carmelina Naselli, Mario Rapisardi, Gesualdo Bufalino. Mi domando cosa penserebbe di tutto ciò Vincenzo Bellini, se la cosa lo ispirerebbe in qualche modo per una bella opera drammatica, lui che riposa in pace dalle parti di Parigi.
Così, mentre le urla strazianti di dolore di coloro che non hanno un futuro arrivano fin qui da me che un futuro lo sto cercando altrove, mentre il cielo sopra l'Etna è scuro e pesto, mentre Issintaco si ostina a dire che "le cose stanno migliorando, e non abbiamo bisogno di allarmismi" col suo accento Cambridge, mentre le buche per le strade fagocitano voracemente il cammino incessante dei catanesi verso il nulla, allegoria perfetta del "Buco" economico che renderà la città del Liotro una città fantasma, mentre fare i "precari" diventa quasi una larga aspirazione, mentre la città scivola via inesorabimente a sud del Meditarraneo, un gruppo di buontemponi trova il coraggio di autocelebrarsi mettendo a ferro e fuoco il significato stesso delle parole, e facendolo in barba a tutto ciò che di drammatico sta avvenendo.
La mia Speranza è che finalmente i catanesi si alzino e comincino a capire che riprendersi la città non sarebbe un reato, ma un atto dovuto. Alla prossima.

giovedì 2 dicembre 2010

C'è modo e Tony

Cerco di fare un ranking speciale dei componenti la cucina del Pasta di Piazza, il dolciastro ristorante nel quale lavoro. Da chi conta di più a me. Dunque vediamo: al primo posto c'è sicuramente Nas, lo Chef algerino. Io vorrei spiegargli che si chiama come il gruppo dei carabinieri che si occupa delle contraffazioni alimentari, ma il mio inglese è ancora in downloading. A pari merito, al secondo posto, ci sono Harron e Hassan, quest'ultimo è arrivato da poco, è antipacissimo, ma siccome sa armeggiare con le padelle, e in realtà il suo è un ritorno alla base, ha già scalato le posizioni. Terzo Fateh, che mi sta tanto sul cazzo perchè è un Capataz, e io dalla notte dei tempi odio i Capataz se non si occupano di cose importanti, tipo fare gli ingegneri alla Nasa o Amministrare il Barcelona Football Club. Poi c'è il Mitico Armrin, o Armin, o Amir, il suo non è proprio un nome, è piuttosto una regola matematica: cambiando l'ordine o il numero delle lettere presenti nel passaporto, il risultato non cambia. A un tiro di schioppo da Armin, l'ultimo anello della catena prima che la stessa si fermi al sottoscritto è Tony. In realtà dopo di me ci sarebbe Henry, che non è un giocatore della nazionale francese, ma un ragazzino ventunenne lituano bellissimo, che se un giorno dovesse capitare in qualche spiaggia catanese ai primi di luglio nei giorni feriali, le ragazzine in vacanza se lo mangiano e forse lasciano le ciglia sulla sabbia... Ma io è di Tony che voglio parlarvi oggi.
Tony, evidentemente, non vedeva l'ora che arrivassi io. Prima era l'ultimo anello, adesso, racconterà alla moglie prima di addormentarsi, c'è Fabio Fabio Fabio. Non fa altro che nominare il mio nome, tutto il santo giorno, come se volesse esorcizzare una mia eventuale scomparsa. Ma ci pensate! Se io sparissi lui tornerebbe l'ultimo della cucina. Lutto!
Tony ha 34 anni, ne dimostra 56, e ha il senso dell'umorismo di un dodicenne scemo. E lo riversa tutto su di me. Sembra Licciardello.
Piccolo escursus per fare capire al 98% di voi chi è Licciardello:

Licciardello è un mio vecchio compagno di liceo che aveva, tra i tanti, un difetto madornale: faceva il conto delle interrogazioni. Ne risultava che ogni mattina, all'ingresso in aula, rincoglioniti dal sonno, massacrati dai soliti sensi di colpa per non aver studiato, dilaniati dall'adolescenza, vilipesi dai brufoli, umiliati dalla goffagine dei quindici anni, lui, Licciardello, si presentava con qulle faccia di culo e diceva:"Oggi t'azzicca!!!" (tr. "oggi l'insegnante testerà la tua preparazione sulle lezioni trattate in precedenza, e se risulterai impreparato lo stesso prenderà un pezzo di ferro, lo impugnerà con uno specialissimo guanto di amianto, lo riscalderà ben bene dentro la fornace che usava Stakanov in miniera, lo inserirà a forza nel tuo retto, indi proverà, in quella posizione, il movimento di polso degli ultimi dieci tennisti in testa alle classifiche mondiali, tra i quali citiaqmo Jimmy Connors, Ivan Lendl e il temutissimo, in questo caso, per via del rovescio bimane, Bjorn Borg"). Capirete bene che Licciardello un giorno fu apostrofato dal sottoscritto con un "'n ci scassari a minchia" (la traduzioni qui è autobannata, ma so che avete perfettamente capito il senso della frase) prima che potesse dirmi per l'ennesima volta la frase suddetta.

Ecco, Tony è un po' come Licciardello, si accontenta di poco. Ma andiamo per gradi.
Conviene dire subito che Tony sembra Paolo Villaggio alle prime apparizioni in tv. Io, quando non indossiamo la divisa da cucina che tanto democraticamente ci rende tutti uguali, me lo immagino con i pantaloni della festa domenicale, il maglione a rombi, e i mocassini verniciati. Sembra uscito dagli anni sessanta; non ce lo fai capace di mettersi al computer e consultare il suo twitter profile. Lo guardo e ho come l'impressione che a casa abbia ancora il televisore in bianco e nero, quello con le manopole, e che solo per lui i programmi vengano annunciati ancora da Nicoletta Orsomando. Quando il capo si fa vedere al ristorante lui assume l'aria di chi sa che sta per venire il terremoto; comincia a correre, preoccupatissimo, per tutta la cucina, sembra quasi che stia per pregare che non gli capiti nulla. A volte resto sorpreso, perchè quando il nostro boss è in cucina con noi, Tony incontra con i suoi i miei occhi, e con lo sguardo mi dice:"Fabio, speriamo che non ci succeda niente". Ora, sappiatelo, il capo, Ronnie, è la persona più tranquilla e buona del mondo, e non c'è niente che non lo faccia ridere e scherzare con noi in cucina, anche in situazioni di notevole pressione. Insomma, Tony esagera.
Tony ha un'altra particolarità: puzza. Credo che l'ultima volta che il suo corpo e il Pino Silvestre si siano incontrati, quest'ultimo si chiamava ancora Bagnoschiuma Vidal, e in tv davano la reclame col cavallo bianco. Sì, l'ultima volta che Tony si è lavato è stato per festeggiare la vittoria di Ronald Reagan alle primarie repubblicane del 1979. Il Nostro Tony emana un odore (?) che possiamo definire una miscellanea tra un formaggio egiziano, un peto di gnu e il dopobarba...di Shreck. Insomma, in confronto a Tony, le fogne di Kathmandu sono considerate dagli esperti un posto salubre. Io ormai c'ho fatto il naso.
Ma la vera particolarità di Tony, forse il motivo stesso per cui è venuto al mondo, è che deve rompermi i coglioni. E' più forte di lui, lo deve fare. Deve continuamente farmi quelle battutine stronze, tipo:"Fabio, are you gay?", oppure "Fabio, today Ferrari o Maserati?", malcelando la sua idiosincrasia per la mia proverbiale lentezza nel fare le cose. Il problema è che fa tutto ciò per avere uno spazio nel cuore degli chef. Lui deve scalare la gerarchia di questo mondo di primati che è la cucina del Pasta di Piazza, come se non esistesse altro. E allora vai con i "move your ass, Fabio" e sorrisino nei confronti di Nas. Poi c'è quando vorrebbe tanto farmi incazzare perilsemplicegustodì. Allora, dopo essersi informato sulle vicende calcistiche del Catania, parte all'attacco con i suoi pronostici:"Fabio (e io già so che sta per dirmi qualcosa di assolutamente stupido), Sunday Catania 0 Bari 3!!!" e subito la risatina e la ricerca di approvazione...
In altri tempi ci avrei messo sei minuti a trovare il motivo per una bella litigata con uno come Tony...ma grazie ai sei anni passati con Sciù, che mi ha insegnato le buone maniere, udite udite, no. Non mi infastidisce più di tanto. Anzi, quasi lo ammiro, o in qualche modo lo invidio. Eh sì, come si fa a non invidiare, di tanto in tanto, uno che si è posto degli obiettivi minimi, e su quelli basa la propria vita? Che male c'è? Insomma, chi lo ha detto che i buoni principi debbano fondarsi per forza di cose sulle aspirazioni che noi tutti abbiamo sentenziato come "oggettivamente" di alti valori? La democrazia è anche questa: lasciare che un ragazzotto albanese metta radici in una cucina di un ristorante di Birmingham, e provi con tutte le sue forze a scalare i gradoni che lo porteranno, un giorno, lì, tra i fornelli a gridare comandamenti e sacramenti, chè sono io Lo Chef!
E allora, caro Tony, anche se il tuo sport preferito è rompermi i coglioni, io ti faccio tanti auguri, ti supporto, spero che tutto ti vada bene. In fondo Armin è solo a un tiro di schioppo...

