sabato 9 giugno 2012

Fuori dai Cori

Confusione nella mia città, che vive di falsa religione mista a storico paganesimo, e di calcio, calcio e calcio, con aggiunta di pandemonio mediatico in cui, a volte converrebbe un sonoro ahinoi, tutti hanno voce in capitolo. Parliamo di calcio, o di quel che resta di questo amato sport, vissuto nella penombra dell'obelisco, tra le falde di un monte vulcano che si frastagliano fino a divenire roccia nera, sabbia fine, ciottoli odorosi, e il tutto si poggia in un mare speranzoso. Parliamo dello sport che ha smesso di essere tale, e dopo aver toccato le corde della cultura popolare, si è messo a fare il birichino, tentando la via del dolo e della distruzione dei sentimenti. Non sempre riuscendovi. Dal mio edulcorato punto di vista all'estremo nord dell'Europa non posso dire di avere in mano il polso della situazione; posso immaginare, facendo leva su ciò che leggo un po' qua e un po' là, che esiste una buona fetta di miei concittadini, di nati cioè sotto lo stesso cielo sotto il quale ho visto per la prima volta la luce, che ha un curiosissimo modo di riflettere e, immantinente, di esternare il riflettuto. Il Direttore, con il suo carico di cattiva creanza, con le sue “bastonate nei denti” dispensate alla bisogna, con i suoi modi da padre-padrone è andato via. Ha lasciato la squadra, la società, il Presidente, la scrivania, la finestra dalla quale osservava, novello signorotto, il feudo di Torre del Grifo, laddove calciatori bravi ma sconosciuti, o calciatori sconosciuti intenti a diventare bravi, si prodigavano nella pratica dello sputare sangue e sudore, al fine di ottenere di entrare nelle grazie del signore succitato. Ho osservato il lungo incedere del Direttore nella sua parabola rossazzurra, dapprima da semplice tifoso, poi, via via, da addetto ai lavori (onestamente ero un addetto ai lavori atipico, se, com'è vero, mi permettevo di dire cose che nessun altro collega poteva dire, per via del fatto che la mia noméa aveva i crismi della “licenza di uccidere” col sorriso), un addetto ai lavori che a poco a poco conosceva il suddetto, costruendo nel tempo anche un rapporto di velata amicizia personale. Ma il Direttore era, è e resta un personaggio scomodo, ricco di sfaccettature spigolose, ingrato che rende ingrato chi gli sta attorno; ma a scoppio ritardato. Quando si è concretizzata la fine dell'idillio, da più parti ho scorto urla di giubilo e apoteosi degne dei botti di capodanno. Fine di un'era oscura, fine dei giorni dell'apocalisse, fine di una dittatura aspra e medievale. “Che vada via”, è stato altisuonato a squarciagola mentre le membra di Pietro facevano già capolino sotto la Lanterna. Facile no? È agevole quanto elementare gettare via una maschera per, magari, indossarne un'altra, giusto per far piacere al nuovo corso; giusto per far piacere ad un Presidente che da qualche tempo ha smesso i paraocchi, ha dimenticato tutto ciò che negli anni gli è passato davanti, e ha scoperto di essere un impavido attore del mondo del calcio. Salvo poi, e in questo i miei concittadini sono maestri mondiali, dare un'occhiata sospettosa di tre quarti al nuovo arrivato, chè ancora ha da dimostrare ciò che vale. Però la domanda sorgerebbe spontanea a chiunque: cosa vale in questo sottobosco sociale calcistico che degnamente rappresenta il mondo reale? Valgono i modi e le espressioni? La comunicazione e le gentilezze mediatiche? Valgono i biglietti omaggio a “Lei e Signora”? Oppure, infine, valgono i risultati, soprattutto in una piazza in cui, per tanto, troppo tempo, si è mangiato pane con amaro companatico fatto di terra di campi di periferia, Tricase, Olbia e Gravina? Un giorno, quando ancora Torre del Grifo era meta giornaliera di carpentieri e muratori, e bisognava entrare lì dentro muniti di elmetto a norma di legge, il Direttore mi disse, in uno dei suoi (pochi) slanci di familiarità, che gli avrebbe fatto piacere pranzare con me proprio lì, in cantiere. Il pranzo fu un panino simpaticamente rubato dalla cesta degli operai, naturalmente. Durante quel pomeriggio in cui distinsi a occhio nudo l'eccitazione del Direttore che vedeva la sua creatura crescere sotto i suoi occhi, parlammo di tante cose. Io non sapevo, o non mi rendevo conto, che di lì a pochi mesi la mia vita sarebbe cambiata, e il Direttore mi raccontò, come è solito fare, una marea di aneddoti. Mi parlò di errori, di sviste, di atti dovuti, di giocatori venuti dal Perù che non avevano più voglia di giocare al calcio e che, spronati da Pietro, avrebbero continuato la carriera, fino a raggiungere mete insperate. Mi raccontò di giocatori finiti ceduti per intere fortune, e di giocatori rotti smistati a grandi società; parlammo di