venerdì 30 dicembre 2011

Corsi e Ricorsi

Ne volete sentire una vecchia o una nuova adesso? Mica c'è tanto da arrovellarsi il cervello, basta una parola, una scelta. So che non potete rispondere, è il grosso difetto a cui incorre uno che qualche volta si diletta a scrivere per altri tre o quattro. Però, tanto per, la domanda la faccio lo stesso. Qualcuno sa dirmi cosa vuol dire? Allora, una vecchia, orecchiata, trita e ritrita, con tutte le sue belle cose al posto giusto, col gusto riconoscibile tra tanti; oppure un nuovo pezzo, che sa di libro appena comprato, che sa di scartoffia e che profuma? Il giorno è quello, non c'è che dire, basta andare a ritroso e controllare. Allora la domanda “ne volete sentire una vecchia o una nuova?” è solo una presa in giro, sapete già cosa voglio dire. Lo disse un giorno Francesco, durante un concerto, e la gente si sprecò in risposte di ogni tipo, addirittura uno, con voce possente ma sgraziata disse:”Bastardi, vecchia!”. E aveva ragione, se ne accorse quando le chitarre e la batteria attaccarono con Rimmel. Ma oggi, amici miei, non mi va di scrivere di donne di quadri che ti guardano con sufficienza, di immagini sovrapposte, di muri imbrattati. Oggi, come ogni penultimo dell'anno da qui a sempre, voglio rendere palese la mia nuova natura. Uh che ossimoro gigante. Ne volete sentire una vecchia o una nuova? Facciamo così, per la vecchia vi rimando ad un giro turistico per le pagine di questo blog; oggi cerco di regalarvi una nuova sensazione. Un nuovo ritmo, un nuovo mondo. Magari con gli occhi a mandorla. Ops, mi è scappato. Ok ricominciamo daccapo. Credo che la vostra risposta non possa esserci, come al solito deciderò io. Ha un nuovo sorriso, le mani affusolate, un neo da qualche parte. Ha dato una culata ben assestata e si è sistemata per benino dentro di me, ma non occupa molto spazio; si è presa la briga di sorridermi, ogni tanto. E di farmi tribolare un minuto sì e uno no. Mi ha insegnato ad usare le bacchette, e tra me e le sue mani c'è un invisibile elastico. Quindi? Ne volete sentire una vecchia o una nuova? Perchè se la scelta è la seconda, sappiatelo prima, io non ricordo assolutamente niente. Sono un po' ammaliato. Fanculo a tutto il resto! Scorre il mix su youtube di una delle mie band preferite, e le immagini si sovrappongono alle attese; il racconto da scrivere si è accucciato da qualche parte, la mia vita è sempre una nave che va, e la mia unica preoccupazione resta sempre l'età che avanza. Ma poi mi fermo e, facendo finta di riflettere, perdono me stesso pensando che i modi non cambiano mai. Allora, per l'ultima volta, ne volete sentire una vecchia o una nuova? Ok, niente preamboli. Se mi parla ad un palmo vorrei baciarla sempre, e se mi prende la mano lo fa perchè vuole che la cinga in un abbraccio, mentre guardiamo un film; e a metà, come non fosse niente, mi dice chiaramente che è arrivato il momento di fare l'amore. La nuova storia che potreste scegliere è un sole che si sta appena alzando, una tazza di caffellatte, un barattolo di latta che riflette una fortissima luce; è una fotografia, un libro disordinato in cui non c'è un filo logico, un paio di scarpe adidas comodissime. E poi ancora un gatto che fa le fusa, dormire sul petto di una Principessa.

venerdì 23 dicembre 2011

Love Actually

Un plaid, il salotto buono, le ciabatte buffe, Ti alzi ancora una volta; mastichi qualcosa, Ti risiedi, Ti ridesti, mi ammali con le solite “cose semplici”. Fuori piove, fuori non ci sono nuvole, sicuramente non c'è il sole, perchè non ne abbiamo bisogno. Il plaid, la digestione, la domenica, le luci intermittenti dell'Albero, la punta è prerogativa di mamma. Il tappeto bianco, la musica immaginata, i nostri corpi che si sfiorano, i nostri corpi in coro che si scrutano da vicino, che si conoscono. Il plaid che ci completa, le dita dei tuoi piedi, le risate, il ricciolo che si attacca ad un cuscino, gli occhi verdi da nordafricana. Un'inondazione conosciuta, con le luci dell'Albero che illuminano a intervalli irregolari i pacchetti e gli scatoloni che si trovano giù. Le suppellettili, il balcone fuori, concepito solo dalle nostre menti, chè mai ci verrebbe in mente di uscire fuori; il lettore dvd, le solite meravigliose frasi; il rituale liturgico che ci nutre perchè è parte di noi. Il consueto gesto di lisciarti i capelli vicino alla spalla, il consueto diventare piccola mentre mi prendi in giro chiedendomi di andare ad inserire il cd nel lettore. Poi il Primo Ministro che fa la vittima di gaffes inattese, che fa il protagonista di atti eroici, per l'Inghilterra. Chi l'avrebbe immaginato che l'Inghilterra sarebbe stata mia... Il ragazzo innamorato della moglie dell'amico, alla quale dedica la più bella dichiarazione d'amore del Creato. Il nostro plaid ancora lì, a fare bene il suo dovere, le nostre mani che si stringono, come se si stessero perdonando vicendevolmente, preventivamente. I miei occhi che distolgono lo sguardo dallo schermo, e vanno via per un po', e vengono da Te. Il plaid, la coperta cara, il piccolo ma consistente focolare nel quale mi sento protetto, Ti senti protetta. Il Tuo polpaccio sulla mia coscia, il Tuo ricciolo che si attacca da qualche parte, il Tuo finto dolore, le Tue buffe ciabatte, “Io, Simpatica”. E la risata che apre un mondo. Lo scrittore che va in campagna per dimenticare la moglie infedele, non sapendo che si innamorerà ancora; il signore attempato che proverà a tradire la moglie, per la quale puntualmente Tu farai il tifo. E il plaid sta ancora lì, e niente luce fuori, chè il nostro sole ci basta. Niente sole fuori perchè il nostro rito è pomeridiano, natalizio, piacevolmente incessante, soavemente scuro, ricco e pieno di aspettative. La stufa irradia tutto il calore di cui hai bisogno, tutto il calore che speri. Le mani, la macchia di caffè sul Tuo palmo, le risate, i pianti, le energie. La ragazza dai capelli rossi non si libera delle pressioni del fratello malato e non dà futuro al suo amore per il bel tenebroso dell'ufficio. Il rossore che Ti prende quando ci sono le scene delle due controfigure che si scambiano timide parole, a dispetto di ciò che di esplicito stanno facendo. Mentre l'amore tra lo scrittore e la inserviente portoghese nasce Ti senti libera, e intanto Ti nascondi dietro la mia spalla. E io mi sento potente. E il plaid continua nel suo incedere, anche quando il piccolo orfanello confessa di essere innamorato, anche quando il giovane fattorino riesce nell'impresa di andare negli States a fare incetta di donne, anche e soprattutto quando tutti si ritrovano in aeroporto, a scambiarsi abbracci, a ricordarci che ciò che conta nella vita ce l'abbiamo lì, sotto il plaid, con le buffe ciabatte ai piedi, con i riccioli che si impigliano da qualche parte, con la stufa che irradia un calore avvolgente; con le suppellettili tutto intorno, con l'Albero e le sue luci intermittenti. Con il tuo polpaccio sulla mia coscia, con i nostri corpi che si stupiscono ogni giorno, ogni volta che si riconoscono. Tua madre ci chiama per chiederci se vogliamo mangiare. “No, preferisco andare a casa”. Ancora trenta chilometri di sogno, ancora sei o sette pezzi da ascoltare, ancora una volta a ripassare la lezione. Perchè nel nostro rituale liturgico dei giorni che precedono il Natale ci basta quel plaid per farci provare L'Amore Davvero. Buon Natale Fiore Mio.

venerdì 16 dicembre 2011

La Moneta Fuori Corso

Mi piaccio, non c'è che dire. Questa tristezza cupa, ma inesorabilmente acuta, mi mette dentro una tribolata pace. Mi piace il mio modo di ragionare, il mio essere “equilibrato”, la assenza di ucronia nel mio futuro prossimo e in quello remoto; c'è tanto bisogno di me su questa terra, sì. Soprattutto quando mi accorgo delle desolate lande che macchiano a chiazza di dalmata ogni centimetro quadrato di questo luogo di conflitto chiamato Terra. La stupidità umana mi è nemica, armata com'è di anemia intellettuale, scusate se mi autoincenso indossando una panoplia che nessuno mi ha chiesto di indossare. Paladinando un po', a volte mi struggo per l'ennesima battaglia perduta, altre mi danno l'anima, altre ancora mi riserbo il diritto di festeggiare. Ma solo con me stesso, chè le forze del bene non annoverano così tanta gente tra le proprie fila. “Hai ragione”- come fosse un premio da attaccare alla parete, come fosse lo scalpo desiderato, come fosse l'ennesima testa impagliata da lasciare in cantina, visto che non c'è più spazio nella piccola parete dilaniata. Gente che ti guarda con gli occhi spiritati, gente che venderebbe la propria anima, se solo ne avesse una, pur di strapparti un lurido sollievo, una piccola ed insignificante vittoria. Non capendo che le alte considerazioni di sè stessi sono frutto di una celestiale visione del mondo raggiunta dopo mesi di preparazione sulla rampa di lancio dell'umiltà. State a casa se potete, il mondo è troppo bello da vedere, ma anche difficile da capire. Di solito a questo punto faccio qualche esempio non comprensibile, e anche stavolta non faccio specie. Tra i tonti sorrisi della ragazza americana, nei cinema d'essai, nei concerti live mai parchi di positivi turbamenti; nelle pietanze esotiche, nei nuovi modi di dire e di fare, nei contesti arricchiti da inediti sguardi. Poi arriva la picconata che fa crollare tutto, che inneggia ad una normalità supposta, che magnifica, glorifica e osanna la povertà di intendimenti; celando senza saperlo la paura verso il differente. Siamo in Guerra, gente! E dobbiamo farci esercito, dobbiamo farci coorte, reggimento di menti e di cervelli, di convinzioni, di abnegazioni. Prendete le mie parole come inno, o come esortazione. Forza ragazzi, fatevi ispirare. La ragione è solo una moneta fuori corso! Loro sono di più, ma non alzano lo sguardo, non articolano le parole, le frasi e i discorsi; solitamente finiscono le conversazioni con un non meglio identificato “non mi frega un cazzo”, nascono e muoiono con le stesse fattezze. Ma si riproducono velocemente, e pare non si distraggano nel farlo. Usiamo le nostre armi: un cielo grigio, il gesto di appoggiare il nostro drink sul tavolo scuro di legno, un'impotente lacrima davanti ad una bambina che non cela serenità in viso; una barretta di fondente nel pomeriggio piovoso di metà dicembre, un cuscino rosso sul divano nero, una rosa-segnalibro. Riprendiamoci la dolcezza dell'apprezzare il suono di una lingua sconosciuta, sogniamo una spiaggia diversa dalle nostre, una coscia di pollo farcita con una salsa stramba. Riappropriamoci con delicata forza l'asimmetria dei versi di una poesia che racconta di mondi lontani, mettiamoci con ardore nei panni altrui, tendiamo le ali per un lunga abbraccio non richiesto; cresciamo con l'incedere degli archi, dei fiati, delle percussioni. Non diamola vinta alla noia, all'imbarbarimento, al fastidio, all'insofferenza, al tedio, all'irritazione, all'uggia. A questa inclinazione molesta che codeste formiche inoperose stanno mettendo dentro il calderone della convivenza mondiale per non doversi sottoporre ad una resa dei conti che porterà tutti loro dentro una nuova, inaccettabile consapevolezza. Quella di avere torto, quella di non poterci più stare. Io sono ottimista. Voi?

venerdì 9 dicembre 2011

Tre Zollette

Davanti al bancone, in piedi, con la felpa, i capelli a caschetto. Un mano piegata sulla bocca, il pollice tra i denti, a mordicchiare la pellicina; una mano sugli occhiali, a sistemarli un po', per capire meglio. Capelli neri, caschetto giovane, di venerdi, la borsa capiente, gli occhiali necessari, il numero trentasei. Le mani, la mano, sul telefono, sugli occhiali, a mordicchiare il pollice, la pellicina. Scoppia la bomba, alle tre e trentasei, come il fischio di inizio, come la nuotata in apnea per raggiungere il pallone a centro vasca, come lo scatto della merendina che va incontro al suo destino quando si lancia dal vano che la ospita per finire nello spazio della macchinetta erogatrice dal quale la si può raccogliere. E ancora le mani, a digitare sul telefonino, “sono arrivata”, “sana e salva”. Ne sei proprio sicura? Un thè, alle tre e trentasei, un recipiente di paglia, la fiamma del camino che monotona non è, e staresti a guardarne il movimento per ore. Le mosse, le movenze, i gesti, le furtive occhiate, magari un po' di fame... Ma sì, sarai proprio tipo da panino porco, coi formaggi e la carne, con le salse e le aspettative. Con lo yogurt per dessert e un contorno di attese. È nello spazio che intercorre tra adesso e il dopo che l'infinito si fa largo; è realmente lì che una vita si frappone tra i nostri destini. È in quel momento che ti do un nome, una storia, un passato. Un futuro. Mentre stai lì davanti al bancone, con i capelli a caschetto menomati dal viaggio, mentre appartieni a tutte le nazionalità del mondo, mentre profumi di nuovo, mentre odori di biscotto. Seduta, gambe accavallate, dovrei trovare neologismi per descriverti, dovrei inventare frasi idiomatiche, nuovi modi dire, sistemi di misura, tare, pesi e contrappesi. Tu che sei unica, perchè appartieni solo ai miei pensieri, con la tua felpa, gli occhiali da ridisporre nella giusta collocazione, alle tre e trentasei. Caschetto martoriato, borsa troppo grande per te, che sei minuta. Un bianco trascorso, una nuova automobile, ancora libri da leggere e da studiare, un'altra furtiva occhiata. Capelli raccolti in una coda, sguardo indagatore sullo sguardo, attraverso lo specchio. Vetrine da guardare, pollice sui tasti del telefonino; sei una storia, la mia. Alle tre e trentasei, pieno di cibo in pancia, sigaretta appena fumata. “Posso fare il check-in?”- chiedi. Certo che sì, tre zollette di zucchero, i tuoi occhi che ingaggiano un rendez-vous coi miei, dietro l'angolo,ancora e ancora. Davanti al bancone, castano è tutto di te, rappresentanza di autunno, di foglie gialle sulla felpa verde; sordo machete che si fa largo nella foresta in cui sto combattendo con gli animali-zollette. Tre e trentasei, davanti al bancone, con le scarpe da viaggio, senza berretto, senza ostilità, senza incanti. Solo un canto, solo una sirena lontana, solo una storia infinita che si frappone tra i nostri destini, tra adesso e il dopo. Infinita, perchè spacca il momento, alle tre e trentasei. Scartoffie dentro la borsa, biglietti e documenti ordinati, confezioni di biscotti aperte, jean's sdruciti ma comodi. Pollice tra i denti, mordicchi la pellicina, ti riaggiusti gli occhiali, ingaggi un rendez-vous coi miei occhi, a metà strada tra te e tre animali-zollette. La felpa, i richiami ad un'adolescenza appena andata via, i libri e l'apnea. La cautela e le gambe accavallate, le luce che va via, il bancone che non ti accoglie più. Chè sono le tre e trentasette, e da poco ha cessato di esistere quell'infinito che ho fatto di te.