domenica 28 novembre 2010

A Sandra

Perchè a volte ci si imbatte in persone straordinarie...
E allora questo è per te Sandra. Che sei ariosa, esubernte e dolce. E' scevra in te ogni forma di stortura, e quindi sei scissa dal resto delle cose.
Questo è per te Sandra, che sei forte e vulnerabile, glorioso ossimoro della natura femminile.
Questo è per te Sandra, Amica discreta, chè non ci vogliono anni per capire chi sei.
Questo è per te Sandra, e per quello che silenziosamente fai, senza mostrarti al mondo più di ciò che sei.
Questo è per te Sandra, il regalo più plausibile, quello che i miei poteri mi danno la possibilità di farti; un giorno tornerò dalle tue parti e faremo una cosa definitiva e giusta: ci prenderemo un caffè, ci guarderemo negli occhi, ci racconteremo i nostri mondi, senza badare ad altro.
Questo è per te Sandra, che mi citi Chaplin e i Joy Division; che ti sciogli al pensiero dei sogni felliniani, che ti arrabatti nella ricerca incondizionata delle risposte che portano alla Felicità. Ma lo fai con gusto, e senza pretese.
E allora questo è per te Sandra, che ti ho conosciuta in maniera fortuita, e adesso non ti perdo più; perchè non ho fini, non ho intenzioni, non ho voglie.
Il solo sapere che anche tu appartieni a quell'elite di persone "Giuste" mi basta.
Questo è per te Sandra, tanti auguri Amica Mia

giovedì 25 novembre 2010

The Tap

Ho appena consultato la mia pagina personale di Google, la quale mi ha detto che in questo momento nella città di Birmingham, nonostante il sole, ci sono, alle 2 e 26 p.m., 2 gradi. Due graducci sopra lo zero...in effetti me ne sono accorto poco fa, quando, sprezzante del pericolo, sono uscito fuori per fumare la mia sigaretta rilassante (?) del dopo-pranzo. Tra l'altro, se vogliamo essere scientifici, il garden che c'è dietro il Bcb, l'ostello in cui vivo, che è l'unico posto in cui noi malnati fumatori possiamo andare ad espletare l'azione del fumare, ha la prerogativa di sfidare le leggi della natura, essendo più freddo di qualunque altro luogo della città, tolto il ponte che c'è tra il Car Park e il Bullring di cui abbiamo già parlato. Su Coventry Street ci sono 4 gradi? Il garden ne conta 1. Su Allison Street ce ne sono 5? Il garden, e la sua aria amabilmente cupa, ti accoglie con i suoi 2 sotto zero.
Il freddo dovrebbe essere un nemico da combattere per i poveri inglesi che non hanno, come noi abitanti di Trezza, la possibilità, ogni tanto di portarsi in spiaggia; devo dire con onestà intellettuale che il riscaldamento non manca. Io ad esempio, ogni qual volta entro da qualche parte, compio sempre l'atto di togliermi il giubbotto, i guanti, il berretto, la sciarpa, la coperta termica, il termosifone, il bue e l'asinello che mi alitano addosso etcetera etcetera e mi appendo tutto alla vita...sembro una di quelle donne di colore col culone.
State aspettando il succo del discorso, vero?
Ok, arrivo subito al dunque. Da dove cominciamo? Dal fatto che, una volta qui, ho detto a me stesso:" Fabio ti ricordi dell'Indonesia? Sei stato lì un bel pezzo, e hai pensato fosse giusto cercare di uniformarti agli usi e ai costumi indigeni; ecco, adesso devi fare lo stesso". E lo faccio, ogni giorno! Ho superato senza problemmi il fatto che la gente sputa per terra rischiando di colpirti, e la cosa è naturale come bere un bicchier d'acqua; ho capito che per un popolo che ha concquistato l'intero subcontinente indiano e ha dato i natali a Sting e a Ian Curtis non è necessario avere il bidet; ho fatto mia l'idea che i quotidiani, tutti, devono avere in seconda pagina la foto di una stragnocca nuda, anche se nella pagina successiva si parla di uno tsunami che ha ucciso settecentomila persone. Ma c'è sempre qualcosa che sfugge al mio comprendonio come un'anguilla appena pescata che giusto quel giorno è pure nervosa perchè ha le sue cose: il rubinetto del bagno!
The Tap...si traduce così, the tap. The tap ha la seguente prerogativa: eroga due tipi di acqua, quella calda e quella fredda. Fin qui niente di che. Però, c'è sempre quel "però" dietro l'angolo. Il Tap, ripeto (è importante ripeter le cose), c'ha due erogatori d'acqua, uno per quella calda, che si trova a sinistra, ed è contrassegnato o dalla lettera H o dal colore red, e uno per quella fredda, lettera C, colore blu. Entrambi distano, l'uno dall'altro, circa sette-otto centimetri; il lavandino non è mai dotato di gommino che chiude all'acqua la possibilità di scomparire. Ricapitoliamo: sono le otto del mattino, apri la tenda della finestra del bagno e non vedi niente perchè la condensa sul vetro ha uno strato di venti centimetri, c'è tanto freddo, e vuoi solo lavarti i denti; a questo punto apri l'acqua fredda, ma è troppo fredda, quindi apri quella calda. Ok, va bene, deve ancora riscaldarsi, bagni il tuo spazzolino e cominci a scartavetrare i tuoi denti col tuo mentadent plus da combattimento. Va tutto bene. E va bene anche quando rimetti il tuo arnese lavadenti sotto il getto d'acqua per sciacquarlo... Poi avviene il dramma! Poni a cucchiaio le manine da pianista che ti ha regalato il buon Dio per riempirle d'acqua da portare alla bocca, sì da sciaquarne il contenuto e...AHRHARHAHARLGHAHAHRLGH. Succede che dal rubinetto dell'acqua fredda esce una stalattite a cui manca tanto così per solidificarsi, e da quello dell'acqua calda un gettito gassoso così tremendamente infernalmante impunemente bollente, che in confronto l'altoforno è la cella frigorifero del macellaio. La cosa grave è che non c'è modo per miscelare le acque di sto Fucki'n Tap; e allora i contorsionismi si moltiplicano: mani a bicchiere sotto la gelida acqua del rubinetto color blu, fugace ma determinata tappa sotto gli inferi del color red, il tutto per ottenere sei secondi eterni di acqua miscelata da mettere in bocca, pena uscire di casa con gli angoli della bocca color Blu Colgate...
Hanno coloro, gli inglesi dico, sentito parlare di miscelatori? Si sono accorti che c'è un problema? No dico, se fossi un tipo più incazzoso, per un motivo del genere potrei fare scoppiare un caso diplomatico. Eddai, un unico Tap della malora, con dui rubinetti, uno per l'acqua calda e l'altro per quella fredda, non costerà molto farlo. Conosco un paio di amici disoccupati della provincia di Enna che hanno avuto la mancanza di accortezza di laurearsi in ingneria meccanica, ve lo disegnano loro il vero Tap continentale, quello che ti fa pensare: ah che meraviglia, sono in bagno e mi sto lavando!!!