tecnica e di tattica, del gioco del calcio come va inteso anche da chi, fortuna sua, in quell'ambito ha la grave “incombenza” del maneggiare danari per interposta persona. Ogni volta che parlavo con lui, e l'ultima volta è stato lo scorso novembre, quando con suo fare mi disse che avevo scelto la città “più brutta di Inghilterra” come luogo in cui vivere, ho sempre avuto l'impressione che oltre ai muri, lontano e vicino a noi, ci fosse sempre stato il tumulto latente di chi avrebbe fatto volentieri a meno dei suoi servigi. E ogni volta ho intravisto il palesarsi della sua armatura, della sua difesa ad oltranza, sempre e comunque “per il bene del Catania”. E allora mi chiedo, armato di quel piccolo ma costante fastidio che ti tedia l'animo ancor prima che il corpo: dov'è finita l'intelligenza machiavellica? Come fa un popolo di “so far tutto ma...” a non avere l'acume di zittirsi, di chiudere gli occhi, di non soffermarsi sulle forme e concentrarsi sui contenuti? A che titolo ci si arroga il diritto di puntare indici tesi su chi ha compiuto un miracolo? Perchè di miracolo si tratta. Il miracolo di una azienda prospera ed arzilla che rappresenta in serie A una città da radiare; il miracolo di essere lì, nell'Olimpo della sfera di cuoio, nello scintillante pianeta della pedata, che scintillante, conviene sempre ricordarlo, a Catania negli ultimi quasi due lustri non è stato. Perchè bisognava tenere i piedi per terra, perchè di pane si vive, di sogni ad occhi aperti si può durare un fiat. E ancora “perchè comprare un attaccante di nome per fare felice la piazza può significare andare in B, e il gioco è fatto”. E invece i catanesi, che ancora oggi stropicciano gli occhi per la perla dell'uruguaiano contro l'Inter o per la lunga parabola del calatino in quel di Palermo, tassello luccicante di un poker che fa storia prima ancora che leggenda, oggi si ammantano della veste prestigiosa di chi ci è arrivato lì. Senza chiedersi il perchè e il per come. Perchè si fa il tifo per la maglia. Dimenticando che qualcuno quella maglia, per fede o per moneta sonante, la deve indossare, e poco importa se poi in campo si va in undici, quella maglia la indossano tutti coloro che dopo la sveglia hanno l'incombenza, il dovere, il piacere, e persino l'onore di operare nella società rossoazzurra. Lui ha inculcato tutto questo, facendo rinascere dalle ceneri gaucciane, tanto per rimanere nel recente passato, una società che mai come adesso si è appropriata di un'identità che ha solcato il terreno del giuoco del calcio nazionale. Solo con quello spirito di abnegazione, mai conosciuto dalle parti della Sicilia Orientale, e che ha richiamato, chissà perchè, i vituperi dei buontemponi, si poteva superare di slancio la tragedia del Due Dicembre. Potrei continuare per tanto ancora, rischiando piacevolmente di essere stucchevole. Tutto ciò che ho visto, da spettatore a metà strada tra la tribuna (ma non la curva, popolata da persone con le quali non mi riconosco) e la mix zone, dai banchetti della quale davo il mio piccolo, quasi insignificante contributo, è stato un crescendo irresistibile di prestigio e storia, questi sì tanto veri, che pare abbiano ignorato tutte le malignità dei petulanti da solotto e degli avvocati prestati al commento tecnico. C'era, da quel lato, dal lato di chi apriva gli occhi e la mente, un fiore che germogliava in mezzo al niente e al letame, mentre si ledevano le loro maestà di presentatori televisivi e di politici politicanti. C'era, a dispetto di coloro che si allenavano nella pratica dell'arricciamento del naso, una creatura da forgiare e da lasciare che andasse sgabbettando lungo la penisola italica. E intanto “quell'addetto stampa non va bene”, “quest'anno non abbiamo comprato nessuno”, “ma perchè non possiamo andare in Coppa Uefa?”, mentre facendosi i calli alle mani, il Direttore teneva ben strette le briglie di una realtà che, la storia lo ha detto e non vi è alcuno che possa confutare, doveva essere trattata solo così. Facendo finta di niente quando si trattava di lasciar perdere, e sguainando la spada quando a perire dovevano essere coloro che minavano la tranquillità di un'isola felice che ha fatto calciatori maiuscoli ragazzotti provenienti dalla serie C argentina. Resta la confusione, che sa tanto di entropia; resta l'amarezza che per l'ennesima volta in questa nostra storia fatta di recriminazioni (tante) e di applausi meritati (pochissimi), non c'è una stretta di mano che funga da lodevole commiato. Resta la falsa religione mista al becero, storico, paganesimo, e il calcio, calcio e ancora calcio, vortice doloroso che investe umanamente con la forza di un pandemonio mediatico in cui, ahinoi, tutti hanno voce in capitolo.