venerdì 2 dicembre 2011

Lurida Bastarda Poesia

Disgusti espressi da donne insignificanti, “rubbish” buttato lì come se dentro ci fossero sacchetti pieni di leccornie, l'ennesima figa pronta a parlarmi ad un palmo; e poi fare figure da stupidi mentre dentro tutto procede con la meraviglia solita, solita intesa come aggettivo qualificativo. Il sole pallido delle tarde mattinate inglesi accompagna l'incedere verso il prossimo Christmas, il secondo della serie, senza la PlayStation, chè Zoltan se l'è portata a casa e ci gioca a Call Of Duty. Vivo le provvisorietà altrui facendole mie, solo per un attimo. Poi casa mia continua a spostarsi con me, tra le righe di questo romanzo ambulante, tra le note di un pezzo dei Pedro the Lion, mentre osservo il mio giubbotto appeso vicino al radiator che proverà ad asciugarlo, inzuppato com'è, il giubbotto, per colpa dell'ultima pioggia assassina. Assassina come me. Keep Calm and Carry On, recita il poster che ho comprato e che ancora non mi sono deciso ad appendere alla parete della stanza mia e di Frank; forse sto aspettando che lo faccia Frank. Come al solito. Ma non mi serve alcun monito, io gli strumenti per non dar peso alle superflue cose ce li ho già. Chè la matita temperata a dovere mi mette una pace che non ha nemici. Neanche quando i miei suggerimenti si rivelano azzeccati e nessuno me ne dà atto; neanche quando faccio un canestro da tre punti, o quando la mia schiena mi chiede pietà, mi chiede di non sforzarla con questo impeto. Tanto poi la chitarra riprende ad arpeggiare delle note che impalmano tutto ciò che c'è dentro, e tutto quello che c'è intorno. “E se vuoi goderne, amica mia, gambe in spalla e olio di gomito”- nessuno ha mai detto che si tratti di una cosa facile. Cri mi ispira poesie insensate, e mentre parlo con lei, che cazzo di cosa strana, mi ritrovo sulla litoranea di marzo, con i mandorli in fiore. Sciarpe, datemi delle sciarpe che proteggano il mio collo. Sta nascendo, cari miei, sta nascendo la Mia Storia, e a leggerla saremo in pochi. Me la tengo volentieri, per il momento, la mia Lurida Bastarda Natura; me la tengo così com'è, con i miei berretti da fighetto fintamente trasandato, con i jean's chiari sulle tre strisce delle scarpe; con le mie metafore grammaticali, con i miei temi ricorrenti; e ancora con il proponimento di andare allo stadio con Ester, o ad un concerto con la biondina francese. L'avvocato lascialo a casa, qui ci siamo solo io e la notte, e un paio di collant quasi sconosciuti. Ma la voglia di spartire tutto ciò è come fosse prigioniera, ma non è paura, sto solo prendendo tempo...la mia Lurida Bastarda Natura. Ho bisogno di un tagliaunghie, di espellere il superfluo, di estromettere, di catapultare via, di allontanare le incongruenze. È inutile per alcuni fare finta di niente armeggiando con le palline dell'albero di natale; è totalmente insensato cercare di darsi un tono, quella sensibilità la smaschera facilmente un bambino di sei anni. Io almeno, dalla mia, c'ho quella sincerità che mi fa forte agli occhi degli altri, e anche ai miei...ogni tanto. Un altro episodio, thanks a lot amico mio. Con la speranza che non si giri a vuoto, perchè ne abbiamo di cose da fare, ne abbiamo di storie da raccontare, ne abbiamo di canzoni da cantare; abbiamo tante canzoni da ascoltare ancora. E così ho passato un'altra notte fuori, e un'altra verrà di seguito, tratteggiando con stile; un'occhiata al profilo facebook, una telefonata con Andrea, due risate intelligenti. Tanto poi Gennaio arriva, e siamo ancora qua. Intanto, “rubbish”, per dirla all'inglese, e ancora occhi da incrociare, state sicuri che lo so che arriverà la Vera Pasqua anche per me, o solo per me. L'unica cosa che vale la pena di attendere, per il momento, tra le strade di “quasi Natale”, tra i disgusti espressi da insignificanti donne, tra posters da attaccare alle pareti in mezzo alla spazzatura piena di leccornie, è il ritorno della PlayStation; se Zoltan avrà la compiacenza di riportarla. Chè a Call of Duty può giocarci tranquillamente anche qui.

venerdì 25 novembre 2011

Bentornato

“Tra un mese andrò via, mi mancheranno i miei amici, coloro che cominciano a diventare famiglia; mi mancherai tu”- Claire si crogiola sul giaciglio fatto di nulla, fatto di tutto; sul giaciglio fatto di tutto solo per pochi minuti. Ci provo come uno sconsiderato a mettere nero su bianco, a reindirizzare me stesso, a farmi vedere dalle parti del mio giusto ruolo. Sono tutti così i luoghi? Tutti hanno questa prerogativa? Ognuno di loro cela in sé questa attrattiva? A me piace pensare diversamente. Cercherò di essere descrittivo e didascalico. Cercherò di farlo. Tra le tele di questa mostra permanente, mentre acchiappo un momento per acchiappare quello successivo; durante le pause sigaretta fuori del Victoria Pub cercando di flirtare con l'ennesima francesina venuta qui ad assistere un qualche insegnante di una qualche scuola media, venuta qui a farsi fare i complimenti dall'ennesimo tipical italian. La mia casa lì, ad un passo dalle luci del City Center, i biscotti Fox al cioccolato, la strana incongruenza dei miei sonni, la benevola presenza di Frank, l'impagabile solitudine del mio letto. La Brummia Immensa accoglie e distoglie dalle terrene cose, ti scaglia con placida violenza dentro un pianeta di polveri benefiche; le luci non illuminano e basta, le luci ti ballano intorno, ti proteggono, ti ammaliano senza prenderti in giro. Attendo un taxi, dopo l'amore e con le gambe un po' molli, mentre una ragazza ebbra mi chiede una sigaretta, si presenta ruttando il suo nome, Kate; prova a dire le solite frasi in italiano quando scopre le mie provenienze. Lascio che mi scrocchi la “fag”, mi fingo interessato ai suoi “mi chiamo Kate, and...and..and vengo di London”, poi mi volto e guardo l'orizzonte City Center, le luci e i colori, dal mio punto di vista, dalla strada collinosa di Moesley, mentre Kate continua ad imperversare con i suoi conati di vomito. Non la ascolto più, di più, mi immergo con lei dentro l'attesa per nulla fastidiosa di questo pakistano tassista che mi chiama da due ore, chè non capisce quale possa essere la strada giusta per venirmi a prendere. Sono le 3 passate da un bel po', ma non ho fretta. Non trattengo nessun nervosismo. Mi basta un pezzo dei Karate, la voce calda di Farina, il basso avvolgente di questo rock bluesato che si unisce agevolmente con le brumme caratteristiche. Kate è pronta al vomito o forse no, non si ricorderà di me domattina, ma fa niente; adesso siamo due amiconi di vecchia data. Mi chiedo ancora se tutti i luoghi hanno questa prerogativa, se ci riesce Berlino, se in qualche modo ce la fa Liegi, se in passato Milano è stata ricordata così. Io mi godo la mia Birmingham, lungi dall'essere la città avvolta nel panico cantata dal Candido Poeta. “Tomorrow Yardbird”, tanto per gradire, per succhiare ancora, per ricordare a me stesso il mio ruolo assassino, fatuo agli occhi dei più, per nulla artefatto, incommensurabilmente vivo e vero. Kate guarda per le terre come cercasse ancora l'angolo più d'uopo per scaricare la non misurabile quantità di alcool messa in corpo; fai pure, mi verrebbe di dirle, tutto ciò continuerà a proteggerti. Claire starà già dormendo, o forse starà chiedendosi il perchè io non sia rimasto a dormire da lei, completando il suo giaciglio fatto di nulla e di tutto; ma non è il momento di cercare qualcosa che non mi appagherebbe. E comunque non mi va di tentare di spiegarlo. La natura vuole che le mancheranno gli amici, coloro che cominciano a diventare famiglia; perfino io... Kate mi fa un cenno con la mano, come se volesse salutarmi e fermarmi al tempo stesso, come se dagli inferi del suo stato quasi comatoso volesse non lasciarmi, chè sono stato salvifico con la mia sigaretta, ma io sono già dentro il taxi. Destinazione Digbeth, please, non per altro. La mia casa è lì, e poi tutte le luci del City Center, i biscotti Fox al cioccolato, la sacra solitudine del mio letto, la benevola presenza di Frank, le sane incongruenze dei miei sonni, le abitudini che vengono e che vanno. Ok, un caloroso bentornato a me.

sabato 19 novembre 2011

L'Ultimo Bacio

Pochi metri, la mia stanza, la cucina, il passaggio di servizio. Poi il cancello automatico, che è sempre rotto, e bisogna aprirlo facendolo scorrere con le mani. Pochi metri, tra me e una macchina costosa, che profuma ancora di nuovo; dentro c'è il mio passato, le mie battaglie vinte, le mie guerre perse. Ancora pochi passi... Portami nelle vallate, tra il verde, tra i cavalli, nell'assenza di gravità; portami tra le staccionate di campagna, chissà chi gliele ha messe lì. Conducimi tra i rovi, facendo attenzione a non rovinare i maglioni nuovi, comprati insieme, con il vento in faccia a scombinare i capelli tenuti insieme da fermaglietti da bambina; portami nelle domeniche lontane, sfidando la legge gravitazionale, scavando una fossa e seppellendo tutte le “cose brutte”. Tu che sei il mio passato di battaglie vinte, di guerre perse. Portami tra i nostri sospiri, tra le nostre capacità di stupirci con niente, tra le frasche e i cespugli; tra i cani che abbaiano lontani, tra i nostri sguardi sorridenti. Pilotami dentro una stanza pulita, scevra di polveri assassine, accogliente perchè familiare, disarmante ma buona e dispensatrice di felicità. Portami in un'altra dimensione, dove non ci sono gli agghiaccianti fatti che Ti bloccano ancora, che Ti disarcionano dal galoppo che vorresti condurre. Facciamoci compagnia in quest'ultimo viaggio. Che è nostro! Scortami nella vallata delle cose che sarebbero state se non fossimo stati noi. E se non fossimo stati noi non sarebbe stata la stessa cosa. Il cielo è perfetto come piace a Te, le nuvole hanno solo un ruolo artistico, il tempo non c'è, stavolta non ci può battere; il legno è di un colore caldo che ci mette dentro una infinita voglia di coccole. Di coccole vere, di coccole nostre. Sciogli i tuoi capelli, tienili a mia disposizione, li voglio toccare, così come il Tuo capo che adesso è uno solo. Cammina davanti a me, traccia la strada che dobbiamo percorrere in quest'ultimo viaggio insieme verso la anelata felicità. Fingi di rattristirTi per qualcosa, cerca le mie mani catartiche, poggiale sulla Tua fronte, aggiungi legna al fuoco di ciò che siamo. Sparisci, solo per un attimo, e poi riemergi dal nulla, e dammi ancora la sensazione di essere tanto importante. Io, che sono una lapide bidimensionale. Ma aspetta, non ho ancora finito. Prendimi per mano e portami al mare, con una canzone di Fabio in sottofondo, col profumo delle lasagne pronte all'ora di pranzo, col profumo della vaniglia tipico delle spiagge, col profumo di Te che non ha eguali, e che a volte odio così come si odia il campione che vince sempre. Ritroviamoci lì, sotto un albero i cui rami non ci hanno mai ospitati, le cui foglie non ci hanno mai fatto da colonna sonora con il frusciare del loro muoversi accarezzate dal vento. Con i jeans macchiati di verde, con le scarpe che “così non ci entri nella mia macchina”. Senza il Tuo viso solcato dalla lacrime, ancora una volta; senza il peso di quest'incommensurabile colpa che ancora mi scaglia contro un muro fatto di vetri rotti. Trasportami, per l'ultima volta, nelle vallate che danno sul mare, verso la visione delle onde che si fanno bianche di schiuma contro gli scogli. Catapultami dentro un supermercato, scegli il dentifricio meno costoso, muovi ancora le Tue mani alla ricerca dello spray per capelli, rimproverami per la mia lentezza nel portare il carrello. Adesso insegnami a volare, il Tuo corpo sembra perfetto per farlo; e allora dammi la soddisfazione di guardarTi negli occhi mentre planiamo sulle cose che ci hanno sconfitti, mentre ci prendiamo quest'effimera consolazione, questa vendetta bastarda. E adesso abbracciami, per l'ultima volta, o solo per l'ennesima; abbracciami a orologeria, con le lancette che scorrono, e io vorrei tanto fermarle. Abbracciami con decisione, con Amore, con grinta e con conforto. Perchè adesso finalmente so che non è vero che Tu ami solo te stessa. Troppi metri, tra una macchina costosa e il cancello automatico, sempre rotto, che va fatto scorrere con le mani; chilometri per guadagnare il passaggio di servizio della cucina, addirittura giorni di viaggio per giungere finalmente nella mia stanza che mi ospita solo per pochi giorni. Così ripenso alle battaglie vinte, alla guerra straperduta. Ed eccomi esibirmi in un'esibizione di bel pianto... Buoni Sogni!!!