venerdì 19 novembre 2010

Run Ran Run

Esco di casa in bicicletta, freddo, percorro Coventry Street con fare malandrino, ma è la sicurezza che pian pianino si fa strada nei meandri della mia psiche e comincia a prendersi cura di me; agli incroci butto uno sguardo un po' a destra e un po a sinistra, non si sa mai, abbiamo già capito, nelle puntate precedenti, che gli inglesi non sono dei fenomeni al volante. Entro nella mistica Allison Street, che mi fa simpatia perchè c'ha lo stesso nome di una canzone dei Pixies, a una manciata di metri c'è la Police Station che assomiglia a quella del Monopoli, a destra mi inchino e riverisco col pensiero verso Orwell Passage, chè ancora mi commuovo quando penso a 1984. It's time to turn on the right, dove però devo ciclare contromano in Digbeth Street, verso Nord, verso il monumentale Bullring, che sembra il Pescecane che ha inghiottito nell'ordine Geppetto, Pinocchio e il salvifico Tonno. Quindi vai di marciapiede, c'è una fermata del Bus che è sempre affollata, così devo dare fondo a tutto il mio ciclistico talento per evitare indiani, pakistani, colored, e inglesissime e attempate signore che armeggiano con i loro i-phone mentre io continuo a zigzagare tra un "sorry" e un "please"... Supero abilmente due semafori consecutivi dimostrando di avere ormai una padronanza del mezzo assai degna, e mi concentro per affrontare una serie di salite che, non saranno il Mortirolo, ma mi impegneranno non poco prima di fare il mio ingresso trionfale nel poderoso Meltin Pot di New Street. Da lì Bennett Hill, poi Newhall Street, quindi Brook Street, con il suo carico di fiori che sembra Sanremo a Febbraio, ed eccomi arrivato a lavoro.
Quando non mi devo guadagnare la pagnotta faccio un giro un po' diverso, lascio a casa la bici, ma alla fine i luoghi, per ora, son sempre quelli. La vera eccezione sta nell'evitare Digbeth Street e entrare nel Car Park del Bullring. Basta premere il numero otto dell'ascensore, uscire, percorrere il ponte più freddo della storia della Civilità Occidentale, ed entrare al Selfridges & Co., reparto cosmesi, la più alta concentrazione di figa dell'intera regione. Da lì a New Street la cosa è fatta. Poi bla bla bla...
Incredibile a dirsi, ma non è dei miei percorsi quotidiani e routinari che voglio scrivere. Ma di una cosa strana (quanti misteri cela dentro sè questa città!!!) che mi accade di vedere ogni giorno, che sia indaffarato e paonazzo in bicicletta o nullafacente e a piedi non importa. La cosa accade SEMPRE.
Succede che ad un certo punto vedo qualcuno correre... Solitamente questo Qualcuno corre come se lo stessero inseguendo 7 pitbull addestrati ad uccidere un uomo con la sola forza del pensiero; il corridore, che, piacendomi i neologismi, chiamerò il Corriente, ha la faccia di chi ha un obiettivo da raggiungere, il problema è che lo conosce solo e soltanto lui.
Il Corriente non appartiene a nessuna fascia di età, a nessuna razza, a nessuna religione; la Sua natura è assolutamente eterogenea, se sapessi cosa vuol dire! Il Corriente è un quindicenne di colore con indosso la divisa di scuola, il Corriente è un ex calciatore dell'Aston Villa, il Corriente è una cantante Gospel, il Corriente è una coppia di gemelli siamesi attaccati per un braccio... Il Corriente corre deciso, quasi spaventato, comunque fermo nelle sue intenzioni.
Dove cazzo va?
La prima cosa che ho pensato, e la state pensando anche voi in questo preciso momento, è che i Corrienti, questa strana setta, non sono altro che persone che stanno per perdere l'autobus. Poi, un giorno, ne ho visto uno al secondo piano di un centro commerciale. Gli inglesi, si sa, sono avanti, non c'è che dire, ma ancora le fermate degli autobus dentro gli shopping centers non le hanno pensate. Quindi scartiamo questa ipotesi, che tra l'altro è pure poco romantica.
Quindi? Qualcuno sa spiegarmi chi sono costoro, i Corrienti?
Forse hanno appena saputo che in quel giorno, a quella ora, una ragazza solitamente guardinga diventerà disponibile in quel dato punto della città...
Forse hanno ricevuto una telefonata:" Vieni di corsa, tra sette minuti il Principe Carlo regalerà un milione di pounds al primo che si presenta!!!".
Forse i Corrienti sono persone che hanno finalmente preso coscienza del fatto che il Regno Unito, da una ventina d'anni a questa parte, non se la passa più tanto bene socio-economicamente, che città come Manchester, Liverpool, e la stessa Birmingham, che un tempo campavano alla grande con il carbone (avete mai visto Billy Elliot?) ora hanno dovuto riconvertirre le loro economie buttandosi sul terziario; quindi io mi perdo sempre la parte in cui i Corrienti cominciano a gridare:" Cazzo, i cinesi e gli indianiiiiii, ci stanno fottendo tuttoooooo".
Insomma, qualche buon motivo per cui sti personaggi esistono e corrono deve pur esserci; anzi, sapete che faccio la prossima volta? Ne seguo uno, chissà in che mirabolante mondo mi porta. Oppure chissà se la mia integrazione qui avverrà il giorno in cui mi ritroverò anch'io Corriente, sapendo pure dove starò andando.
Intanto so soltanto che correre in inglese si traduce con Run Ran Run, che è uno degli ottomila verbi irregolari che devo assolutamente imparare a memoria. E di corsa...

domenica 14 novembre 2010

The Obscure Car Park

"Park the car at the side of the road", cantava Morrissey nell'immensa That joke isn't funny anymore. The Smiths, lo sanno anche le pietre neozelandesi, è un gruppo, ormai sciolto da più di vent'anni, formato da quattro ragazzi inglesi. Lo stesso Morrissey è nato, crescito ed è diventato un'icona nella piovosa città di Manchester. Cantava, appunto, di parcheggiare un'automobile... Quindi, quella che i critici considerano la track guida del più importante album del gruppo, Meat is Murder, almeno da un punto di vista socio-politico, comincia con la frase suddetta.
"Parcheggia la macchina sul ciglio della strada"...
Perchè? Me lo sono sempre chiesto, fin da quando, adolescente e brufoloso, mi chiudevo nella mia stanzetta e azionavo il caro vecchio giradischi. "Parcheggia la macchina sul ciglio della strada"... Chissà perchè tanta enfasi, tanta importanza a queste parole. Se è vero che se le distanze fisiche diminuiscono, allora anche quelle culturali e sociali subiscono una brusca frenata, io che oggi vivo nella IPERMULTIPOLICULTURALE Birmingham oggi ho la chiave di tutto.
Darwin ci ha insegnato con piglio scientifico che l'uomo è il risultato di un'evoluzione, di un adattamento naturale alle condizioni che lo circondano. Magari, ha aggiunto qualche buontempone di studioso della psiche, l'adattamento va ascritto anche alle situazioni sociali, culturali e via discorrendo. Ma non divaghiamo, restiamo sul pezzo. Secondo me se in tutto il mondo si fabbricano automobili con la guida a sinistra e soltanto il Giappone, l'Australia, L'indonesia e appunto la Gran Bretagna fanno specie, un motivo concreto ci sarà. Forse, ma è sempre e solo una modesta e alquanto pretenziosa opinione del Vostro Umile Narratore, trattasi di scelta naturale, come se a richiederlo sia stato direttamente il nostro DNA.
Avete mai visto parcheggiare un inglese con la sua bella macchina con guida a destra? Io, per ben tre volte, ho assistito alla seguente incredibile, quasi inenarrabile scena.
Parcheggio.
Arrivo della macchina, bruschissima frenata senza motivo alcuno (la frenata la puoi fare se stai girando in cerca di un posto da venti minuti, che per la teoria della relatività formulata da Albert Einstein per la prima volta nel 1908, in virtù della tua incazzatura, diventano nove giorni di intenso scoramento); discesa dal lato passeggero, quello sinistro, dell'amico che farà fare manovra al driver (I improve my english!!!). Fin qui niente, o quasi, da eccepire, se non fosse che lo spazio in cui la macchina dovrà essere lasciata è lo stesso che c'è tra Fontana di Trevi di Roma e la Rinascente di Milano. Il guidatore fa un primo tentativo: ingrana la retromarcia (e il trac della mancata pressione sulla frizione fa muovere l'ago del rilevatore sismico del Gran Sasso), si gira come se avesse il torcicollo cronico e va indietro, piano piano; l'amico nel frattempo ha già assunto l'aria seriosa di chi nella faccenda ha un ruolo fondamentale, pare che stia assistendo ad un parto. Comunque, al primo tentativo la macchina si trova ad una distanza di, giuro, due metri e ottanta centimertri dal marciapiede.
No, bisogna riprovare. Il guidatore mette la prima e va talmente lontano che per un po' penso che tutta sta tiritera l'abbia fatta per abbandonare il conoscente in mezzo alla strada. Invece si ferma e reingrana la retro. Stavolta il rumore è più cortese, lo sente solo il meccanico che sta dall'altra parte della strada, il quale mette in preallarme il proprio operaio, non si sa mai, "questi tra un po' hanno bisogno di noi...". Il secondo tentativo è ancora più comico: il guidatore riesce a tamponare la macchina che sta dietro, che per intenderci si trova in un'altra via, e con google maps devi cambiare pagina per trovarla. Capite? L'amico apprensivo riesce a far tamponare la macchina che sta dietro. Due laureati in Astrofisica.
L'aver "tamponato la macchina che sta dietro" in Inghilterra significa, adesso lo so, che devi ricominciare daccapo. E il guidatore rimette la prima ed esce dallo spazio. Gli basterebbe mettere sì la prima, ma andare avanti e la macchina sarebbe bella che posteggiata, ma c'è la regola dell'"aver tamponato la macchina che sta dietro", non si può mica barare a questo gioco...
Io mi accorgo solo adesso che ho la bocca aperta, e anche un po' di bava che mi riga verticalmente il viso dall'angolo della bocca alla punta del mento.
Che fare? Intervenire con un sorriso e dire al guidatore:"Ok, dai, scendi che per sto giro la macchina te la posteggio io"? Mandare una mail a Bernie Ecclestone chiedendogli vivamente di revocare il titolo mondiale di Formula 1 1996 di Demon Hill in quanto figlio della Terra di Albione? Gridare e piangere?
Niente di tutto ciò. Nella vita si sa, le situazioni entropiche hanno paradossalmente un fine naturale, e non per forza noi dobbiamo stare lì a controllare che tutto avvenga secondo i canoni stabliti. Sicchè rienro a casa, prima o poi, penso, i due riusciranno nell'impresa.
Dopo dieci minuti esco nuovamente, e noto che la macchina dei due sta lì, col muso un metro dentro la carreggiata, e la ruota posteriore sinistra col battistrada ben piantato sul marciapiede...
Quasi lo vedo, avvilito e scostato, il povero poeta Morrissey che, con aria sconfitta, canta soavemente il suo verso:"Park the car at the side of the road".

mercoledì 10 novembre 2010

Il Capitano Zoltan

Zoltan ti da sicurezza, la cosa è insindacabile. Zoltan protegge la casa con la sua sola presenza. Zoltan ti guarda e ti fa capire che ci sono uomini che riescono ad inventarsi dal nulla nella vita. Zoltan è uno di questi.
Zoltan è il Manager dell'ostello in cui vivo
(sì, vivo in un ostello, qualcosa che non va? Ho scelto di vivere qui perchè mi ci sento a casa, non devo mica dar conto a te! No, siccome mi guardi in quel modo neanche vivessi in una casa per appuntamenti. Vivo in un ostello e la cosa sta bene a me e non deve di certo interessarti, quindi smettila di fare quella faccia di culo. C'è chi si cerca una stanza, chi vuole la propria privacy, chi non ammetterebbe mai la presenza di un altro culo nel proprio bagno e poi ci sono io che preferisco stare qui in un ostello. Quindi voltati e vai per la tua strada prima che ti arrivi un malrovescio)*.