sabato 2 giugno 2012

Quando e Lei fanno Ooohhh

Sapevamo che sarebbe finita, ma ce la facemmo durare. Noi sapevamo benissimo che, nel dramma di un'esistenza di uomini, di uomini veri, tutto avrebbe avuto il sapore del mortale. Lo sapevamo in quattro; ognuno di noi, diversissimo dagli altri, sapeva quel poco che bastava per contenere l'urto di un avvenimento senza precedenti e senza strascichi, ognuno di noi aveva la consapevolezza che sarebbe stato unico, molto più isolato che straordinario. Ma è stato stupendo... Giovava un pizzico di spavalderia, ci servivano una manciata di gesti sfrontati, anche se da questa parte della barricata a comandarci a bacchetta c'era la Paura in persona. A pochi giorni di distanza sembra tutto così ovattato e avvolto nel mistero e nelle nuvole sconsiderate di un periodo che invece ci ricorda l'estate; a pochi giorni da una circostanza molto più che desiderata resta la presa di coscienza che forse non si è verificata. Ma era troppo reale; Quando, con le sue false timidezze, si è lanciata in un volo di un metro, e tutti abbiamo applaudito. Lei che vinceva le sue, di timidezze, sfoggiando un'aria quasi sicura; immergendosi in un lago di controsensi, sfidando la sua natura provinciale. Un altro sorso alla Stella, un altro sguardo alle stelle. Erano le dieci ma era mezzogiorno, erano le dieci ma era fermo il tempo. Gli occhi, occhi di una sola fattezza, e le braccia si sono bloccate, mentre ridevano tra loro, mentre ci prendevano in giro, mentre usavamo paroloni impegnativi. Grazie al cielo è successo però. Perchè a noi sarebbe bastato quel poco, anche se a tempo, anche se ad orologeria. “L'amore è vero e reale ma non per gente come noi, amore mio”. Niente più patatine perchè la grassezza è dietro l'angolo, mentre dall'angolo più scrutato facevano capolino un paio di occhiali da vista. Zumba pomeridiana, scommesse, giochi ed esperienze ludiche; e poi ancora matti, matti di un amore che salta gli Urali con un balzo felino, di un amore che salta a piè pari le ipocrisie dei paladini dei luoghi chiusi e ottusi, chè noi siamo esseri superiori e ci sforziamo di capire. Se solo loro capissero anche questo, se solo loro accompagnassero questa astuta ed immane coincidenza. Ma torniamo lì, se potessimo farlo ogni giorno, ogni notte, ogni singolo istante di questa esistenza che prende senza dare, e quando dà elargisce poesia. Già, poesie, ce ne vorrebbero a bizzeffe, perchè sapevamo benissimo che sarebbe finita, e ce la facemmo durare finché non ci avessero buttati fuori dal locale, finchè non ci avessero detto che era arrivato il momento di andare a dormire. A sognare, magari. A fare la conta striminzita delle magie, a fare il processo finale, a commentare ancora ed ancora. Mentre avevamo una colonna sonora sullo sfondo, mentre si rideva di pochezze infinite, mentre le palline entravano in buca accompagnate da “ooohhh” disarmanti, mentre tutto intorno era muto e sordo, sapevamo benissimo che sarebbe finita. Sapevamo che quel momento non sarebbe durato per sempre, ed è per questo che lo abbiamo amato di più. Ed è per questo che è stato stupendo...