sabato 5 novembre 2011

Prigioniero

Gente che soffre di amori lontani, cazzoni che raccontano inedite storie; e poi sentimenti quasi adolescenti che nascono, muoiono, fanno le gare e si disintegrano vivendo. Il camino in common room è troppo acceso, troppo ambito dalle ragazze anglosassoni con le calze bucate che gli mostrano il culo, che sorridono, che mangiano un improponibile piatto di pasta alle cinque del pomeriggio. Digbeth, a volte, ha la prerogativa di essere uno stradone che non ospita nulla, come se fosse in perenne attesa. Ma pullula la vita da quelle parti, caspita se lo fa! Tra gli intendimenti di Frank che armeggia col radiatore del suo fuoristrada antidiluviano, tra le manie di Josh che si perizia i tatuaggi, tra le mille attenzioni di Mesci che fa l'ennesimo bucato; dentro il negozio vintage dove le commesse cantano in playback il pezzo diffuso dagli altoparlanti del locale. Io invece mi incanutisco vieppiù nelle lande desolate del Paese dei Vecchi; non che ci sia qualcosa da ridire, ma credo di sapere con esattezza cartesiana quali sono le genesi dei miei mali. Credo sia già finito lo spirito di questa vacanza in bianco e nero, virata seppia, che continua a non dire nulla, che continua a dire tutto. Il fatto è che il colore delle mie scarpe fa una fatica incredibile a fare pendant con il grigio dell'asfalto, con il nero della roccia lavica; sarà un grigio diverso, sarà un nero meno darkeggiante. Voglio il bianco dei clamorosi vestiti di Kim, l'azzurro degli occhi di Kasia, i finti ammonimenti di Zoltan. Voglio tornare al pozzo dal quale ho attinto tutte le mie delizie; voglio cercare e ricercare, voglio la Vita preparatoria dell'uomo che ho cessato di essere prima di arrivare lì, dell'uomo che continuerò ad essere una volta arrivato sul portone della stazione di Moor Street. Niente di personale, spero, ma ho scoperto appiattimenti di cui conoscevo solo le teorie. Adesso ho la riprova che il prossimo volo avrà destinazione Nuova York, Bogotà, Kuala Lumpur. Troppi libri, qui, e neanche uno aperto; vengo per ricaricare le batterie e mi accorgo che ho lasciato l'occorrente in un'altra isola. Nessun profumo mi inebria le narici, nessuna scatola mi mette la curiosità di scartoffiare aprendola, nessun ospedale mi rattristisce come in altri tempi. E poi ancora nessun numero di telefono riscoperto mi mette l'ansia di provare a comporlo. Ho ritrovato il giusto incedere del tempo, ma a che prezzo? Per scoprire che qui tutto è immutato? Per non riuscire a sorvolare sulla pochezza di ciò? Preferisco il vorticoso avanzare delle lancette brumme, scusate l'ardire.

venerdì 28 ottobre 2011

L'Uomo Jonico

La cappa umida avvolge i tetti, le antenne tv, i pali della luce, le signore intente a fare cernita nell'atto di comprare dal fruttivendolo ambulante. Forse è una fortuna che il paesino in cui decidemmo di andare a vivere qualche anno fa sia ancora legato a certe atmosfere da film di Tornatore; lo è nella misura in cui il passaggio dai grattaceli brummi al baretto in cui si fa incetta di panzerotti alla crema, di granite alla mandorla, di respiri freddi di calde arie, diventa segmento lungo lungo; diventa varco epocale di spirito, di orologio, di membrana, quasi di karma. Non è più caramellato questo mondo che mi accolse e mi sputò, sembra una scatola vuota, un contenitore di gerontofilia che non ammetterebbe l'ennesimo pezzo di Yuppie Flu che mi frulla in testa. Mentre io, cocciuto, continuo a dargli un senso. Sto bene, conviene subito che ve lo dica; sto bene, negli incroci di sguardi con Valeria, che risulta buffa quando mi racconta di viaggi a Londra e lo fa con l'accento siculo, mentre le sue fattezze sono normanne, o mitteleuropee. Sto bene quando Angelo mi chiama per dirmi che tra un po' mi verrà a prendere; quando la mia mamma si preoccupa di farmi mangiare, quando il mio papà canta in un inglese improponibile (adesso lo so) un pezzo andato di Frank Sinatra, The Voice. Ma il fiume di emozioni che mi ha investito subito fuori dall'aeroporto si è subito tramutato in pozzanghera attaccata senza appelli dal sole delle undici. Troppo celere l'anno brummo, troppo scattante, e sembra quasi che non sia esistito nulla tra quando ci entrai, in quell'aeroporto, e adesso. Le t-shirt comprate da Sport Direct sembra che mi tendano una mano, come a ricordarmi che il passato prossimo esiste. Eccome! Allora sto qui in bilico, tra un conto alla rovescia e la fretta di riporre tutto al posto giusto, in questo soggiorno siculo troppo corto; troppo lungo. Lo smile che mi regalò Sciù è ancora incredibilmente gonfio, mentre tra i libri della mia stanza non scorgo più i cadeuax del periodo artefatto di quel sole plastico. L'asfalto ha fattezze negative; come le aspettative ridicole che hanno contraddistinto l'attesa di un ritorno che, invece, sapevo benissimo che non avrebbe avuto scossoni degni di cotanto senno. Un'altra sigaretta, con le ciabatte ai piedi, tra i perenni disordini, con i consueti malesseri. Un altro pensiero rivolto al clima tropicale che sta cambiando i profili della mia terra natìa; i pomeriggi sul letto sfatto, l'aspirapolvere in continuo rumoroso movimento. Dalla finestra scorgo solo un muro grigio di vecchiaia e solitudine, e un pezzo di cielo. Devo essere io l'attrazione di me stesso; e allora mi preparo per la doccia, i sali profumati, gli sguardi simpatici, le preghiere recitate perchè tutto fili liscio. Porterei con me tutto o quasi; non porterei niente dentro la mia vita altrove. Mi manchi Brummia accogliente, mi manca quel pozzo di energia che hai riservato per me. E che qui si perde, meglio, si disperde. Nelle salite irregolari, nei talk show televisivi, tra gli atti di schiavismo per una vita agognata che continua a farsi attendere. Vi voglio bene, credetemi, ma cazzo quanto siete lontani... La valigia rimarrà in quello stato fino all'ultimo, fino a quando la richiuderò. Lasciando questo mare, la montagna, la squadra di calcio, le aspettative. E anche questa cappa umida, che avvolge i tetti, le antenne tv, i pali della luce; e le signore intente a riporre negli stipetti il comprato dal fruttivendolo ambulante.

giovedì 20 ottobre 2011

L'Uomo Albionico

Mi porta il conto per favore? Cos'altro si può credere, in queste mattine amare di antidolorifici, intorpidite di gambe addormentate, mentre la testa del mio femore pare rotta per il male che mi fa, e la testa del vostro affezionato ha appena cominciato una corsa contro il tempo, chè c'è un aereo da prendere lunedì mattina. Quattrocento giorni, more or less, una lunga piacevole planata, guardando la stanchezza in faccia e sfidandola, prendendo taxi per scoprire nuovi punti di vista da quartieri limitrofi; rimandando a “dopo” il momento del riposo, giocando a fare l'universitario che si dà ai parties, flirtando, dispensando consigli, facendo fare magre figure ai soliti cretini che si ostinano a popolare questo piccolo pianeta. Adesso il sofà sul quale sono seduto è più una prigione, un place dal quale difficilmente ci si può spostare, perfino per andare a fare pipì. E ancora più immobilizzante è la paura che qualcosa di negativo sia arrivata per sottrarmi alle mondane cose, e per mettermi dentro la dimensione di chi vive di ricordi, ancora una volta. E allora cosa si fa? Con movimenti accurati si sistemano due cuscini dietro la schiena, si dà una mossa alle dita dei piedi, così, per dare una parvenza di senso alla circolazione sanguigna, si butta uno sguardo al cielo, non si sa mai, chè il buon dìo non voglia prodursi nell'ennesima grazia di regalarmi qualcosa che oggi mi appare lontana e sostanziosa, e ci si inoltra indietro con lo sguardo. Persone, cose, qualche animale, città (una sola, ma immensa anche nell'aggettivo qualificativo), famiglia. E se mi sentissi in colpa? E se tutti questi nuovi microcosmi umani, tutti questi auguri per il mio compleanno, tutti 'sti ammiccamenti fossero di più di ciò che avrei meritato? Allora quel cazzo di conto rischia di essere astronomico. Mi guardo nelle tasche e non credo di avere i liquidi necessari per far fronte all'ammontare. Ho speso tutto in quattrocento giorni, more or less, e i risparmi li avrei lasciati per quando tornerò. E se la cosa non fosse possibile? No, no e poi no. C'è ancora tempo per lasciarmi andare. I proverbi sono tutte stronzate. Ieri ho preso tutta la gallina, l'uovo l'ho lasciato di mancia, e oggi mi interrogo su cosa possa esserci per me. I proverbi, già, sono tutte stronzate; è così che la pensi quando ti attacchi al palo sistemato in casa di Matilda la Folle, quando fai volteggiare Kim, quando fai finta di conoscere l'inglese e ti lanci in una conversazione goliardica con Matt, che per l'occasione è l'English Fabio. E ancora quando, auricolari alle orecchie, ti incammini sornione verso l'ennesima festa all'Aston University, verso l'ennesima puntata da guardare con Andrea, verso il martedi allo Spotted Dog. Sono rimasugli di speranza, oppure promemoria lasciati lì, ad uso e consumo, quando Frank si offre di farmi da mangiare, visto che non posso muovermi, e mi guarda con l'aria di chi capisce che il sottoscritto è sì immobilizzato, ma cazzo quanto viaggia con lo sguardo. Doppia razione di Paracetamol, please. È ricca di aspettative la malinconia che mi prende mentre dalla filodiffusione viene fuori Everybody Hurts di REM, mentre il brummo tiepido sole si appoggia sui divani dell'ostello, dopo aver bussato ai vetri delle finestre, mentre i Personaggi Perduti caduti con l'arereo continuano ad imperversare nel mio cervello, attraverso i miei occhi. Domani sera Yardbird? Non credo proprio, sono immobilizzato. E la cosa mi preoccupa. Perchè fino a pochi giorni fa facevo le cinque del mattino, il tassista ammiccava fraterno mentre pensavo all'ennesima notte di sesso; fino a pochi giorni fa caricavo la roba del ristorante con la costola rotta, mi improvvisavo adolescente con la bici su una ruota in Union Street. Una parola a destra, un'altra a sinistra, mentre Freddy, magari, intonava un We Are the Champions, così, per gradire. Indistruttibile Uomo, perchè così ha deciso l'Inghilterra Mia. Già, è come se la terra di Albione mi avesse dato tutta la forza necessaria per affrontare tutto questo, dal ventisei settembre dell'anno passato fino a questo sporco momento; e adesso che la sto abbandonando, ecco che mi sta togliendo le energie. Torno, colline amiche, non preoccupatevi, torno in venti giorni, e magari non vi lascio più. Due teste, quella mia, e quella del femore, pare stiano pensando all'unisono: cosa ci torni a fare lì, caro Fabio? Ma non è evidente? Rispondo con l'aria spaesata e con lo sguardo rivolto nel vuoto. Vado a riabbracciare la mia mamma, e passate pure il bisturi al chirurgo, se questo è il conto che devo sostenere.