Dicevo che Zoltan è il manager dell'ostello in cui vivo, e tutto il suo mondo sembra che basti a se stesso. Impari tanto da Zoltan se vuoi. Lui è un gran lavoratore; è arrivato qui in Inghilterra dall'Ungheria, o dalla Serbia, o dalla Croazia, e ha cominciato passando uno straccio per terra. Poi ha scalato umilmente la graduatoria degli uomini comuni e ha detto ad un paio di suoi amici: "Adesso qui comando io, venite a lavorare qui". Zoltan è come un boss mafioso al contrario. Zoltan ti fa ridere, ti racconta le barzellette e tu ridi anche se non le capisci. Zoltan è grande e grosso, pare che prima della guerra nei Balcani facesse parte della squadra di arti marziali dell'esercito yugoslavo; e allora la sua corporatura la mette al servizio dell'umanità, novello supereroe. Qualche giorno fa un colored infinito e dall'aspetto cattivissimo è entrato in ostello mentre noi stavamo facendo una cosa importantissima, stavamo giocando alla PlayStation. Il malcapitato ha biascicato un saluto veloce ed incomprensibile, dopodichè ha urlato ad alta voce:"Di chi è la Opel Corsa Rossa che intralcia il mio passaggio???". Zoltan lo ha guardato, gli ha intimato un "good afternoon, can I help you", e gli si è avvicinato mettendo il proprio naso ad un centimetro da quello dell'uomo nero. Quindi gli ha spiegato che non si entra in casa d'altri senza aver fatto i dovuti saluti; poi, con aria minacciosa, ha detto:"Nessuna Red Corsa qui, te ne puoi andare". Aveste dovuto vedere il graduale rimpiccolirsi del colored, e il suo incedere gamberescamente, e con la coda tra le gambe per di più.
Guarda i muscoli del capitano, in che modo avvolgono la persona straordinaria che è Zoltan, che quando lavora diventa serissimo, e non c'è modo alcuno di scherzarci sù. Perchè lui ti guarda come il Maestro Perboni, con l'aria grave ma solenne di chi sa come dividere la vita in compartimenti stagni, pur mantenendola dolce e divertente. Io a volte sto lì a guardarlo, seduto, con i gomiti appoggiati al tavolo e i palmi attaccati con la colla alla mie guancie, come un bimbo guarda i cartoon. Con la consapevolezza che da un momento all'altro Zoltan possa dire a tutti gli avventori dell'ostello:"Ragazzi oggi si mangia pesce, non voglio sentire storie!!!".
Zoltan è un factotum; si rompe un tubo dell'acqua? C'è Zoltan. Bisogna smontare e pulire la cucina? Idem con patate. Qualche ragazza ha perso un orecchino da un micrometro? Novello Commissario Gadget, Zoltan compie il miracolo della materializzazione di una lente di ingrandimento e trova l'oggetto smarrito.
E' riuscito anche in un altro grande intento, il Capitano Zoltan. Quando sono venuti i suoi figli a trovarlo, eravamo seduti attorno al bancone della common room; io e lui stavamo sulla sinistra, i ragazzini stavano dall'altra parte. Come ogni giorno, ad ogni momento, in qualunque circostanza qui in Inghilterra, ho chiesto a Zoltan:"How are you, Zoltan?". Lui mi ha indicato con lo sguardo i ragazzi, e mi ha detto in due parole un'infinità di cose:"Now, fine". Capite? Queste frasi di circostanza qui non vogliono dire un cazzo, chissenefrega di come sto, te lo dico perchè così vuole la formalità; Zoltan il Sovvertitore invece ha finalmente dato un senso anche a ciò.
Zoltan è uno che quando finirai i tuoi giorni, e starai seduto su una sdraio, e quacuno farà finta di ascoltare le tue storie, ti farà pensare che la vita va vissuta anche perchè incontri la Genuinità che diventa Tutto in una persona; che non c'è poi molto da fare se non osservare come stare costantemente alla ricerca della perfezione nei comportamenti. E che diavolo vuoi che importi se sta benedetta perfezione non arriva, tanto domani ci si alza di nuovo, e Zoltan sarà lì, con la sua imponente benevola presenza, a ricordarti che con il suo aiuto ce la puoi fare anche tu.

Zoltan ha quaranta anni, quattro più di me. Zoltan ha quattro figli, quattro più di me.


*La parte tra parentesi si ispira liberamente ad un psso di Bastogne di Enrico Brizzi, forse il libro più bello della mia vita.

sabato 6 novembre 2010

Chisto è 'o paese do' Sorry

Immaginate la scena... Catania, Via Etnea, ore cinque del pomeriggio, tanta gente, e voi state camminando, o passeggiando chissà per quale remoto motivo; ad un certo punto, nella foga, per distrazione, per aver salutato un amico, per aver guardato una bella ragazza, perdete di vista la strada di fronte a voi e accidentalmente urtate un pedone che cammina verso di voi. Che fare? Non so voi, ma io, per una questione di istinto, faccio una cosa semplicissima. Dico:"Oh scusa!!!". Dall'altra parte le possibilità sono molteplici; lui (o lei), cioè la vittima passiva della sbadataggine, può far finta di niente, può dire un sentito o neanche tanto accorato "prego", può prendere spunto per una rissa seduta stante...insomma, ci siamo capiti, no!!!
Immaginate ancora, la stessa scena a Milano (vi prego di non farmi dilungare, diventerei pedante). Al vostro "scusa", la risposta è ancora più istinitva:"prego". E' quasi una quesione matematica, come fare due-più-due, scusa-prego, scusa-prego. Scusate- prego!
Oh Inghilterra, si sa, da quando Roma ha abbandonato le tue terre sei diventata, a poco a poco sia chiaro, il paese della gente Very Polite. L'educazione non è importante qui, è basilare...
Ma c'è una cosa che tutt'ora non riesco proprio a spiegarmi.
Immaginate la stessa scena di cui sopra a New Street, la Main Street di Birmingham (omolaga di New Street, per intenderci è Spaccanapoli, o ancora Corso Sempione, la bella e impossibile succitata Via Etnea, Fifth Avenue etc etc); la giornata promette bene, c'è il sole, le nuvole non sono numerose, magari è sabato mattina, le sbornie sono state smaltite, insomma, c'è, come diciamo noi della provincia mediterranea, buddellu... State camminando col vostro bel carico di pensieri solitari, che non fa mai male, state cercando di capire se quel tipo coi capelli rosa ha trentasei anni o ne ha settantadue, state facendo un riassunto delle puntate precedenti, state ricapitolando a memoria la vostra lista della spesa, state rammaricandovi per il fatto che è sabato mattina e nel pomeriggio, fino a tarda sera lavorerete mentre gli altri si andranno a diverire, state pensando, ad ogni modo, ai cazzi vostri. Ad un certo punto, commettete un errore: urtate involontariamente e con una noncuranza degna di cotanta mortificazione, un/una passante che non avete visto. Dopo "howe are you?", "Where are you come from" e "I'll see you later", la quarta frase di senso compiuto che avete imparato in inglese è "Sorry", fondamentale, e non abbiate paura dell'apparente assenza della forma verbale, dentro quella parola c'è tutto un mondo, ed è lì che è arrivato il momento di usarla. "Oh, i'm so sorry!!!" è ciò che va detto all'incolpevole individuo che ha avuto a che fare con la vostra maledetta spalla. Fin qui tutto normale, tutto dentro una sorta di panoplia che serve tanto ad uno straniero in England. Ma ecco che accade l'incredibile; sapete cosa risponde un inglese al vostro "sorry"? Risponde con altrettanto "Sorry"!!! E' inutile che vi guardate attorno per sapere se c'è un'eco strana, se vi trovate al chiuso, se c'è qualche buontempone che vi sta facendo il verso da dietro; è assolutamente inultile che cerchiate di capacitarvi di sto fatto. E' perfettamente normale, al vostro "sorry" corrisponde un "sorry", come se ci fosse una proprietà riflessiva che non avete scorto affissa su un muro al vostro arrivo a Heatrow; un "sorry" grande e sentito e accorto, quasi recitato, come uno specchio appena lucidato; "sorry" dite voi, che state dentro un lago ghiacciato di colpe per avere voi urtato il malcapitato, "sorry" vi risponde lui/lei come se, novello o novella Messia, volesse prendere su di sè i mali che vi contraddistinguono dalla vostra nascita...
Sconvolgimenti cosmici accadono in Inghilterra, laddove le vostre colpe diventano inspiegabilmente colpe altrui, dove si possono trovare motivi per sentirsi sempre più parte di un mondo multicolore, dove...però, checcazzo, se ti urto e ti chiedo scusa, non puoi chiedermi scusa altrettanto!!!