giovedì 13 ottobre 2011

Le Due e Cinquantuno

Il colore arancio degli interni della macchina erano morti, nel senso che non erano vivi. Cosa c'era dentro, quali meraviglie si stavano dispiegando, quali attrazioni? Erano di colore arancio, e grigi, e si sposavano bene tra loro. Quella era lì accanto a me, nuda e bellissima. Almeno così mi pareva. Discreta e disponibile a pettinare i miei pensieri, a lisciarli con benevolenza; mentre io stavo solo, solo immerso nel campo da golf che c'era nella mia testa. Quella era lì, mi guardava recitando la sua parte; io vedevo i miei sorrisi allontanarsi lenti e soavi. Le stelle trapanavano il parabrezza, e scoprivano i vestiti sul sedile posteriore, la peluria delle mie gambe nude, le sue cosce simmetriche. Adesso cammino dinoccolato e solitario per il corridoio del nuovo palazzo dell'ostello; la luce d'emergenza è bianca da ospedale, le pareti sembrano venute fuori da un film dei Cohen. Apro l'ennesima porta e vedo ancora sorprese di scale che portano da altre parti. Non è vero che non ho più nulla da dire. Ce ne ho di cose da tirare fuori. Avevamo tutto in quei momenti: l'oscurità, il futuro e la tristezza. Cosa avremmo potuto chiedere di più a quella cazzo di esistenza? Immaginavo un cortile, gli alberi, mentre le sue mutandine continuavano a stare in bilico sulla stanghetta dell'accensione dei fari. L'orologio digitale lampeggiava sempre le due e cinquantuno, fuori silenzio. Un silenzio abissale, profondo, neutrale. Talmente neutrale da far paura, perchè ci puoi mettere anni di studio, ma non te lo spiegherai mai. Dentro la bagarre, i tumulti, le bombe al napalm. Ma la mia incostanza era sana, liberatoria, forse incline al piagnisteo, ma cazzo se era giusta e verace. Quella invece dentro aveva chissà quali mostri che le suggerivano follie, e torture, e “legalo ad un palo, dopo averlo catturato con dolcezza”. Non mi fa che tenerezza, adesso, mentre salgo le scale del nuovo building, mentre incedo a passo mediocre verso il mio futuro fatto di secondi. La prima rampa è andata, e ancora mi stupisco incredulo nell'osservare i quadretti che narrano di stili e mondi lontani. “Io ti aspetto, faremo tutto insieme”, sentivo queste parole sorde e avevo ancora Lei dentro di me, che mi sussurrava dolce il modo in cui avremmo dovuto affrontare l'idea di fare a meno l'uno dell'altra, il modo in cui avremmo dovuto togliere le rotelline dalle nostre rispettive bici. Forse avevo paura di diventare adulto, ma lo stavo facendo, credevo di farlo; e ci stavo mettendo dentro tanta di quella passione, tanto di quel coraggio. Stupido! I salici selvatici si piegavano fino ad entrare in macchina, approfittando dello spiraglio che lasciavo solitamente per fare uscire il fumo della sigaretta. Io nel frattempo, pazzo, avevo un demone al mio fianco e non me ne accorgevo. Scusa mamma. Forse era il colore arancio degli interni della macchina, oppure la luce delle stelle che trapanava il parabrezza; oppure ancora...no, non poteva essere il pensiero di Lei. Lei non farebbe mai niente che mi possa nuocere. La seconda rampa è ancora più avvincente, perchè porta al piano di sopra, che è ancora un altro pezzettino di futuro. Se solo potesse vedere, quella, quanto il suo tentativo di annientarmi sia stato totalmente disatteso; se solo potesse immaginare quanta tenerezza mi mette in corpo sapere che lei morirà senza aver mai assaggiato tutto questo... Le due e cinquantuno, sembrava quasi che l'orologio digitale si sbagliasse, visto che faceva giorno, visto che il sole illuminava le mostruosità di quell'essere. Aiuto! Gridai solo per un attimo... Sto per tornare lì, giusto il tempo di abbracciare la mia mamma, e di chiederle scusa. Giusto il tempo di tornare lì, senza più gli interni color arancio, ma per vedere le catene che ho spezzato e ho lasciato lì.

giovedì 6 ottobre 2011

Le Mie Nuove All Star

Ottobre non si perde dentro una nebbia che offusca, Ottobre ti regala un pallido sole che si appoggia comodo sui mattoncini rossi dei muri brummi, e non ti infastidisce; non ti ossessiona. L'aria intanto è frizzante, e talvolta imprechi un po' per non aver messo una felpa, per aver lasciato casa vestito di una t-shirt, sopra il giubbotto che poi, se c'è caldo, leghi in vita. Ti conoscono così. Ottobre è più di Settembre. È come se l'intera umanità sia ringiovanita; il nano del giardino guarda in giù e sembra che stia protestando, chè in mezzo alle foglie cadute non ci vuole proprio stare. Ottobre è uno schiaffo benevolo che ti sveglia dall'intorpidimento, dalla stasi. Io di stasi qui, da queste parti, non ne ho proprio conosciuta, ma mi piace pensare che la catarsi ottobrina arrivi anche per me. Un viaggio in macchina, quel giallo lì, esattamente quello che si forma in questo mese; e poi flauti, cioccolate calde per gradire, un piatto di pasta al tonno. I jean's blu notte, un mobile comprato chissà dove che devi ancora montare. Ottobre perenne, mentre i pesci dell'acquario boccheggiano, mentre all'Adame and Eve stanno facendo un soundcheck, mentre scarti il tuo telefonino nuovo, e ti chiedi il perchè di tutta quella carta. I cuscini stanno al loro posto, e in qualunque modo li sistemi sembra sempre che a fare il lavoro sia stato un artista degno. Ottobre è il vento nei capelli di lei, un barattolo di cioccolatini che quando lo apri fa spap! Una giacca su una maglietta, la potenza devastante della chitarra di John Frusciante, un'aspirina, una ciambella col buco, e anche una senza. In questo mese i soffitti spioventi sotto i quali fai l'amore sembrano più spioventi, e il colore del legno della finestra che dà sul tetto si sposa felice con il piumone bianco, mentre fuori il tubo di scappamento della BMW non pare debba farti tanto male. Ottobre è un bambino sorridente che non disturba l'incedere dei genitori che fanno shopping, è una buona maestra che deve ancora conoscere gli alunni, e allora è gentile con tutti, nessuno escluso. È una partita di rugby, un elastico sul quale una ragazza ha lasciato qualche capello, Ottobre è qualche capello castano. Uva bianca sulla tavola piena di briciole, le mie nuove All Star Converse da ragazzo fiero. Respiri ardito, noncurante della costola rotta, un'altra volta, come un altro Ottobre. Il pezzo di Mogway sembra quasi scemare lentamente, ma poi riparte, ad Ottobre, col camino ancora spento, con le ragazze avvolte in coperte calde ma coi piedi scalzi; col rosso del pacchetto di Marlboro, con la giubba Adidas, con le colline che anche se non ci sono le puoi facilmente immaginare. Ottobre Brummo, si svilisce martire divenendo anticamera del freddo che verrà. Ma ce l'ha la sua personalità, ce li ha i suoi crismi e le sue caratteristiche. Dentro il pensiero di matite colorate pastello, dentro l'immagine di libri che profumano di nuovo, dentro i sapori della pioggia insistente che però non macchia. In Ottobre sembra sempre domenica, sembra sempre una di quelle domeniche in cui papà fa dei lavori in giardino, in cui mamma prepara quei cazzo di cannelloni buonissimi, in cui il tubo per innaffiare il giardino è più verde del solito; una di quelle domeniche in cui non vuoi fare la versione di latino, in cui non vuoi pensare a cosa dovrai fare domani, sporco lunedi. Una di quelle domeniche in cui c'è profumo di nonna, di nonna profumata di festa. È dolce di zucchero Ottobre, che ha il potere immenso di ingiallire le foto, ma di farlo in modo artistico. È una caffetteria, Ottobre, è un romanzo avvincente, una margherita a fare da segnalibro, una nuova serie tv da spolpare, una partita a biliardo col tuo migliore amico. Ottobre, “attacco la Cina dal Medioriente”, spedisco una lettera anche se non si fa più, osservo le mie nuove All Star Converse dal mio nuovo punto di osservazione, una dritta, l'altra coricata perchè lasciata lì con noncuranza; osservo il soffitto spiovente, il braccio destro sotto di lei, la testa di lei sul mio petto. Poco importa se ho una costola rotta, passerà, per fortuna. Come Ottobre il Magnifico; già, anche lui passerà, che disdetta...

giovedì 29 settembre 2011

Frankamente

Sam si scaglia sulla tua vita con violento impeto, inversamente proporzionale alla sua stazza, mentre il postino entra senza guardare dove mette i piedi, intento a leggere per l'ennesima volta il nome del ricevente la missiva; i due orologi attaccati al muro ci ricordano l'ora brumma e quella ungherese. Si gioca e si scherza, dentro il Bacpackers Hostel di Birmingham, West Midlands, United Kingdom. E ancora lattine di birra, le mappe che ci dicono dove siamo e dove vorremmo andare; c'è sempre qualcuno seduto al computer che si può utilizzare liberamente in barba al cartellino che dice che l'operazione costa 50 p ogni trenta minuti. Che differenza fa se la filodiffusione ci propina un canto gregoriano, un pezzo di metallo pesante o un capolavoro dei Joy Division, uno qualsiasi? Io mi siedo nel mio angolo di mondo, e poco importa se ogni tanto c'è chi se ne impadronisce prima di me; restano i pensieri, le ossessioni, i miracoli. Fabio il cartomante di sè stesso non sempre ci prende, e l'entropia che si forma è talmente emozionante che pare l'abbiano cantata gli Housemartins. Le feste, le foto, i riti propiziatori, un Magnum alle mandorle; compri i condoms e il ragazzo del negozio ti fa l'occhiolino; il Brasile, col suo carico di poetica tristezza; ancora una volta fuori a succhiare da questa cannuccia che però pare troppo sottile. Il giovedi sera con davanti un Bacardi, mentre con Tam Tam si discute di guerre e di libri che raccontano di guerre, e di soldati, e di Russie che vincono, e di Russie che danno il loro grande contributo all'umanità. Ma quando torno lì, nella casa che mi accoglie, a volte dimentico quanto quella casa è caleidoscopica. Perchè hai voglia, Fabio, a fare ancora la pantomima eterna della vita liceale, con le ragazze che nei giorni in cui tutto sembra andare per il verso giusto, fanno la gara per farsi le foto con te... Arriva sempre il momento in cui lo sguardo si posa benevolo su Frank.
Frank è il mio roommate, il mio compagno di stanza, il mio coinquilino; ma più semplicemente Frank è Frank. Ha 42 anni, ma ne dimostra 70, cento, diecimila! È nato a Praga, quando ancora Praga era la capitale della Cecoslovacchia. Frank è un uomo presente, anche se non ti accorgi di tutto ciò se non ti ci metti di impegno. Ha i capelli lunghi e bianchi che raccoglie quasi sempre in una coda appoggiata sulla parte superiore del capo che lo fa sembrare un novello occidentale samurai. Ha la barba bianca che lo rende simile ad uno di quei vecchi marinai portuali che hanno sempre qualcosa da raccontare. Ha le rughe che sembrano solchi, e dentro quei solchi c'è lo spazio necessario per comprendere tutti i vissuti di un uomo che si capisce a occhio nudo che ha saltato una lunga serie di passaggi. Frank con un matrimonio alle spalle, che ha avuto a che fare con una stronza che lo ha trattato male. A volte le persone non si rendono conto di quanto sia importante il loro apporto nel rendere speciale una persona che altrimenti sarebbe normale. Ma questa è una storia lunghissima da raccontare. Frank il giramondo, lo immagino intento ad armeggiare coi pezzi del motore della Land Rover che ha comprato su E-Bay, mentre rivive i suoi trascorsi a Los Angeles, California. Lo immagino seduto con le gambe incrociate, ad osservare l'orizzonte, a rivedere mentalmente un cartoon ceco, a rileggere quel passo di quel libro. Frank rolla una sigaretta, si staglia dal suolo coi suoi centottanta e più centimetri; la Foster a portata di mano, mi sorride e mi ricorda che siamo fratelli, sì, ma di madri diverse. Frank, un paio di braccia, cento storie da raccontare, a volte tenute gelosamente dentro un misterioso scrigno, milioni di pialle recapitate da chissà quanti mondi e paesi che poi il nostro sistema gelosamente dentro il laboratorio di falegnameria che ha approntato dentro l'ostello; Frank a volte sembra schizofrenico, ma non mi ha mai fatto paura; sembra che cammini con un paio di forbici in mano, sembra che debba scoppiare da un momento all'altro, sembra che la signorilità gli appartenga come fatto spontaneo. Lui di sera si piazza davanti al computer del bancone e comincia a puntare il click del mouse su youtube: i Pixies, soprattutto, per farmi piacere... poi sorride ancora, aprendo i solchi vitali delle sue rughe. Quando è andato via per due settimane, io mi sono sentito un po' sperduto, tant'è che una volta tornato, gli ho sussurrato un “never more”. Ancora solchi, ancora rughe, ancora sorrisi, mentre Frank prepara per sé un piatto di pasta, mentre si accomoda nel “suo” ufficio, direttamente subito dopo l'entrata della common room; una risposta per ogni domanda, di cui lui però non fa sfoggio se non sei tu a chiederla. Lo immagino ancora, chissà, da qualche parte a fare autostop, da qualche parte ad amare una donna, da qualche parte a piangere per il padre morto. Frank non ha paura di niente, soprattutto delle sensazioni umane che di tanto in tanto si provano. E non interviene in cause che non lo riguardano; se gli chiedi la sua non ti liquida su due piedi, ma non si dilunga a dismisura. È didascalico, Frank, ma appare più come un quadro appeso ad una parete di una chiesa. Frank incede né allegro né triste, con le braccia forti da novello San Giuseppe Falegname, sposta il posacenere, perizia la nuova pialla che sta dentro la scatola di cartone, succhia dalla sigaretta appena rollata, e poi mi guarda. Frank mi guarda e mi ricorda che andrà tutto bene, chè la vita non deve per forza essere quella che dicono loro. Qualcuno incontrandolo potrebbe pensare che non sia normale, io sono sempre più convinto che la sua normalità sia talmente propria da renderlo speciale. Siamo una famiglia, Frank me lo sussurra senza dire niente, siamo fratelli, sì, anche se di madri diverse.