martedì 2 novembre 2010

Il Mistero della Calza Lunga

Siciliano a Birmingham, da solo. Una vita (quasi) passata a casa dei genitori. Un Bamboccione, come avrebbe detto un ex Ministro della Repubblica. A proposito, mi piace pensare che Padoa Schioppa sia tornato a vivere con i suoi. Comunque, non è di ex titolari di dicasteri che si occupa questo blog, ma di me medesimo; e come dicevo, faccio parte, o meglio, ho fatto parte della schiera degli individui che aveva tutto a casa. Il letto ben riscaldato, la stanza accessoriata con tanto di Play Station per memorabili tornei senza fine, pc (pardon, laptop), libri...e poi ancora tv, pay tv, recorder tv; la notte mi veniva fame? Niente paura, salto in cucina e via con la più anelata delle zuppe latte-e-biscotti, rigorosamente tarallucci, rigorosamente Mulino Bianco, mica quei surrogati da supermarket sottomarca. Insomma, ho sempre avuto la possibilità di disporre di tutte ste cagate offerte da una vita che ti fa credere di avere tutto. Ma c'è una cosa che da un certo punto della mia vita in poi ha preso un posto primario tra le mie priorità: la calza lunga. Deve irrimediabilmente toccare la rotula, o quanto meno la deve baciare. Deve avvolgere i miei polpacci con l'Amore morboso di Saffo, deve ballare guancia-a-guancia con i miei stinchi con lo stesso ardore che Al Pacino mette in Sent of a woman. Deve stringere, la mia anelata calza lunga, deve dettare legge, deve fare capire alla gamba intera chi è che comanda la baracca... L'Inghilterra è un posto meraviglioso, mi ha ridato una vita; certo mi ha tolto qualche comodità che magari col tempo riconquisterò, ma...ma si può sapere dove vendono le calze lunghe?
Esco di casa, magari di mattina, percorro Coventry Street, e mi dirigo verso l'immenso Bullring, centro commerciale che abbraccia mezza City Center. Niente da fare, in nessun negozio del sito si trovano calze lunghe. Non mi dilungo, non chiedo a commessa alcuna. A pochi passi da me c'è New Street, il famosissimo Primark, immenso store very popular, mi aspetta, col suo carico di mediorentali e indiani e cinesi e indigeni a cui piace fare un po' di risparmio...mi dirigo senza fronzoli verso il reparto calze, che si trova davanti alle casse. Ne esco una dal suo vano, la misuro a occhio:"questa su per giù mi arriva a mezzo polpaccio". Allora getto un'occhiata per niente british verso la cassiera che mi chiede subito se ho bisogno di un aiuto. E certo che ho bisogno di aiuto, le vorrei dire, dove cazzo le tenete le calze lunghe, nel caveau del Lloyd? Lei mi dice che quelle che ho in mano sono very long socks... Capisco che non ci sono vie di fuga da questo incubo, però non demordo; mi alzo il jean's fino al ginocchio e faccio vedere la mia Pierre Cardin d'autore con l'elastico innegabilmente attaccato al suddetto. "come queste" dico alla rincoglionita (quando ci vuole ci vuole- non pensate?). Lei guarda la mia calza come Drew Barrimore guardò ET al ventesimo minuto del film. Mi metto il cuore in pace e raggiungo in successione altri quattro grandi, anzi grandissimi, negozi del centro della seconda città dell'Impero. Niente da fare. Forse dovrei andare in Scozia, lì gli uomini indossano il Kilt, giuro. E sotto si vedono sti bei gambaletti bleu... Non divaghiamo, adesso la situazione si è fatta veramente pesante. Devo trovare la mia Famigerata Calza Lunga, è una questione di sopravvivenza in questo mondo ostile. Anche perchè dando contezza delle mie difficoltà, i miei colleghi a lavoro non mi sono di aiuto. "Cosa indossi a fare calze lunghe, le vere calze da uomini sono queste" mi dicono gli Chef algerini in cucina, mostrandomi queste mezze calzette che arrivano sì e no a corpire la caviglia. Andiamo bene, penso, sto cercando come un dannato un oggetto che mi rende una mammola agli occhi della gente. Ma ne ho bisogno, cazzo, eccome se ne ho bisogno! Anche a casa, la piccola Steffi, con la quale saltuariamente divido la stanza, mi dice:"Tu cerchi calze lunghe da uomo?", come se mi stesse dicendo:"tu cerchi smalto per le unghie da uomo?". A questo punto mi guardo intorno, cerco negli anfratti nascosti dei luoghi che abitualmente frequento qui a Birmingham; magari trovo qualche telecamera nascosta e mi rendo conto di essere vittima di qualche scherzo globale. Mi sembra di essere in un mondo fantasioso più che fantastico, in cui tutti i valori sono stati sovvertiti. Forse è Dio che vuol mettermi alla prova...chissà.
Ma la soluzione devo trovarla; devo liberarmi dal mio incubo e nello stesso tempo dal mio stato di figlio di famiglia che non sa cavarsela da solo. Cos'è il genio? Si diceva nell'immenso Amici Miei. E' fantasia, intiuzione, decisione e rapidità di esecuzione, si rispondeva. Niente paura caro Fabio, la sfanghi anche qui. Basta andare da SportDirect, andare al reparto articoli sportivi, dare un'occhiata di sfuggita alle maglie da calcio che non fa mai male, e comprare quattro o cinque paia di football socks; già, calzettoni da calciatori, che se li allunghi arrivano a metà femore. Così provi la grande soddisfazione di doverteli arrotolare.
Ed ecco che ho risolto due problemi: liberarmi dello stato di Bamboccione, e coprire la mia gamba fino al ginocchio, facendo finta che non sia vero che questa città, a volte, provi con me ad essere un po' ostile.

martedì 26 ottobre 2010

Armirn e Harron

Armrin è incredibilmente buono. Incredibilmente perchè pare incredibile che un iraniano sia buono. E' gentile, si fa in quattro per aiutarmi, sembra quasi essere felice di essere amico di un italiano. Gli iraniani...forse sono ancora convinti che Italia è sinonimo di qualcosa di cool. Ma non erano quelli di Ahmadinejad? Armrin è diventato matto di felicità il giorno in cui ho scritto sul mio profilo che lui è il mio novo migliore amico; sembra quasi che abbia telefonato a casa e abbia dato la buona novella.
Harron è incazzoso! Ti si presenta, ti stringe la mano, ti guarda dritto negli occhi, ti ripete il suo nome, chè col cazzo che te lo dimentichi, ed è incazzoso. Cucina (benissimo), prende le padelle, le sbatte, ne fa saltare il contenuto con violenza, ed è incazzoso. Perfino quando fa le battute spiritose, quando ride o sorride, quando armeggia col suo i-phone e ascolta la sua musica è incazzoso. Harron, forse ha tutti i motivi di esserre incazzoso: è Afghano.
Armrin e Harron, mentre il sottoscritto è impegnatissimo a scicquare padelle e a inserire piatti di tutti i formati nella washing machine, parlano tra di loro in persiano. Sento qualcosa di familiare nel loro accento; ho l'impressione che da un momento all'altro possa uscire dalla loro bocca qualcosa di estremamente familiare come "ci iemu a taommina" o un concitato "a cchi spacchiu rici!!!", invece non succede, e raramente penso sia un'occasione mancata, e il più delle volte dico a me stesso che si tratta di una vera e propria fortuna.
Armrin e Harron, poi, quando arriva il momento e devono fare il loro dovere, ciò per cui sono pagati, cioè cucinare, dialogano a distanza e si scambiano informazioni sui piatti che devono preparare; e siccome il ristorante per il quale lavoriamo è italiano, ecco che si cimentano in contorsionismmi lessicali come " piza maragarita", " garbonara com gambereti", o " piza fiorencina". Che poi, che cazzo è sta pizza fiorentina? Io conoscevo la bistecca alla fiorentina, ma la pizza non l'avevo mai sentita... Sarà.
Ma il più delle volte, i due parlano in inglese, e il loro è un accento inconfondibile. Sembra ascoltare due Borat in Birmingham; totale assenza di forme contratte, accento cadenzato, quasi dinoccolato.
Eppure sono grato alla lingua inglese, che, sia chiaro, i due parlano nettamente meglio di me, perchè con un po' di fortuna mi mette nelle condizioni di capire che tutte le idee che hanno tentato di mettermi in testa sui paesi dei due succitati sono preconcette e senza fondamento. Mi fa bene stare qui: comprendo sempre di più l'idea che le persone mangiano esattamente come me, ridono esattamente come me, guardano i culi delle ragazze esattamente come me...col sorriso e la gentilezza di un uomo incredibilemente buono come Armrin l'Iraniano, o con l'incazzatura perenne del piccolo grande uomo Harron, from Afghanistan...