giovedì 22 settembre 2011

Cambiando i Tempi e i Modi

Come ti senti? Come stai? E adesso? Adesso niente, sto bene, la vita continua. E ti dirò il perchè. “Mi vedo con un altro”- fu la sua frase; non mi guardava negli occhi, si sentiva disarmata, dilaniata dal senso di colpa, smarrita. Cambiano i tempi verbali, i modi, le persone. La mia prima reazione fu chiedermi il perchè di tanta indecisione. “Mi vedo con un altro,”- sarebbe dovuto essere un macigno, una freccia scoccata da chissà quale angolo sconosciuto del mondo. E invece? Invece, ancora una volta, pieno di speranze, speranze che questa nuova brumma giovinezza non finisca, ho pigiato sul tasto play ed è partito un pezzo dei My Bloody Valentine... Grazie, chiunque tu sia, grazie di cuore. Perchè, come dico spesso, adesso questa è vita. Si beve caipirinha, si sorride e si gioca; qualcuno mi dice che forse è arrivato per me il momento di avere anch'io una ID card dell'Università di Aston, c'è anche chi mi mette in mano una fotocamera, “fai qualche foto per me, please”. Poi arriva Andrea, mi porta un panino con dentro la carne, forse sto urtando la sensibilità di qualche vegetariano. Ma in fondo chi se ne fotte. Arriva la Grande M, con in testa una fascia che vorrebbe millantare per cappello; sorride la Grande M, come se volesse celare la immensa tristezza che la sta attanagliando. “Ci siamo già conosciuti”- mi dice un pakistano. È chiaro che ci siamo già conosciuti, cazzone, penso. Il brasiliano continua a sfornare caipirinhas a gogò, sfoggiamo i nostri telefonini di ultima generazione, sfoggiamo le nostre battute spiritose da alticci, sfoggiamo il nostro sapere immerso nel sapere. Poi arriva lei, col suo cappottino degno di cotanto freddo. Il resto è maledettamente ovattato. Sembriamo chiusi dentro un sogno che si trasforma, non dirò in cosa. La sua faccia è a pochi centimetri dalla mia. Cambiano i tempi verbali, i modi, le persone singolari e plurali. Lascivi e incontrollati, sento di essere sempre infatuato, sento di essere tornato in salute. Il party d'addio è tutto intorno, non ce lo stiamo dimenticando. “Posso farti una domanda?”- le dico. Lei vorrebbe sentirsi su un paio di blocchi di partenza e fuggire via. E invece annuisce, come una maestrina che sta lì per quello, fai tutte le domande che vuoi. “Perchè?”, semplice come una sciarpa stretta attorno al collo, come la foto di un tramonto, come due mani che si congiungono. I suoi occhi rotearono, cambiando i tempi e i modi e le persone. Il giardino sotto di me si fece molle e incontrollato; centinaia di sguardi mi osservarono, centinaia di paia di orecchie si tesero per carpire, centinaia di busti si torsero per acchiappare... I suoi occhi, ancora, lontani oltre le frasche, dentro il campus, verso l'ottavo piano di quel palazzo lì... “Mi vedo con un altro”. Un fulmine ti colpisce, di solito, e ti fa male, ti stordisce, ti annienta se vuole; non finsi, non ingaggiai combattimento alcuno, mentre i tempi e i modi cambiavano. E cambiano ancora. Sono sempre Fabio, il Fabio che hai conosciuto. Magari qualche festa in più, qualche apparente follia facilmente reperibile tra le pagine virtuali dei social network. Ma sono sempre io, cazzo! E da vittima indifesa mi trasformai naturalmente in uomo fatto. Cambiando i tempi e i modi verbali, tendo la mano, non preoccuparti, ci vediamo domani per un drink, facciamo una chiacchierata, magari proverò a farti cambiare idea. Non c'è poi molto da ribadire, l'amore è solo uno specchio multiplo che si diverte a riflettere quelle poche, migliaia di facce che hai. “Avevo paura di farti del male”- mi disse. “Sei sicura che non avevi paura di fare del male a te stessa?”- le avrei detto a parole, ma bastarono gli sguardi. Gli sguardi di lei in fuga continua, il mio inusualmente fermo sulle sue pupille, il giardino, sabbie mobili, battuto e distrutto. “ Ecco a voi il Re di Birmingham”. Sì, andiamo tutti allo Yardbird, a bere un Cuba Libre, a chiacchierare ancora ed ancora. Lei non venne, ostinata, cambiando ancora i tempi e i modi, le persone, i singolari e i plurali. Cammino da solo per le strade del City Center, sacramento un po' di qua e un po' di là. Ma la pioggia sottile che mi punteggia il viso mi ricorda quanto sono vivo, anche in un momento di positiva sconfitta come questo. Quindi, “come ti senti? Come stai? E adesso?”. Adesso niente, la vita continua, continuò. Continuerà!!!

giovedì 15 settembre 2011

Marga e le Farfalle

“Sono Margarida, aspetto con impazienza il mio momento; nella sala, tra le nuvole, acciuffando con grinta tutta la mia concentrazione. Sono Margarida, alimento le mie speranze con la forza della mia giovinezza. Tra un po' è il mio turno; tra un attimo. Un attimo ancora, ancora una volta in bilico. In bilico tra due situazioni diametralmente opposte: la musica e il silenzio dell'anima, la tristezza e il coraggio. È quello che ho sempre sognato, suonare, pigiare sui tasti neri e bianchi e muovere l'aria, e produrre suoni che diventano musica, e cercare l'infinito, e cercare la perfezione. Sono qui, con la voglia di scrutare attraverso le quinte per vedere chi c'è; oppure no. Respirando, facendo esercizi mnemonici, storcendo il naso, sorridendo nervosamente. Margarida io, troppo attratta da questa favola che oggi un po' odio, perchè mi porta lì, a un passo dal burrone. Ho scelto il vestito, ho scelto le scarpe, ho scelto lo scialle. Ho scelto di dire a tutti del mio recital, e lascio per il momento che le farfalle si impadroniscano del mio stomaco...ho paura, o forse no...”

Ci provo. Ci provo a dare un senso ai pensieri di Margarida, portoghese di Lisbona, pianista, occhi che tentano di celare con difficoltà insormontabile una fanciullezza appena passata. Adesso sono seduto sulla parte destra della platea di questo freddo teatro. Tetro, questo luogo, perchè sono sensibile. È uno di quei giorni in cui la mia sensibilità mi rende più vulnerabile; è uno di quei giorni strani in cui faccio scelte condivise da pochi. Adesso mi rendo conto che formiamo veramente uno sparuto gruppo dentro questa sala immensa che contiene i convenuti. Margarida ha chiesto a tutti di venire al suo recital di fine anno. Suonerà il piano per noi, e per chi avrà l'onere di giudicarla. Ma il giorno è feriale, l'orario inconsueto, il tempo fa le bizze. E allora il gruppo è sparuto. Il cielo brummo, fuori da qui, è grigio; è perfetto per la musica di Margarida. Mi muovo un po', giocherello con il programma che mi hanno dato all'ingresso, metto il cappello al contrario, poi mi risistemo, tiro fuori il telefono, scorro con lo sguardo la sala costruita con tecniche moderne, ma qualsiasi gesto è rumoroso. La eco di una sala troppo grande sembra quasi un aquilone gigante che pervade tutto e tutti. Sento l'emozione salirmi addosso, una solidale emozione per Margarida che suonerà per tutti noi, perchè è uno di quei giorni in cui sono sensibile, talmente sensibile che raggiungo una vulnerabilità che mi farebbe gridare:”ok, fate di me ciò che volete”. Ci provo ancora...

“Sono Margarida, quella nota provata e riprovata non potrà fare andare tutto in malora; andrà tutto bene. Deve!!! Tra le stelle, nella mia stanza, e adesso qui, senza finestre, con le mani sulle ginocchia, sempre in bilico, sognando un trionfo; oppure no. Che tutto passi, il formicolio ai polsi, il disturbo al basso ventre, è sempre la stessa storia. Lo farò, lo farò ancora. Margarida, partita dal Portogallo e capitata qui, per ora, dove la musica è apprezzata, dove posso inseguire il mio sogno. Basta così, tra un po' è il mio momento. Chissà chi c'è, chissà chi è venuto, chissà come sarà...”

Vorrei che tutto passasse in fretta. Eppure questo luogo mi mette pace. È armonico, come una pedalata senza fatica; di più, come un sonetto di duecento anni fa. Vorrei che questa sensibilità, che mi rende vulnerabile, mi abbandonasse, solo per il gusto di sentirmi più forte. Anzi, vorrei tanto riuscire a traslarla, questa sensibilità, vorrei trasformarla in qualcosa di utile per me. Ma come si fa? E come farlo anche per Margarida? Che è portoghese di Lisbona e tra un po' suonerà per me, e per pochi altri convenuti. Uno sparuto gruppo. Coloro che la giudicheranno stanno lì, al centro perfetto della platea; poi ci sono gli amici, una ragazza dai lineamenti asiatici, un ragazzo col cappello. Anche io ce l'ho, il cappello, e ogni tanto lo rigiro al contrario per fare scorrere il tempo... Margarida è sicuramente dietro le quinte; Margarida sta sicuramente ripassando tutti i movimenti che dovrà fare. Forza Margarida! Ci provo, ma sì dai...

“Sono pronta, è il mio momento”.

C'è troppo silenzio. I passi di Margarida sul legno del palco producono un sordo tonfo, ma sono rumorosi e invasivi. È questo il suo ingresso. Il viso è tirato, i suoi occhi indagano, ma lo fanno per inerzia, come se fossero guidati dall' istinto tipico di chi lo scopre solo in certe occasioni. La mente è veloce, vorticosa; le palpebre sbattono all'impazzata, e scorgo anche un leggero tremolio. Io mi ridesto dalla posizione comoda che ho assunto da pochi minuti senza neanche accorgermene. Margarida è sulla scena. Un timido applauso; il suo sorriso, quasi di circostanza, diventa per un attimo liberatorio. Margarida siede di fronte al piano, e per un attimo sembra quasi che i suoi occhi incrocino i miei. Sono occhi troppo diversi da quelli soliti di Margarida, portoghese di Lisbona. Sono occhi fieri, pronti per la battaglia, una strana battaglia. Poi Margarida comincia a suonare. Tutto scompare attorno a lei; tutto diventa opaco. Margarida e il suo strumento ingombrante, il pianoforte, che è un animale peloso, un goffo mostro antidiluviano. Ma se lo tratti bene, se sai indirizzarlo nella giusta strada, ecco che diventa foriero di grandi attrattive. Margarida adesso è sola, con la sua musica, astratta da tutto sta tracciando ad occhi chiusi una linea invisibile tra lei e me, che oggi sono sensibile, orrendamente vulnerabile. Lei picchia con forza sui tasti quando deve farlo, si libra in volo quando il pentagramma glielo chiede. Margarida non ha un suolo sotto i piedi; non ha un esiguo gruppo di persone che la stanno ascoltando, non ha una signora disponibile che le cambia la pagina degli spartiti. Margarida non ha occhi addosso, e non ha più paure, pensieri che le attanagliano la mente. Perchè la mente di Margarida adesso è sgombra. Musica, tanta, per ore, per secoli e millenni. E intanto la mia sensibilità nemica si abbandona alle note di Marga, che non ha uno scialle, non ha un vestito a fiori, non ha un paio di ballerine ai piedi... ma solo una musica che pervade la sala, torna dietro le quinte, sbatte sui muri, invade l'immensa platea, mi colpisce con amorevole violenza. E, con impetuosa voluttà, trasformando in forza le paure di Margarida, converte la mia sensibilità in una sorprendente, meravigliosa, beata vulnerabilità. E allora mi chiedo che senso ha tentare ancora di dare un senso ai pensieri di Margarida, fantastica pianista, portoghese di Lisbona...

giovedì 8 settembre 2011

La Silente Alchimista

Taci! Ma non prendermi alla lettera, oppure sì. Chiuditi in te stessa, celati in un secco silenzio, abbassati e rilancia. Zitta, ma non offenderti, ascolta solamente. Ci sarà pure qualcosa che ti disturba, ma tu chiudi gli occhi, e la bocca. Per non illuderti; per non illudere me. Taci, nella brughiera, tra le stelle, nel segreto delle tue intimità, tra gli amici, a Pasqua, parlando al telefono, osservando da lontano, con gli occhiali da vista; fai silenzio. Perchè sei tu che lo chiedi a te stessa. E anche io. Non aprire la bocca, non aprire la mente, taci, in tutti i sensi, con i crismi che contraddistinguono i silenzi; con le mani in tasca, con le mani tra le cosce, con le mani in un luogo lontano. Chiudi la bocca, seduta su una panchina, tu, amministrata dalle tue sensazioni. Sto cercando di dare ritmo a questo post. E chi sono, Gabriele D'Annunzio? E cos'è, La Pioggia nel Pineto? Pioggia? Quanta ne vuoi, siamo nella Terra di Albione. Pini? Ne troveremmo a bizzeffe, se solo lo volessimo. Ma io non sono poeta, sono solo uno nato a Luglio, tra i ciottoli neri e con i piedi scalzi. E tu sei Ermione, solo perchè esisti e comunque ti devo immaginare. E dai, taci, cioè continua a farlo, a comportarti come stai facendo. Bevendo una bevanda al caffè, ricercando la felicità della tua solitudine, così poi sai a chi dare le colpe. Già, dai colpe, infila un paio di scarpe, tieni la tovaglia sulla testa dopo aver fatto lo shampoo; telefona alle amiche, mangia un boccone, ridesta i tuoi desiderii e poi buttali giù...intima loro di tacere. Così come devi fare tu. Per non illudere te stessa, e magari per non illudere me. Taci! Non odo parole, umane o disumane, ma odo un silenzio che in vita mi tiene. Ci provo, a fare il poeta, a dare un ritmo a sto cazzo di post. Non sono D'Annunzio, non è una Pioggia Nel Pineto, e tu sei Ermione. Nitida e passata. E se sale una nota, tienila giù, tienila ferma. E quindi taci, non ti chiedo baci, non posso. Ti chiedo, per il tuo bene, di non dire nulla, di continuare a non profferir parola. Te lo chiedo per te, e anche per me. Tu taci, io sogno; tu resti una silente alchimista, io mi beo dentro il sogno di te bidimensionale. Non parlare, non scoprirti, indugia più che puoi, fermati, rifletti; brava, hai capito, potresti illudere la tua persona, fors'anche la mia. Tutt'attorno c'è fiume, ci sono laghi, terre senza mari, marmi, colori, mostri lontani. Ti prego, ti scongiuro, taci, non aprire quella bocca, ti giuro che io aprirò la mente solo ai miei sogni... che parlano di te. Di te che stai qui, proprio qui dentro, mentre io sto lì. Taci, e ascolta magari, o non ascoltare, potrebbe venirti in mente di dire qualcosa, e tu non devi dire nulla. Non ascoltare la pioggia, oppure ascoltala; l'abbiamo bramata, no? In effetti non c'è nulla che abbiamo sperato insieme, e non è di questo che stiamo parlando. Ci vuole ritmo, ho detto. Niente di meglio che tacere; te lo chiedi e te lo chiedo, non fiatare, taci. Sui banconi, nelle piazze, con davanti una pizza; nel caos e nella quiete, tra le dune e le matite spezzate. In una conversazione in cantina, nella mela che stai sgranocchiando, tra i denti che vorresti lavare ogni volta che mangi qualcosa. Taci, con le ciglia bagnate, chè pare che piangi oppure no, con le zanzare che cercano il tuo sangue, con la tua peluria delicata; lasciami tra i miei sogni, le mie spiegazioni, i miei litigi, le mie furie; in questo pineto senza pini. Io che non sono D'Annunzio, io che potrei trovare una serie infinita di pini. Insieme a te, che sei Ermione, assopita nei miei sogni in cui ti immagino e basta. Taci, con amore o con astio; spezia o meraviglia, incanto e fascino primitivo. Ricordami chi sei, solo non parlare, troverai il modo, troverai le parole, ma non parlare, ti prego; ti preghi. Una crema al cioccolato, un bisturi che non taglia, un orologio che non dice che ora è. Io sto sempre lì, non qui; questo posto lo lascio a te. Te che faresti bene a tacere; bene per te, ma anche un po' per me. Che non sono D'Annunzio, che non trovo ritmo per questo post; che non è La Pioggia, che è solo una pioggia, in mezzo ai pini che troveremmo a bizzeffe. Se solo tu ti rendessi conto di essere Ermione. Se solo tu continuassi a tacere. Perchè lo chiedi a te stessa, perchè te lo chiedo io. Supplicando, perchè potresti illuderti. E anche perchè potresti illudere me, ancora una volta.