venerdì 22 ottobre 2010

Un mese di Inghilterra

In un mese di inghilterra sono successe le seguenti cose:
ho trovato lavoro
il mio capo è albanese
i cuochi sono tutti africani e asiatici (eppure il ristorante è italiano)
ho cambiato 5 letti
ho comprato una sim inglese
mi sono ammalato una volta
ho guardato il Catania da internet
Simon, il mio amico svedese, continua a guardare tutti di tre quarti
ho perso solo una partita alla PlayStation (per la cronaca ai rigori)
uso regolarmente una bicicletta
ho aperto un conto alla Banca Barclays (quella della Premier League)
ho conosciuto, come ogni volta qui, centinaia di persone
mi sono innamorato almeno tre volte
ho scambiato lo sguardo con poche ragazze inglesi (sono dure, ma ci riuscirò)
ho insaccato una quantità industriale di freddo
ho un codice fiscale inglese, così me la spacchìo un po'
ho comprato un libro sugli Smiths
ho cominciato ad indossare un cappello buffissimo
ho vinto una partita al poker texano
mi sono convinto sempre di più che i ragazzi francesi sono antipatici
mi sarò fatto tre pugnette!!!
e adesso mi faccio un thè... alla prossima

venerdì 23 aprile 2010

La partita più bella della storia

Quando avevo 15 anni ero un po' critico nei confronti di mio padre. Lui non mi faceva mancare niente, avevamo una villa grande, spaziosa, piena di comforts; io vivevo in una stanza che era grande quanto la casa di alcuni miei compagni di classe, e mia sorella, nella sua, ci faceva dei pomeriggi con le amiche che sembravano dei parties esclusivi. "Vuoi la moto?" mi chiedeva il genitore con l'aria premurosa, e la moto ottenevo, così come la gran parte degli aggeggi che si anelano a quell'età. Il fatto, però, era che mio padre, per mantenere la sua famiglia, e quindi anche me, faceva un lavoro poco...come dire, etico. Vendeva armi. Le vendeva a tutti, non faceva distinzioni; e io, che come tutti i quindicenni pensavo di poter cambiare il Mondo col mio solo ardore , protestavo. Gli dicevo:"come puoi, papà, dormire la notte, sapendo di vendere degli strumenti di morte?". Lui, serafico, con in mano l'occorrente per il barbecue, mi diceva con fare calmo:"Cresci un altro po', figlio mio. Vedrai che la vita ti farà capire che ci sono zone grigie dentro le quali passiamo quasi tutto il nostro tempo e dentro le quali operiamo. E allora capirai che per la nostra sopravvivenza, e per quella dei nostri cari, il più delle volte dobbiamo mettere da parte quella che gli altri definiscono Coscienza". Io, di solito, a quelle parole rispondevo a tono, ma visto che lui, al mio torpiloquio, rispondeva con l'ennesimo sorriso, e poi, rivolto a mia madre urlava con garbo:"Cara, dov'è la carbonella???", preferivo tornare in giardino a dare due calci al pallone.
Già, il pallone, il calcio, la mia esistenza già da molto tempo prima che prendessi cognizione del lavoro di mio padre. Ero bravo, anzi bravissimo, e fu così che il calcio divenne la mia vita. Approdai tra i professionisti all'età di 18 anni, e già a 22 ero titolare nello Sporting, la prima squadra della città di mia moglie. Ho giocato anche in Nazionale, ho fatto i Campionati Europei, ed è stato fantastico vestire la maglia azzurra...
Domenica scorsa, non ancora ventinovenne, ho deciso di lasciare il mondo del calcio; e l'ho deciso nonostante abbia ancora due anni di contratto, e per questo il mio procuratore mi ha già citato in giudizio, e nonostante l'interessamento del Real Madrid. Ho preferito me stesso.
Era l'ultima di campionato, il mio Sporting contro il Firenze. A noi mancava un punto per la certezza matematica della permanenza in serie A, a loro mancava un punto per la sicurezza di disputare, la prossima stagione, l'importantissima Champion's League. Il mercoledi precedente, dopo uno sfiancante doppio allenamento, il nostro capitano, Gianluigi Amodio, classe 1979, venne convocato in sede dal Presidentissimo Dottor Giacomo Maglie. Noi componenti la squadra fummo invitati dallo staff a rimanere al centro sportivo in quanto, alla fine del colloquio, lo stesso capitano ci avrebbe dato contezza di alcune disposizioni "presidenziali". Al suo ritorno, Giangi, lo chiamiamo tutti così, non sembrò nè esterrefatto, nè in alcun modo sorpreso. Tutto nella norma, sembrò dirci con lo sguardo. E infatti, le parole che profferì alla squadra furono proprio queste:"Ragazzi, il Presidente ha parlato con il loro Direttore Generale. Un punto noi, un punto loro, e siamo tutti felici". "Ottimo" disse subito Cesare Raffa, il nostro centrocampista più in forma, arrivato a gennaio. Io pensai subito di obiettare che con i tre punti avremmo superato il record storico ottenuto dalla nostra squadra in 77 anni di storia in serie A, ma, forse perchè dopo due sedute di allenamento si è tutti molto stanchi e desiderosi di riposo, o forse perchè la notizia era nell'aria, tutti i gicatori cercarono lo sguardo del Mister chiedendo malcelatamente di andare a casa.
Il sabato precedente la partita, nella lobby dell'hotel in cui solitamente facciamo il ritiro pre-gara, molti dei titolari parlarono senza ritegno di come, dopo scambi di sms con i nostri avversari, si sarebbero dovute svolgere le cose. "Passano in vantaggio loro con Alemao Lima che deve vincere la classifica dei cannonieri, poi mettiamo a ferro e fuoco la porta avversaria con tiri da lontano, così Benedetti fa tre-quattro parate e il CT lo porta al Mondiale. A cinque minuti dalla fine loro sbaglieranno un fuorigioco, noi pareggiamo e lo stadio viene giù. Tutti contenti e arrivederci all'anno prossimo". "Perchè non fai goal tu?" mi chiese l'allenatore, "a Madrid sarebbero contenti, visto che ormai ci saluti e vai laggiù, a vestire la maglia Blanca". "Chissà" risposi, e tornai in camera, dove Gianluca Lo Piccolo, il nostro infaticabile fluidificante stava leggendo D. H. Lawrence.
La domenica a pranzo mangiai cinque tortellini, e spiluccai tre fogliette di lattuga romana. Declinai l'invito ad assaggiare la crostata del nostro cuoco Michele, crostata della quale sono sempre stato ghiotto, e tornai a chiudermi in camera in attesa della chiamata per salire sul pullman. Quando arrivammo allo stadio, con una scusa, evitai di fare il solito giro di campo in abiti borghesi. Avevo l'idea di evitare qualsiasi sguardo. Il mio atteggiamento fu così misterioso che ad un certo punto pensai che l'allenatore, temendo una mia insubordinazione, potesse scegliere di non farmi giocare. Ma già sul pullman Mister Ranovic, il Serbo di Ferro, aveva comunicato l'undici che sarebbe sceso in campo, e io ero nella lista. Quando l'arbitro venne nel nostro spogliatoio, alla fine del riconoscimento che si fa pro-forma prima di ogni incontro, ci fece un discorso sull'osservanza delle regole non scritte di lealtà sportiva. Ranovic lo interruppe dicendogli che la sua squadra non aveva bisogno di certi suggerimenti, e lo fulminò con lo sguardo. Poi guardò me, e i suoi occhi sorrisero. La squadra si mosse, ed uscendo dallo spogliatoio, Mirco Matrignani, il nostro Bomber, incitò ognuno di noi con urla, sproni, sollecitazioni. Mi allungò anche la mano in attesa di un "batti cinque", ma io feci finta di non vederlo...

Schierati sul cerchio del tappeto verde, da bambino daresti il braccio di qualcuno che conosci per poter fare sfoggio della tua persona al centro di un campo di serie A. Fischio dell'arbitro, saluto al pubblico. E' maggio, fa caldo. Stretta di mano ad ognuno degli avversari che, in qualità di ospiti, ti devono sfilare davanti con la mano tesa. Non incroci gli occhi di nessuno. Foto di rito. Allunghi lo sguardo solo verso la tribuna dove speri che non ti stiano guardando tua moglie e tuo figlio Roberto, cinque anni, maglia del papà, sorriso fiero... Oh merda!