giovedì 1 settembre 2011

Rompi Gli Schemi!!!

Salta giù, dai. Devi farlo, oppure no, non devi. Ma te lo sto chiedendo, lo stai chiedendo tu a te stessa. Salta! Con impeto o in punta di piedi; con tutto il tuo fardello oppure con le sole scarpe, coi lacci al vento, coi capelli bagnati, col campo visivo allargato. Lanciati, incurante del buio, o incontro alla luce; rompi il muro che ti sta davanti, per scoprire che non c'è. Fallo! Imperativo, o vocativo, a te la scelta, purché tu lo faccia. Salta, dai, vedrai che non c'è spazio per la paura, per i rimorsi. Un bel salto, tosto e duro, corposo, che mira alla perfezione; o ancora un bel salto scomposto, di quelli belli da fotografare. Salta, non aver paura, non c'è mica un cerchio di fuoco davanti a te; salta, prendendo la rincorsa, oppure abbandonandoti a peso morto. Non pensare al dopo, non pensarci affatto. Che importa se c'è un oceano di spilli appuntiti ad aspettarti, o un tiepido mare tropicale; non conta ciò che c'è alla fine del volo. Non incide sapere se c'è un materasso o una foresta. Salta, io sto qui a guardarti, oppure lo faccio con te, mano nella mano. Salta, dai, Jump! Come ha detto David Lee Roth, non che quella canzone mi faccia impazzire, ma se dopo più di trent'anni è ancora attuale significa che il compositore non era proprio uno sprovveduto. E dai, forza e coraggio, salta giù, voglio vedere un bel volo. È tutta adrenalina, una droga prodotta dal tuo corpo, una scarica secca che dall'alto guarda con sprezzo e con sarcasmo tutte le vertigini, tutte le paure. Buttati, gettati, schizza via, rompi gli schemi, potrei piangere di gioia per una cosa del genere. Salta giù! Librati e poi asseconda la forza di gravità come un rapace che si catapulta sulla preda; a capofitto, con le braccia affusolate, col bikini striminzito, con gli occhiali da sole dimenticati sopra la fronte. Salta, ma non cercare di volare, ti voglio umana e fallace, ricca. Con i sandali ai piedi, con la cavigliera a sinistra. Balza di sotto, se vuoi lo faccio insieme a te. Mano nella mano. Non ti curare del dopo, spacca in due il momento di paura, e proprio in quel lampo, quello in cui sei interdetta, quello in cui sei paralizzata dalla paura, quello in cui tutte le fobie sembra si siano impadronite di te, ecco, è lì che ti devi lanciare. Tutto passa, ma il salto, quello che tu devi fare, quello resterà per sempre dentro di te. Lo racconterai, ma ancora più significativo, lo ricorderai. E allora cosa stai aspettando? Dai, salta giù, datti una bella spinta, sorridi nel frattempo per esorcizzare i pensieri negativi, i fantasmi, gli spiriti maligni che ti bloccano dentro la routine. Entra nel mondo elitario di chi l'ha fatto prima di te, per poi rimanere parte di questo mondo. Muovi le splendide gambe a piacimento. È solo una scogliera, ricca di amore; è solo un burrone, pieno di speranze; è un immenso cratere, carico di calore, buon calore. Ed è tutto dentro di te. La domanda su quanto sei immensa te la farai dopo, intanto non pensare, non farlo. Non cercare ali che non avrai mai, non sognare l'impossibile. Fai solo così, come ti dice Fabio, salta giù! Lanciati nello spazio e invadilo con le tue bandiere, con i tuoi vessilli, con le tue armature di cui ti libererai durante la planata. Non imitare nessuno, il tuo volo deve essere solo tuo. E non cercare di essere per forza originale, il tuo volo può anche essere simile a quello di qualcun altro. Salta dai, salta giù. Impervia, accattivante, devastante, astrale, roboante, permissiva, gagliarda, viva. Semplice... come la mia richiesta, o il mio imperativo: salta giù. Se vuoi lo faccio insieme a te, mano nella mano.

giovedì 25 agosto 2011

Sciopero

Non scriverò di niente oggi, e neanche domani. Mi fermo, incrocio le braccia. Quindi se state cercando qualcosa qui, sappiate che per sto giro Fabio indice uno sciopero. Non scrivo, perchè non ho niente da dire, o forse perchè ce ne ho tante di cose da ribadire. Non scrivo, e quindi i nemici delle mie anafore non avranno niente su cui cimentarsi con le loro lamentele. Qui, su questa pagina, non c'è nulla. Nulla di nulla. Non voglio scrivere, per dimostrare che a volte anche la comunicazione deve stopparsi. Deve prendersi una pausa. Non scrivo, non voglio, no, no e poi no; “in una notte come questa” è troppo difficile da rendere il pensiero. Vi chiedo perdono, ma non scrivo. Meglio sarebbe prendere in prestito. Fermo al palo, stoppato dalla mia voglia di riflettere. “Sono il figlio e l'erede” di un'incomprensione lunga e larga. E quindi non scrivo, non mi diverto, non mi imbroncio, non navigo pieno di aspettative nei mari della mia immaginazione. Non sorvolo etereo i cieli brummi che mi hanno ridato una vita; non scruto le persone a me vicine, fin quando deciderò io. Non scrivo, prendo in prestito e il “cielo sa che sono un povero diavolo”; non scrivo per non dare vantaggi, per non denudarmi. Solo per questa volta. Non farò un lavoro di attenta costruzione, né mi catapulterò sulla tastiera con l'impeto ribelle della mia istintività. Proclamo uno sciopero; ci sta, di questi tempi. Non scrivo un cazzo, non ho niente da dire. C'ho troppe cose da esternare. Mi sposto di un paio di gradi; potete vederlo come un invito. Su, forza, tocca a voi, vediamo di cosa siete capaci. Non è una guerra contro il mondo. È soltanto una decisione, estemporanea. Oggi proprio non scrivo, e neanche domani, per dimostrare che l'incomunicabilità esiste. Per indossare il costume di chi si chiude a riccio; per ricordare al mondo che con il silenzio si ottiene il silenzio. Non scrivo, no! Regola numero uno: se non vuoi scrivere, non farlo. Magari vai a dormire. Giusto! Non scrivo, sta settimana salta, nessuno si strapperà i capelli, nessuno si morderà le mani. Meglio, mi riposo. Anche se è rilassante, non stressante, scrivere, per me. Ma questa è un'altra storia. Intanto non scrivo, non riempio il foglio per il semplice di gusto di farlo. Non scrivo perchè non hai capito che “ogni giorno devi dire: oh cosa penso della mia vita?”- prendo in prestito. Sì, come le persone ridicole, i pigri, le mignatte attaccate alle vene, di mercoledi sera. Non scrivo, perchè a volte il mio viene dopo il tuo, il loro, il vostro. E quindi SCIOPERO!!! Perchè ogni tanto si può anche decidere di non fare, e chiedere, prendendo in prestito:”dunque che differenza fa?”. Perchè si può anche non comunicare. E quindi oggi non scrivo, in barba alle lettrici del Canada, alla disciplina e al mio istinto primordiale. Non scrivo, oggi e domani, e dopodomani. Riprenderemo a data da destinarsi. Indetto uno sciopero. La mia anima radicale... Non scrivo, ma prendo in prestito:”eppure continuo a volervi bene”. Non scrivo perchè “ci vuol tempo per queste cose, e so di essere l'anima più inetta che sia mai esistita”. Non creo, semmai lo abbia fatto veramente; non butto giù, non metto nero su bianco. E non chiedo a nessuno di comprendere, semmai lo abbia veramente fatto. “Adolescente e nel cuore degli anni, mi lascerai alle tue spalle...”. Non scrivo oggi, Amici Miei Amati, per dimostrare che la comunicazione può anche non esistere. O forse, per dimostrare esattamente il contrario.

venerdì 19 agosto 2011

La Guerra dei Due Mondi

Orde di persone che sanno ciò che vogliono, e di persone che non sanno ancora, o che fanno finta di non sapere; eserciti, temi ricorrenti, barbe che crescono, sguardi assassini, sguardi che uccidono con dolcezza. Il mio braccio destro proteso verso sud, ha tutti i crismi per sentirsi abile e arruolabile. La mia mano sinistra finalmente regge la mia tazza da caffè nuova, quella che mi ha regalato Misci per Natale. C'è chi mi sta tirando proprio per il braccio destro, proteso verso sud, ma lo sta facendo con astuzia. Casa mia è qui, anche adesso che vivo il periodo statico di chi non ci sta capendo molto. È un Agosto strano, fatto di giubbotti e di freddo; fatto di placide attese, inebriato dal ritorno dei vacanzieri che rientrano dopo visite fredde nelle loro case. Casa mia è qui, anche e soprattutto quando bande di ribelli provano a spaccarne il vetro di qualche finestra; quando sento come centro della mia persona quel dato punto della common room in cui mi siedo per scrivere ciò che sto scrivendo. A volte mi ci incazzo, con la vita dico. Mi ci incazzo perchè vorrei che tutto fosse perfetto, ma poi riscopro in me l'onestà di chi sa che un luogo (o un tempo) può anche essere perfetto, se solo stesse fermo un attimo. Qui invece è sempre tutto in continuo movimento, come un pezzo dei Fugazi, come Italia-Germania 4 a 3, come la parabola disegnata da un missile. Allora mi astraggo da tutto e non smetto di pensare, qualcosa che mi porterà una bella malattia sana. L'Uomo degli ossimori. L'Uomo cangiante, mutevole, determinato solo per pochi minuti. Assisto ad una specie di gara, chi la spunterà? Mi siedo e assisto con semplicità, senza farmi troppe domande; lo avete capito finalmente? Io, indurito e poetico, vittima e assassino, guardo e passo, come se non fosse più importante che la vostra natura sia carnefice o semplicemente noncurante. Notti passate a sognare di noi due, in cui uno di noi due sono io, l'altra cambia aspetto, forme, sogni e meraviglie. Gioca, gioca pure con me, o contro di me. Che bello essere Fabio! Che fantastica sensazione scoprire che le percezioni cambiano il gusto e l'olfatto, le meraviglie e i colpi di scena. La mia filosofia è sempre quella, Future Doesn't Exist, ma poi mi ritrovo a pianificare una piccola succulenta vendetta. Te ne farò regalo tra qualche giovedi, in mezzo ai fiori, in mezzo alle lattine di birra, in mezzo ai manicaretti offerti dall'uomo invisibile. La testa continua nei suoi viaggi, va verso il basso e ritorna su. E quando torna su provi gli stessi dolori di quando scendeva, ma sai che sta arrivando il sollievo. Cosa prepariamo per pranzo? Qualcuno mi offre un gelato, io rifiuto, perchè adesso vivo e sento attraverso le cervici, e il cuore lo schiuderò nel momento opportuno, nei momenti opportuni. Puoi provare quanto vuoi ad ottundere i miei incanti, la parte cattiva di me sarà sempre pronta a trovare i mille difetti che ti invadono la faccia. Ma non è poi tanto cattiva quella parte di me. Poi arriva la ragazza dai due nomi... scannerizzerò il cielo, lo farò presto, leggendo due libri. Stacco per un attimo, manderò due cartoline e mangerò una granita. Tanto poi si ricomincia, con o senza la voglia di disciplinare i mesi che verranno. Con la brama di incrociare nuovi occhi, scoprendo il mio inglese migliorato, giocando a calcio nel pomeriggio cupo e dark delle colline del West Midland; sorseggiando un the buonissimo, fumando sigarette costosissime, iscrivendomi finalmente ad un sito di poker on line. Con il desiderio di fermare il tempo, giusto un attimo, per provare a renderlo perfetto. Con l'ingordigia di mettere fieno buono in cascina; con la smania di capire che tutto va vissuto, ma al tempo stesso con l'avidità di “regolarizzare” il tutto un attimo, e magari farlo per sempre. Un camino, un letto sfatto, un parquet, un paio di occhiali, o anche no. Vorrei una frotta di individui pronti a fare a gara per contendermi lì, nel profondo sud. Mi avete da sempre, amici miei, mi avrete per poco, amati miei. Intanto mi godo questa Guerra che non è insensata solo perchè fa parte dell'esistenza; torna in me la consapevolezza che tutto è Vita, ma questo l'ho già detto altre volte, per altre situazioni, proprio altre, diametralmente opposte. Adesso stacco la mia faccia dal pavimento, con cura, senza strappi; mi rialzo, bevo una bevanda alla vitamina C, preparo le gambe con un po' di streching, tolgo le caccolette dagli occhi, mi sistemo il ciuffetto teenager, do due pugni all'aria a mo' di preparazione, metto a fuoco il mondo che mi circonda, ricordo a me stesso che non sono poi così male, e corro verso l'ennesimo colpo bastardo che la vita mi riserverà.

giovedì 11 agosto 2011

Abbiamo Fatto Bene

Lasciare casa, preparare un minimo di bagaglio, salutare tutti. Dare un'occhiata alla common room, che è common room per gli altri, per me è il soggiorno di casa. Dare un'ultima occhiata ai ragazzi. Prendo il treno per Newcastle. Vado a vedere Luca dopo un anno esatto dalla nostra schizofrenica scelta. La stazione, i viaggiatori, il biglietto, lo zaino sulle spalle, il portafogli dentro i luoghi più sicuri; la stazione, quella che mi accolse tanto tempo fa, quella che mi rigettò poco dopo, io e Luca non volevamo andare via. Io tornai poco dopo. La stazione di New Street, lo zaino sulle spalle, le ragazze universitarie pronte anche loro ad andare via. Lo strattone del primo movimento del treno, la stazione che si allontana, la strana sensazione tipica di chi crede di avere forse dimenticato qualcosa. Burton on Trent, Derby, Chesterfield dove ad una ragazza ho spezzato il cuore, Sheffield e il suo carico di bruttezze; e poi ancora Wakefied, Leeds, dove giocava il Maledetto United, York, Darlington e Durham. Prima di arrivare a Newcastle me le faccio tutte; ad ogni stazione le case coi mattoncini rossi, le ragazze sedute, le loro All Star, gli auricolari ormai continuazione dei loro corpi. Spacco l'Inghilterra in due come una mela. La apro per vedere cosa c'ha dentro. La scruto perchè sono da solo; ne sento quasi l'odore. Incrocio lo sguardo con una ragazza asiatica attraverso il riflesso del finestrino. Il finestrino poi mi apre il mondo dell'Isola più famosa del mondo. Il treno traccia una lunga diagonale, dal centro al nord, e casa si allontana. È come se tutto ciò mi stesse dicendo che ne avevo bisogno, che dovevo fermarmi un attimo, che dovevo salire su un treno, che dovevo tagliare l'Inghilterra in due come una mela. Nove fermate, nove volte ridesto lo sguardo dal mio laptop. Mattoncini rossi, ancora una ragazza seduta su una panchina, auricolari alle orecchie, All Stars come evergreen di tutte le generazioni, borsa a portata di vista,; dentro quella borsa c'è sicuramente il suo mondo, la sua roba, tutti i suoi oggetti che hanno col tempo preso anatomicamente la forma che lei ha dato loro. Nove stazioni con il cartello “welcome”, nove volte l'altoparlante interno del Cross Country ci ripete che dobbiamo fare ancora tanta strada. Nove, più Birmingham, la partenza, più Newcastle, l'arrivo. Per un totale di undici. Come una squadra di calcio. La squadra di calcio è lì che mi aspetta, ma è solo una scusa. Un anno, è passato un anno da quella schizofrenica scelta; Luca ha preso una strada tanto tortuosa quanto la mia, anche se la sua vita non è cambiata poi di molto. Sempre le stesse facce, i calciatori...ti guardano seduti nella hall dell'albergo e ti chiedono con gli occhi di cagarli un po'. “Andiamo a mangiare al Mc Donald...abbiamo tante cose da dirci”. Ma non c'è poi tanto da dirsi; basta guardarsi negli occhi, basta ricordarsi che abbiamo fatto bene, che tutto è stato fatto bene; e ancora che abbiamo fatto bene a dire un bell'arrivederci. Mi sembra di stare ancora su quel treno, mi sembra di aver chiesto a Luca di salire and carry on... Come quando sto da solo, mangio un panino in un angolo nascosto nel verde di Newcastle. Città di merda, ma non importa, c'ho un grosso elastico attaccato alla schiena, giusto il tempo di tagliare in due l'Isola come una mela, giusto il tempo di ricordare a Luca che abbiamo fatto bene, il tempo di farmi ricordare da Luca che abbiamo fatto bene. La felpa, lo store del Newcastle United, la pioggia, il freddo. Ancora il tempo di assaporare il clima nostalgico della stazione, e poi via di rincorsa. Casa, Birmingham, mi aspetta. Durham, Darlington, York, Luca è ancora qui con me, anche se sono solo, anche se a farmi compagnia c'è il cielo d'Inghilterra, lo sguardo asiatico attraverso il riflesso del finestrino, le gocce di pioggia che si scompongono sul vetro. Leeds dell'altro United, quello Maledetto, Wakefield e Sheffield, la città delle brutture; montagnole sgraziate e praterie indimenticabili dentro un'estate atipica, almeno per me. Poi il cielo, il malessere che guardo dritto negli occhi, il malessere che sconfiggo, e il cielo, con le nuvole parlanti. Chesterfield, dove ho spezzato il cuore ad una ragazza, Derby, Burton on Trent, ancora stazioni, ancora mattoncini rossi, ancora ragazze solitarie, All Star evergreen ai piedi, auricolari, borse a tracolla... e io, soggetto e oggetto di un lungo rinculo; torno a casa, come fossi stato in apnea, come c'avessi la fotta che non ho mai avuto prima. Come se casa mi stesse aspettando per ridarsi a me. Qualcosa in più, dentro il mio zaino sulle mie spalle, dentro la mia mente che si espande, dentro il mio mucchio di ricordi in disordine. Con Luca ce lo siamo detti, abbiamo fatto bene. Adesso so che lui, insieme ai calciatori dentro un aereo sulla via di Firenze la Bella, mi sa a casa mia, a casa nostra. Casa mia mi rivuole; spalanco la porta, penso a cosa cucinare, indosso la maglietta comprata nello store del Newcastle United. Riorganizzo le idee prima di ricominciare. Ancora stazioni, ancora ragazze con le All Star, ancora auricolari e riflessi di finestrini. Almeno questo, pensavo, prima della Rivolta... Ma sconfiggeremo anche quella, e diremo ancora che abbiamo fatto bene.

sabato 6 agosto 2011

Repetita Juvant (?) -la storia della Signora Memento

Di tutto, succede l'impossibile, ormai non ci si stupisce più. Andiamo tutti alla festa di Matilda. All'ennesima festa, all'ennesimo party; su, a casa di Matilda, che è americana del Vermount, o del Oklahoma, o di qualunque altro Stato Unito. Raggiungiamo il ventottesimo piano dl grattacielo più alto di Brummolandia, c'è tanta gente che ci aspetta. C'è così tanta gente che nessuno risponde al citofono...casinari; e però, c'è talmente tanta gente che quel cazzone del portiere del grattacielo dovrebbe saperlo che ci stanno aspettando e quindi potrebbe anche aprirci il portone. Niente, non si muove di un centimetro 'sto stronzo. “Dai, ormai mi conosci, dovresti saperlo che siamo tutti qui per andare all'ennesima festa di Matilda l'americana; io sono quello delle altre mille volte”- dico io col tono di chi sa usare la proverbiale logica. Vari tentativi, poi l'uomo negletto si muove a compassione: “ok, vai tu”- mi dice, con aria stanca, “e torna con qualcuno, chè io non mi fido”. “Of course, and thanks a lot”- gli rispondo. Poi sussurro un bel “vaffanculo”. L'ascensore è capienterrimo per uno soltanto, specialmente per me che sono un peso piuma, sembra quasi che ci sia l'eco. Dlin, la porta del suddetto si spalanca malandrina, esco fuori e sono già davanti all'ingresso di casa Matilda, la ragazza americana, spesso e sovente ubriaca persa. È giustappunto lei che mi viene incontro; due baci negli angoli della bocca, che non fanno mai male ( la nostra Matilda oltre ad essere ubriaca in modo cronico è anche una gran figa), ed eccomi nel bel mezzo del flat. Kim mi raggiunge tosto : “ciao Fabiooooo” urla indianamente. Nel contempo cerco di spiegare a Matilda che la combriccola sta vivendo la sventura di aspettare giù, che qualcuno vada a prenderli, chè il negletto non vuole farli entrare senza un visto ufficiale. Matilda, col suo sorriso assente, mi rassicura che andrà lei a dirgliene quattro al portiere, e che darà il via libera ai cordialmente convenuti al baccanale. Mi rivolto, ma Kim non c'è più. In compenso mi si avvicina un'altra indianina. “Ciao”- esordisce“tu devi essere il famoso Fabio”. Io penso sistematicamente un glorioso “micacazzi”, lei continua dicendo il suo nome, che non ricordo. Ma non prendetevela con me, vedrete che la mia mancanza è nulla rispetto a ciò che leggerete. La ragazza è carina, ha dei bei capelli lisci nero corvino, due occhi profondi come solo le ragazze del subcontinente a volte sanno avere, la pelle liscia, la carnagione olivastra...insomma, la serata la si potrebbe passare con mucho gusto con la bella indiana. Da dove vieni, dove stai andando, che fai qui a Brummia, da quanto tempo, sei ubriaco...mi aspetto le mille domande tipiche della conversazione che sembra debba scivolare lenta ma lasciva sui binari dell'ordinario. Poi, ad un certo punto succede qualcosa. Mi accorgo che la ragazza, di cui non ricordo il nome, ma vi renderete presto conto che la mia mancanza non mi evita di apparire in confronto alla suddetta una specie di Pico della Mirandola, comincia a ripetere le cose che ha appena detto. “Tu sei siciliano? Quindi mafioso! Ma lo sai che ho conosciuto uno della mafia irlandese?”- mi dice. Bene! Un attimo dopo mi chiede: “da dov'è che vieni?”. Io le rispondo che sono siciliano, ma col tono di chi si è già espresso in tal senso; e lei, quasi con meraviglia, e con la voglia di rendermi partecipe di una specie di segreto mi riinoltra un: “Tu sei siciliano? Quindi mafioso! Ma lo sai che ho conosciuto uno della mafia irlandese?”. Io resto interdetto, almeno un pochino. Ma ci sta, non credete? Poi mi dice che abita negli Stati Uniti, South Carolina, quindi mi chiede: “Tu, come hai detto che ti chiami? E da dove vieni?”. Io resto un lungo, quasi interminabile secondo, a scrutarla; a lei pare che io la stia guardando con chissà quali nascosti secondi fini, quindi ammicca non poco. Ma il secondo interminabile non è ancora finito; penso un attimo che si stia trattando di uno scherzo, ma non ci vedo niente di plausibile in tutto ciò. Realizzo ufficialmente che sto chiacchierando con una demente: “sono siciliano”- balbetto. “Tu sei siciliano?”- dice lei strabuzzando gli occhi-” Quindi mafioso! Ma lo sai che ho conosciuto uno della mafia irlandese?”. Sto quasi per dirle che sì, lo so me l'hai appena detto...ma il famoso genio che si impossessa di me di tanto in tanto mi chiude sapientemente la bocca come se nel contempo mi stesse suggerendo il comportamento da adottare. Allora il mio occhio si trasforma; e da incredulo passa ad essere furbo e maligno. “Quindi, cara la mia indianina, tu vivi in America!!!”- le dico sorridendole con gli occhi. Lei spalanca tutto, bocca sapiente, occhi nero corvino, e narici subcontinelntali: “e tu come fai a saperlo!?!”- mi rimanda incredula e colpita. “Eh, sapessi, io sono un indovino”- sto gioco mi piace da subito- “posso anche dirti in quale stato abiti”. A questo punto Memento, chiamiamola così, sorride di gusto, come se sapesse che la sfida nella quale mi sono cacciato è per me una missione impossibile. “Dunque, vediamo”- faccio finta di riflettere –“Carolina, hai la faccia da Carolina”- dico, e nel frattempo socchiudo un occhio che ho furbescamente chiuso poco prima nell'atto di apparire in tantrica concentrazione- “secondo me vieni dal South Carolina”. “Noooooo”- mi dice Memento l'indianina, la donna a cui manca l'Hard Disk interno. “Dai, hai sentito prima mentre parlavo con quell'altro ragazzo”. “No, sono appena arrivato e non ho parlato con nessuno”. E' ai miei piedi, l'ho con facilità convinta che sono una specie di Mago Otelma, il Divino. La pratica è semplice come bere un bicchiere d'acqua. Basta farle una domanda, attendere la risposta articolata; quindi rifare la domanda e dire, anticipando la risposta: “no, no no, aspetta un attimo, voglio indovinare”. Ci raggiunge Andrea; lei ammicca un pochino anche nei suoi confronti, poi gli chiede: “Tu da dove vieni?”. “Italia”- risponde Andrea. “Italiano? Quindi mafioso! Ma lo sai che...” eccetera eccetera... Andrea sembra divertito e anche un po' interessato. Poi anche per lui arriva il momento in ci deve rendersi conto che sta avendo a che fare con Memento. E la cosa avviene quando lei, trenta secondi dopo il loro primo approccio, gli chiede: “Da dove vieni?”. Andrea risponde anche lui con il tono di chi sottintende: “ma, ma, ma”- ad Andrea piace sottintendere balbettando- “ma te l'ho appena detto”. Non fa in tempo a dire “Italia” che già la Nostra Eroina (probabilmente “eroina” in senso stupefacente) sta già esclamando il suo accorato: “Italiano? Quindi mafioso! Ma lo sai che ho conosciuto uno della mafia irlandese?”. È arrivato il momento di ergerci a novelli Benigni e Troisi, e calorosamente ringraziare Memento per gli attimi di giubilo che ci ha regalato, ma come i suddetti con il funzionario doganale toscano che imponeva loro il pagamento di “Un Fiorino” dimenticando che i due erano appena passati dalla stessa dogana, ci prendiamo la briga di dedicarle l'ennesimo Vaffanculo della nostra vita. Con buona pace del resto del mondo, non so come dirvelo, ma io qui mi diverto un casino, anche per gli incontri meravigliosi con gente come l'indianina Memento, che beve due bicchieri di vodka e si riduce così. Alla prossima festa di Matilda...