La partita cominciò e per dieci minuti solo il canto della curva e il sordo "pum" delle scarpette sul pallone di noi giocatori spezzarono il silenzio di quel primo pomeriggio di maggio inoltrato. Poi Alemao Lima prese il pallone sul vertice dell'area di rigore, lo passò ad Abelardo Vasquez, lo spagnolo venuto in Italia a finire la carriera, e si propose per il passaggio di ritorno. Zinho, il nostro difensore brasiliano, restò indeciso se intervenire anticipando il connazionale che stava involandosi verso la porta, o buttarsi sullo spagnolo per evitare che il suo pallone raggiungesse l'obiettivo. L'indecisione, calcolata, fu fatale. Alemao Lima colpì malissimo la sfera dopo il passaggio che chiuse il triangolo; Cristiano De Paola, il nostro portierone, restò in piedi, mentre il pallone, piano piano, ballonzolante, superava la linea di porta e finiva la sua flebile corsa tra le maglie della rete. Tutto previsto, il Firenze in vantaggio, adesso toccava a noi. L'esultanza dell'attaccante brasliano fu però assai particolare. Dietro la porta di De Paola c'era la "nostra" curva, eppure Alemao fece pugnetto proprio verso quella parte di stadio, dimostrando una mancanza di tatto senza precedenti; poi, voltandosi, schiaffeggiò l'aria di rovescio, come a voler mandare i "terribili diecimila" a quel paese, quindi fece capolino con lo sguardo sul sottoscritto, i suoi occhi produssero un sorriso befardo, di superiorità; quindi, col suo accento brasileiro, passandomi accanto, disse:"Sfigaji!".
Io ero mortificato e affranto, provavo un'intima disapprovazione,mentre quasi tutti i miei compagni di squadra facevano finta, eppure non dissi niente. Raggiunsi il centro del campo come si fa dalla notte dei tempi del calcio quando si subisce un goal. Anche il pubblico, però, mi sembrò aver preso coscienza che c'era qualcosa di strano in quella situazione. Ci mancava un punto per salvarci, stavamo perdendo l'ultima di campionato, eppure non si rumoreggiò, non si fischiò, non si incitò la squadra. C'era solo silenzio. E dire che il gesto del brasialiano era stato palese, visibile a tutti con chiarezza. Questa situazione mi mise dentro un'angoscia che fece presto a trasformarsi in rabbia. Ma fu una rabbia, almeno in quel momento, silenziosa, morale, solo e soltanto mia.
Sei minuti più tardi, Lo Piccolo fece fuori in dribbing due avversari, e dalla tre-quarti fece partire un cross teso e fendente. Teso e fendente se non fosse stato per la deviazione di Latorre, mio concittadino, ormai bandiera del Firenze. Latorre e io siamo praticamente cresciuti insieme, frequentavamo lo stesso oratorio salesiano; ma lui andava all'Istituto Tecnico Industriale, io invece al Liceo Classico. Suo padre era un conducente di autobus di linea. Quando gli emissari del Torino chiesero ai genitori di Latorre di poterlo portare in Piemonte, avevamo entrambi 13 anni. Io non dormii per tre settimane, tanto fui colto da un'invidia lancinante. Naturalmente, nonostante i pianti della Signora Latorre che mai avrebbe voluto disfarsi del figlioletto ad una così tenera età, la decisione fu positiva, e il piccolo si trasferì subito nella città della Mole. In seguito Latorre passò al Firenze come merce di scambio nel clamoroso affare che portò a Torino l'attaccante rumeno Gaev. Oggi Gaev non gioca più a calcio e in pochi lo ricordano, Latorre, mediano infaticabile, fascia di capitano bianca su maglia viola, è la storia del Firenze. Potenza di uno sport talmente somigliante alla vita da apparire, a volte, quasi innaturale. Il cross di Lo Piccolo, deviato da Latorre, fece prendere al pallone una traiettoria a campanile, come dicono i giornalisti vecchio stampo. Il Sole mi accecò per un attimo, stavo seguendo con gli occhi la sfera che a piombo veniva dall'alto verso di me; non uno dei miei avversari fece il gesto di venire a contrastarmi, d'altra parte eravamo ad un trentina di metri da Benedetti. Certi ragionamenti vengono fatti in una frazione di secondo, e in molti li confondono con la genialità. Penso di aver chiuso gli occhi in quel momento, e mi affidai completamente all'istinto. Colpii la palla col collo del piede e la accompagnai con una tale potenza da sentire il cuoio della sfera anche sul malleolo esterno. Benedetti vide partire il tiro, ebbe anche il tempo di sistemarsi la visiera del cappellino, addirittura di fare due passi verso la sua sinistra... Il pallone picchiò durissimo sul palo, nell'ultima parte prima che lo stesso incontra la traversa, con una velocità indicibile andò a sbattere sull'altro palo, e infine si insaccò al centro della porta. Uno a uno. Il mio settimo goal in campionato fu accolto da un silenzio che non credo sarò mai in grado di descrivere. Io corsi come un matto verso i diecimila della curva, e solo in quel momento i miei compagni cercarono di raggiungermi per festeggiarmi. Non l'ho mai fatto, ma in quell'occasione mi permisi un vezzo che ho sempre ritenuto stupido: mi tolsi la maglia e la sventolai in onore dei miei tifosi. Naturalmente l'arbitro, per tutta risposta mi mostrò il cartellino giallo. Ero in diffida, all'inizio dell'anno successivo sarei stato squalificato, ma pensai che la cosa mi importava pochino. Mentre riindossavo la maglia guardai Alemao Lima; stavolta i suoi occhi esprimevano preghiera, compassione, mi chiedevano di non fare altri scherzi. Grazie a Dio arrivai anche a capire l'ulteriore beffa che si stava perpetrando ai danni dello sport, dei tifosi. L'Under, cioè la somma dei goal sotto i tre in tutta la gara, era quotato da quasi tutte le agenzie di scommesse a due e venti. Evidentemente le due squadre avevano anche scommesso, attraverso vie truffaldine, sull'andamento dell'incontro.
Un minuto dopo, rubai palla, feci finta di passare a Matrignani, sfruttai un'indecisione difensiva avversaria, ed entrai nell'area di rigore. Tirai con tutta la mia forza, ma Benedetti respinse il pallone con i piedi. Il pubblico applaudì, i miei compagni, furbi, si rammaricarono per l'occasione persa; Benedetti mi fulminò con lo sguardo. Io contraccambiai. Era cominciata un'altra partita. Quella tra me e coloro che stavano sporcando il mio sport preferito.
Ma da quel momento per tutto il primo tempo, nessuno dei miei compagni mi passò un pallone, e di avversari pronti a marcarmi ce ne furono almeno due. Poco prima della fine della prima parte, Fiorenzo Tacchini, la nostra seconda punta, mise male il piede. Sentii "crac" da venti metri di distanza, poi le urla di dolore del povero Fiorenzo. I nostri medici entrarono in campo di corsa, e il Dottor Berni, non arrivò neanche dalle parti di Fiorenzo, che già faceva segno a Ranovic con l'indice destro che girava attorno al sinistro che bisognava cambiarlo. Rottura del tendine d'achille. Fiorenzo fuori in barella, applausi del pubblico, e Cox in campo. David Cox doveva farci fare il salto di qualità quando fu acquistato, ma non si è mai ambientato; e poi quando conobbe quella ragazza, e successivamente fu scoperto dalla moglie che tornò in Inghilterra con i due figli, la sua vita prese una bruttissima piega. Adesso poteva salvare per sommi capi la sua stagione, prima di fare ritorno a Sheffield con le pive nel sacco e senza una fondamentale convocazione per i mondiali di calcio. Cox era perfetto per quella partita. Non avrebbe segnato neanche a porta vuota. Troppo lento, troppo impacciato, troppo timido, troppo l'ombra di se stesso. Io non mi interessai di quella sostituzione; già da molto tempo prima che avvenisse sapevo che la mia partita, la partita che stavo giocando personalmente, era tutt'altra cosa rispetto a quella che gli altri stavano disputando sul campo. Nei minuti successivi ebbi altre due possibilità per fare goal. Un colpo di testa in tuffo, con annessa pedata in faccia di Latorre, fece la barba al palo; e a cinque minuti dalla fine del tempo, provai direttamente da calcio d'angolo. Benedetti dovette inarcarsi non poco per evitare di prendere una segnatura sotto l'incrocio dei pali. Ero convinto che non sarei rientrato dopo l'intervallo; Mister Ranovic mi aveva già intimato di indietreggiare di molto il mio raggio di azione. "Tieni d'occhio lo spagnolo!", aveva gridato più volte nei confronti del sottoscritto,"a segnare ci devono pensare gli altri". A tre minuti dall'intervallo, però accadde un altro fatto strano. Lo Piccolo ebbe uno scontro molto violento con Abelardo Vasquez, ma la sua onestà non lo fece rimanere a terra, si rialzò. Il pallone arrivò sui piedi di Valerio Corsi, il centrale di centrocampo del Firenze e della Nazionale, il quale verticalizzò subito per Alemao Lima. La nostra linea difensiva avanzò mettendo in fuorigioco il brasiliano, ma solo per tre quarti. Il povero Lo Piccolo stava appena rialzandosi e non fece in tempo ad avanzare con i suoi compagni di reparto; notai con certezza l'assistente dell'arbitro essere sul punto di alzare la bandierina per segnalare il fuorigioco, ma accorgersi della presenza sulla tre quarti campo del nostro fluidificante e cominciare a correre, facendo segno che tutto era regolare e che l'azione poteva continuare. Quasi sbalordito, Alemao si involò verso la nostra porta. Solo. Senza ostacoli, con davanti il nostro De Paola. Il portiere, uscì dall'area di rigore, andando incontro al giocatore avversario. Solo io mi accorsi che la punta brasiliana calciò fortissimo il pallone per superare in dribbling il portiere sì, ma con l'intento di fare sfilare la sfera a bordo campo. Il destino, domenica scorsa, volle però avere un ruolo importante nello svolgimento dei fatti. La palla, infatti, calciata con quella veemenza, andò a picchiare sulla mano sinistra di De Paola, che si era appena portato fuori dall'area di rigore. Raffa, l'unico nostro uomo che aveva seguito l'azione, arrivò sul pallone scagliandolo via. Ma l'arbitro si stava già portando sul punto dove era accaduto il tutto, e stava mettendo la mano dentro il taschino, e di lì a poco avrebbe estratto il cartellino rosso nei confronti di De Paola, reo di aver toccato con la mano il pallone al di fuori dell'area di rigore. Alemao Lima, dal canto suo, sembrò voler spiegare al direttore di gara che non c'era bisogno di espellere il nostro portiere. Fu un momento quasi comico. Io feci fatica a sopprimere un moto di ilarità. Ranovic era furibondo. Abbaiò a Otto Glattauer, il secondo portiere austriaco, che i maligni indicano tutt'oggi come l'amante della figlia del nostro Mister, di infilare i guanti e di entrare subito al posto di Matrignani. A cambio avvenuto, il pubblico rumoreggiò solo un po'. Usciva il nostro capocannoniere, è vero, ma era altrettanto vero che Ranovic non poteva fare uscire dal campo il povero Cox che era appena entrato. Naturalmente la punizione del Firenze non ebbe esiti degni di nota, se si eccettua il fatto che per pararsi da un tiro volutamente sparato lontano dai pali, un giovane raccattapalle si lussò un gomito ed ebbe bisogno dello spray anestetizzante.