giovedì 28 luglio 2011

Tam Tam

E alla fine sei arrivata, ricordandomi che nella vita si cambia pelle, si cambiano i punti di vista, le passioni, i gusti, si cambiano le priorità; ma ciò che non cambia in ognuno di noi è il modo in cui si vive tutto ciò. E' come se mi avessi detto:”Magari è tutto assopito, è tutto nascosto, devi solo tirarlo fuori”. Ancora Musica quindi. Però stavolta va fatto un lavoro di esegesi, perchè si sta tornando al passato, e l'esegesi va fatta per scoprire che niente è cambiato, incrociando le dita. Con un giro vorticoso sto riprendendomi il perduto per provare a catapultarlo nel futuro, o per avere la speranza di farlo. O per avere la certezza di poterlo fare. Ci sei tu, qui adesso, e forse c'eri allora, accompagnata da uno stuolo di Vergini Emozioni; dovrei chiedermi cosa ci fai qui, ma non me lo chiedo, mi godo il momento, anche se corro il grosso rischio che sia effimero, senza nulla di concreto e materiale. Come se non fossi io, come se non si stesse parlando di un uomo, ancora adolescente, che potrebbe fare a meno del pane, sì, ma di quelle sensazioni che non si toccano ma ci sono, eccome, no. “Sedicenne timido e goffo”, dentro la mia stanza, i miei cinque sensi vivi, difficilissimo contenerli, quattro mura, silenzio tutt'intorno, e il giradischi. Il caro vecchio giradischi, il braccio meccanico, la puntina, il vinile. Naturalmente The Smiths. Il primo album. La prima traccia. Real Around the Fontain. Torno al passato, per decodificare il presente, per immaginare un futuro che adesso, forse, guardo con degli occhiali dalla montatura rosa. Mi sdraio sul letto, mentre la batteria di Joyce, per nulla invasiva, per nulla rumorosa, entra nella mia stanza senza affidarsi ad esercizi di stile. Il Poeta è lì che aspetta, il Candido Poeta sapeva già della mia vita con venticinque anni di anticipo. Poi parte: “It's time the tale were told /Of how you took a child /And you made him old ”- “E' tempo di raccontare la storia /Di come raccogliesti un bambino /E lo facesti diventare adulto”. E mi riportasti agli istinti primordiali, e mi ridestasti dalle paure, dai miei drammi; di come mi aiutasti a smettere la panoplia che ho indossato per tutto questo tempo, con pochi gesti, essendo solamente te stessa. Con il tuo colore di capelli, con i tuoi “no” decisi, mentre tendi la mano, mentre nuoto come un ossesso dentro un mare di indecisioni, e magari tu hai la chiave di tutto. Il pianoforte è delicato, nitido, accurato... “Reel around the fountain /Slap me on the patio /I'll take it now ”- “Giro intorno alla fontana /Schiaffeggiami nel patio /Lo prenderò adesso”. Potrebbe anche essere un tavolo da ping-pong, o una cucina affollatissima, un pub con poca gente dentro, ma il rumore non cambia, la voglia neanche. Lo schiaffo non c'è stato, e vorrei che tutto ciò che c'è tra noi fosse solo paura da superare insieme; magari attorno a noi c'è solo notte e oscurità, e le luci possiamo accenderle solo guardandoci negli occhi. Ma senza terrore. Il giradischi continua il suo incedere; il soffitto, che fisso senza soluzione di continuità, si avvicina e si allontana a piacimento. La lampada dovrebbe essere spenta, ma sono troppo pigro per alzarmi, e la canzone continua. Adesso il ritornello: “Fifteen minutes with you /Well, I wouldn't say no /Oh people said that you were virtually dead /And they were so wrong ”- “Quindici minuti con te /Come potrei rifiutarli /Oh la gente diceva che eri virtualmente morta /Ma si sbagliava di grosso”. E sembra così semplice adesso, sembra così immediato, facile da comprendere; già, perchè quei minuti non sono mica solo quindici; è un periodo che sfugge alle regole temporali, e si scaglia con forza dentro una dimensione che è talmente surreale che ci mette nulla a diventare norma, a diventare quotidiano, a diventare ordinario,. Quindici minuti ancora, a scrutare le mie capacità di diventare Servo di una Principessa; a meravigliarmi nel sentirmi a mio agio quando provo a baciarti, a realizzare soavemente che hai spostato di due gradi il mio orizzonte. E hai cambiato la mia rotta. Camicia a quadrettoni, ciuffo impossibile in testa, nervosismo lascivo. “I dreamt about you last night /And I fell out of bed twice /You can pin and mount me like a butterfly ”- “Ho sognato di te la scorsa notte /E sono caduto dal letto due volte /Puoi infilzarmi e incorniciarmi come una farfalla”. E dirlo a tutti, sì, che sono sottilmente fragile, ma che se mi libro in volo malcelo una Meraviglia che ho in comune con pochi altri. E che divido solo con te. Che vorrei dividere solo con te. Come se il viaggio fosse finito, e adesso si torna lì, dove si era prima; ma con nuove disposizioni. E quindi, grazie al Poeta, “Meet me at the fountain /Shove me on the patio /I'll take it slowly ”- “Incontriamoci alla fontana /Spingimi nel patio /Lo prenderò lentamente”, qualunque cosa sia, perchè comunque è Vita, da qualche parte, spero dentro di te... un'acqua dissetante. Qualcosa di assolutamente diverso da quel guardarsi allo specchio e dire con facilità che ci si ama. Non ti chiederei mai di raccogliere i pezzettini del mio essere e fare un certosino lavoro di ricomposizione; ti chiedo solo di essere te stessa, al resto ci pensano i desideri, le ricerche, le olive verdi, la mia mano sulla tua. Il Poeta grida oppiaceo il suo “I Do”, mentre io lo ripeto con forza, come se lo volessi aiutare. Come se volessi farmi aiutare da lui. Poi la puntina del braccio meccanico salta, e si porta su un altro pezzo, “Hand in Glove”, la parte in cui dice “But I know my luck too well /And I'll probably never see you again ”- “Conosco benissimo la mia sorte /E probabilmente non ti rivedrò mai più”. Grazie per la meravigliosa adolescenza, che continua ancora oggi, anche per merito tuo. Perchè l'innamoramento sembra più vero quando non è corrisposto. Il Candido Poeta Docet...

giovedì 21 luglio 2011

Un Ottimo Raccolto

Vorrei chiudere gli occhi e addormentarmi... Nel periodo Pavement, arriva la domenica, quella domenica. Sono Fabio Pantuso, ore piccole che stavano per diventare grandi; e poi nove del mattino, una sveglia repentina, ma no, ho ancora sonno. Due ore di dormita pesante supplementare, eppure lo spazio di pensare, di scandagliare, di contemplare tutto ciò non manca... Nel periodo Pavement, alle undici e qualcosa, puntuale, arriva la telefonata che mi sveglia, arriva la telefonata di Sciù. “Mi stavo rotolando sul letto, tanti auguri Piccolo Mio...”. Si resta piacevolmente interdetti dopo questo tipo di attrattive, si resta colpiti a morte, una morte dolce come una giostra che si stacca dal perno e ti guida verso mondi lontani, poi cambia docilmente direzione, poi sceglie per te dei binari da seguire, poi cambia ancora... Sono Fabio Pantuso, nel periodo Pavement, colonna sonora “...And Carrot Rope”; il passaggio da un building ad un altro è quasi cadenzato, la common room del Backpackers sembra ovattata, sembra un tonfo sordo. Qualcuno mi guarda con curiosità, altri mi accolgono con un sorriso. Una lavagna reca scritto un grosso “buon compleanno Fabio”- resto lì per un momento. Facebook, il suo carico di frasi a effetto, di parole ricercate. Le distorsioni lo-fi dei Pavement stanno lì nella mia testa mentre cerco di non piangere quando leggo di Angelo e del suo pensiero rivolto al sottoscritto. Poi Valeria sembra darmi il colpo finale, lei e quella frase che mi accomuna ai suoi uomini, a quelli della sua vita. Sono Fabio Pantuso, nel periodo Pavement, dentro una cerchia di uomini eletti, siamo in tre, io, un avvocato e un karateka. Con Francesca abbiamo fatto le cinque del mattino, ore piccole che stavano per diventare grandi; adesso siamo per la strada, camminiamo lei e io, Fabio Pantuso, nel periodo Pavement, colonna sonora “Major Leagues”; arriviamo allo Spotted Dog con notevole ritardo, ma non c'è ancora nessuno. Poco male. Sembra quasi che lo sapessi, arriveranno tutti alla spicciolata. Dentro il letto, tra le nove e le undici, prima della telefonata, prima del giorno, nell'attesa, tra le paure, tra le ansie, con gli inganni, con le certezze, anticipando la domenica, quella domenica, provo la stessa sensazione che si prova quando tocchi le mutandine di una ragazza e immagini che siano di un colore che poi è diverso da quello che è in realtà. Fabio Pantuso, a passeggio sotto la pioggia di luglio, insieme ad una bambina di venticinque anni. Arriva la gente alla spicciolata, ma questo l'ho già detto. Questo lo sapevo già. Torte per Fabio Pantuso, anche se nessuno sa che sono nel periodo Pavement, un'altra volta. Si ride e si scherza in tutte le lingue. Montse è maestosa come il Santiago Bernabeu, è grande e maestosa sì, come qualcosa in cui capita sempre qualcosa di bello dentro. Seila mi schiaffeggia come se volesse ancora dimostrarmi il bene che mi vuole; mi fermo per un attimo, mi ridesto. Adesso la festa è lì, scatto una foto, poi metto la fotocamera in tasca, quindi scatto un'altra foto. Sono Fabio Pantuso, con entrambi i piedi dentro il periodo Pavement, colonna sonora “You are a Light”, e c'è tutto o quasi. Tutto o quasi. Angela ha smesso subito di essere figa e adesso è un'altra sorella. Una sorella che si è messa lì e mi ha cucinato quattro torte, o cinque, e chi le ha contate più... Matteo sembra il paggetto che annuncia l'avvento della mia Famiglia. Arrivano alla spicciolata... Manca Zoltan, cazzo, che è partito per l'Ungheria; mancano Jani e Mescia che stanno lavorando. Ma la mia Famiglia è lì. Sono Fabio Pantuso, inebriato dal sapore di protezione, con Frank che mi guarda da lontano, con Sam e Mathilda che giocano a fare le damgelle, con Anne triste. Fabio Pantuso, dentro il periodo Pavement, è chiaro che la colonna sonora è “Annie Don't You Cry”. I ragazzi italiani, Susi e Kasia, la griglia per cucinare la carne, la giornata uggiosa tutt'intorno, ma Battisti non c'entra, è il periodo Pavement, e la giornata non finirà mai. Anche Andrea mi osserva da lontano, Andrea mi scruta da vicino; poi mi dà il suo regalo, un altro cappello. Sono Fabio Pantuso, l'Uomo dei cappelli. E poi non c'è stanchezza quando andiamo via da lì; torniamo in ostello, anche se il compleanno non è finito. E la giornata cominciata con la telefonata di Sciù adesso sembra divisa in capitoli. Sono Fabio, sì, Fabio Pantuso, intento a scaricare centotrentotto foto sul laptop, colonna sonora “Infinite Spark”. Vieni un attimo qui, mi dicono. Questo è il tuo regalo, sentenzia Misci. La mia nuova bicicletta è tra le mie mani, il resto della combriccola mi circonda, quella cazzo di “Infinite Spark” è troppo corta, e sento che potrei piangere da un momento all'altro. Non male, per uno che ha minacciato di uccidere un uomo in quello stesso luogo non meno di due giorni prima. L'hai meritato, l'ho meritato. Torte per tutti, c'è da festeggiare, anche se non mi ricordo più quanti anni compio. Vado a vedere Gennaro che suona in un pub; Gennaro con i capelli raccolti in una coda; Gennaro che suona alla destra del ragazzo greco. “Questa è per Fabio, che oggi fa il compleanno”- dice la cantante. Ancora quattro salti, ancora succhiare il succo e mordere la polpa di questo giorno straordinario. Ancora e ancora. Poi torno a casa, mi accompagnano con la macchina, ma io preferisco immaginare di tornare a piedi. Sono Fabio Pantuso, a passeggio sotto la pioggia di luglio verso Coventry Street, tre tentativi di suicidio, le telefonate di Sciù e di Christian, una bicicletta nuova. Fabio Pantuso, nel giorno del suo compleanno, nel periodo Pavement, colonna sonora “Transport is Arranged”. Ho proprio fatto un ottimo lavoro, e il difficile è passato, non arriva adesso; e finalmente posso chiudere gli occhi e addormentarmi...