Intervallo. Corsi mi chiese di scambiare la maglia, mentre tornavamo negli spogliatoi, io mentii, dicendo che l'avevo già promessa ad un suo compagno in panchina. Camminai lento verso il serpentone che mi avrebbe portato nella pancia dello stadio, davanti al camerino dell'arbitro, davanti all'ufficio federale, davanti al laboratorio dell'antidoping, davanti allo spogliatoio degli ospiti, e finalmente dentro il nostro...
Ranovic mi accolse con aria inviperita. "Che cazzo stai facendo?" urlò. "La partita è tranquilla e tu la stai innervosendo". Sapevo che quelle parole avrebbero introdotto una mia sostituzione, quindi ero pronto a ribattere dicendo finalmente ciò che pensavo di lui e di tutti coloro che stavano facendo l'azione più sporca nel mondo del calcio: combinare un risultato. Ma prima che dicessi qualcosa, Lo Piccolo, paonazzo e sofferente, disse all'allenatore:"Mister, io non ce la faccio a rientrare". Ranovic guardò il nostro terzino con un'aria imperscrutabile, poi ringhiò qualcosa al Dottor Berni, il quale non si curò minimamente di ciò che stava dicendo il Mister; anzi, indaffaratissimo, disse una serie di parole che riguardavano lo stato di salute di Lo Piccolo, e tra queste aggiunse "ambulanza". Significava che Gianluca doveva andare in ospedale subito per degli accertammenti; significava che Ranovic doveva sostituire Lo Piccolo. Significava che io rimanevo in campo perchè le tre sostituzioni a disposizione erano definitivamente esaurite. Mi dispiacque tantissimo per Gianluca, ma quella notizia mi entusiasmò. Guardai Ranovic, lo guardai e basta. Poi andai a fare una doccia, c'era troppo caldo, e avevo bisogno di far cadere su di me tanta acqua fredda per permettere alla mia circolazione sanguigna di ravvivarsi.
Al posto di Lo Piccolo entrò il diciottenne Mario Guerra. Fu l'ultimo ad uscire dallo spogliatoio prima di me; notai i suoi occhi lucidi, la sua forte emozione era palese anche per via della camminata impacciata. Non gli si poteva dar torto, visto che sarebbe stata la sua prima apparizione in serie A. Aveva già giocato in Coppa Italia, ma in quella partita, contro il Genzano, squadra di seconda divisione, i giovani della Primavera ad esordire erano stati sei. Adesso poteva finalmente giocare, farsi vedere in campo dalla mamma e dal papà, allo stadio con i biglietti che la società ha sempre regalato ai parenti dei giocatori che vengono convocati in prima squadra. In quel momento avrei voluto spiegare al piccolo Mario che il gioco del pallone sa, spesso, essere una grande delusione. Ma preferii evitare.
Rientrai in campo.

Tutti ti guardano, forse perchè sei l'ultimo a riguadagnare il terreno di gioco. Eppure in quei momenti ti chiedi se c'è la possibilità che l'intero stadio sappia della combine, che gli spalti siano popolati da persone che per l'amore di rivedere i propri beniamini nell'elite della serie A, ti stiano chiedendo di non fare altri scherzi. "dai, che ti cambia, falla finita, prendiamoci questo punto così come viene e torniamo a casa".

Quando Amodio calciò il primo pallone del secondo tempo, se è possibile, il silenzio fu ancora più surreale rispetto a quello dei primi minuti dell'incontro. Avevo bisogno di dare una scossa a tutto. Ma sapevo che non avrei avuto l'ausilio di nessuno. Quarto minuto, tiraccio senza pretese di Vasquez, palla tra le braccia di Glattauer. Sesto minuto, palla contesa a centrocampo che schizza dalle parti Zinho. Cross noioso. Palla che si perde sul fondo. A quel punto però, il pubblico cominciò a rumoreggiare. Il pareggio va bene per tutti, ma un po' di spettacolo sarebbe stato gradito dagli spalti...

E' domenica successiva. Sono sulla mia barca, sto pescando, e mentre pesco ripenso a quel goal. Due avversari davanti a me, finta e controfinta; pallone dato al giovane Guerra che con tocco morbido mi restituisce la sfera e mi mette davanti al portiere avversario... Palla in rete ancora prima che il resto del mondo possa accorgersi che ho toccato forte con il piatto del piede destro. Corsa sotto la curva, mi tolgo la maglia ancora una volta, la getto via, guadagno lo spogliatoio senza aspettare che l'arbitro mi esponga il secondo cartellino giallo.
E' domenica successiva, sto pescando sulla mia barca, a pochi metri dalla riva dello stagno; e do le spalle a mio padre che mi chiama per andare a pranzo. Ma io do le spalle alla riva e anche a lui, senza un lavoro, senza un futuro, ma con la consapevolezza che a ventinove anni ci si può riappropriare dell'ardore dell'adolescenza.

sabato 10 aprile 2010

Fogli...

Nell'Era dell'informazione automatica (abbiamo dimenticato che il termine informatica è la contrazione dei due termini "informazione" e "automatica"?), siamo ancora sommersi dalla carta.
Fogli, da tutte le parti, a tutte le ore, in tutte le salse, in tutti i modi, in tutti i laghi... Fogli da compilare, il contenuto dei quali poi verrà caricato su un pc, fogli-documenti rilasciati dagli uffici competenti, fogli dentro le scatole degli elettrodomestici, dei tv color, dei telefonini. Fogli inviati dalla banca:"ci deve 4,ooo euro please". Che poi, con la suddetta banca ti sdei messo d'accordo per ricevere tutto via e-mail, ma loro, per scrupolo, ti mandano a casa i fogli. Fogli dentro i quali c'è scritto se stai bene, se i tuoi esami clinici sono andati come dovevano; fogli per l'iscrizione, fogli dentro i libri (ma quelli li leggiamo volentieri e li perdoniamo e li teniamo cari), fogli dentro i giochi della Play Station. Fogli di calendario, che spreco!!! Ogni mese, li strappi e li butti via; fogli fatti a pezzi che diventano biglietti per lo stadio, per il cinema, per il teatro, per il concerto. Fogli per scrivere lettere d'Amore, fogli da decifrare, quelle sono le bollette; fogli di cartone che contengono sigarette, sigarette fatte con fogli, fogli dentro le agende che ti regalano a fine anno e tu ci scrivi solo il tuo nome e il tuo indirizzo e poi niente più. Fogli, grandi, grandissimi, immensi, che diventano cartelloni pubblicitari, fogli di giornale, che diventano il cesso dei nostri animali, fogli di carta colorata che avvolgono i nostri presenti ogni qual volta abbiamo l'incombenza o il piacere di fare felice qualcuno con un regalo; fogli di carta, di cartone, di cartone ondulato, di carta velina, increspata, di carta carbone perchè le cazzate si ripetono sempre. Fogli di carta glassine, rotoli di fogli di carta igienica per asciugarsi il culo, fogli di carta morbida per metterci dentro il naso, o per pulirsi dopo essere stati in quel posteggio lì... Fogli di carta da parati per decorare casa; fogli di carta gommata, monolucida, patinata, politenata, siliconata! Fogli di carta da forno, che non si brucia, incredibile. Fogli di carta lucida, carta chimica, carta termica. Fogli per fare assegni bancari, postali.
Fogli per fare banconote, quelle sì che mancano. Cazzo!

lunedì 8 marzo 2010

Gran Premio di Costanza

Quarantaquattromila uomini... Scendo in cantina, si prepara la notte. Scatto le foto della mia vita. Morti, vite, un'acqua tonica, per favore. L'Uomo Nero, se lo avvicini, non fa così paura. Lui è scaltro, sì, ma non ha tutta questa furbizia. Non ha altro che le sue debolezze; e di queste si fa forte, con queste ha forgiato la sua esistenza obbrobiosa. Anche i suoi figli approfittano di ciò, forse lo fanno inconsapevolmente, e noi ne paghiamo le conseguenze.
Quarantaquattromila vite, il Gran Premio sta per cominciare. Siete collegati in diretta con Costanza, città della Germania, Stato dell'Europa, Continente della Terra, Pianeta della Via Lattea, Galassia, dell'Universo... In Pole Position c'è Tacco Di Ferro su "Print". Partiti, con uno scatto la vettura Bianca, guidata da Dio, si porta in testa...
Quarantaquattromila soldati, lei mi chiama e mi dice, in sogno:" Vieni, devo farti vdere una cosa". Che strazio, quei vetri appannati. Così non la riconosci più, ma è solo un sogno. Faccio il bagno, la schiuma mi copre, soprattutto le parti intime, come nei film corretti. Cos'è la sciolina? Preferisco le penne blu, di quel blu scuro che segna inesorabilmente il foglio; poi calchi la mano, il foglio si riga, quindi si sfalda come un preservativo martoriato che spiana la strada ad un uomo che nasce e poi, magari, tra quarant'anni vince il Premio di Miglior Fuochista.
Quarantaquattromila uomini, le spade laser, l'elio per gonfiare i palloncini, il tegame per fare le uova. Lui ha comprato una macchina con sodli non suoi, con soldi tuoi. Lui si lamenta. E si lamenterebbe del fatto che il tempo scorre, e che qualcosa potrebbe cambiare. Cazzo, suo figlio ha già la barbetta incolta sulle gote. Una moglie triste, una figlia disonesta...come lui.
Quarantaquattromila esempi di solidarietà, tutti imballati nel cellophane. Abbiamo ancora quelli vecchi, possiamo usarli. Passami le patate, scattami l'ultima fotografia.