giovedì 29 settembre 2011

Frankamente

Sam si scaglia sulla tua vita con violento impeto, inversamente proporzionale alla sua stazza, mentre il postino entra senza guardare dove mette i piedi, intento a leggere per l'ennesima volta il nome del ricevente la missiva; i due orologi attaccati al muro ci ricordano l'ora brumma e quella ungherese. Si gioca e si scherza, dentro il Bacpackers Hostel di Birmingham, West Midlands, United Kingdom. E ancora lattine di birra, le mappe che ci dicono dove siamo e dove vorremmo andare; c'è sempre qualcuno seduto al computer che si può utilizzare liberamente in barba al cartellino che dice che l'operazione costa 50 p ogni trenta minuti. Che differenza fa se la filodiffusione ci propina un canto gregoriano, un pezzo di metallo pesante o un capolavoro dei Joy Division, uno qualsiasi? Io mi siedo nel mio angolo di mondo, e poco importa se ogni tanto c'è chi se ne impadronisce prima di me; restano i pensieri, le ossessioni, i miracoli. Fabio il cartomante di sè stesso non sempre ci prende, e l'entropia che si forma è talmente emozionante che pare l'abbiano cantata gli Housemartins. Le feste, le foto, i riti propiziatori, un Magnum alle mandorle; compri i condoms e il ragazzo del negozio ti fa l'occhiolino; il Brasile, col suo carico di poetica tristezza; ancora una volta fuori a succhiare da questa cannuccia che però pare troppo sottile. Il giovedi sera con davanti un Bacardi, mentre con Tam Tam si discute di guerre e di libri che raccontano di guerre, e di soldati, e di Russie che vincono, e di Russie che danno il loro grande contributo all'umanità. Ma quando torno lì, nella casa che mi accoglie, a volte dimentico quanto quella casa è caleidoscopica. Perchè hai voglia, Fabio, a fare ancora la pantomima eterna della vita liceale, con le ragazze che nei giorni in cui tutto sembra andare per il verso giusto, fanno la gara per farsi le foto con te... Arriva sempre il momento in cui lo sguardo si posa benevolo su Frank.
Frank è il mio roommate, il mio compagno di stanza, il mio coinquilino; ma più semplicemente Frank è Frank. Ha 42 anni, ma ne dimostra 70, cento, diecimila! È nato a Praga, quando ancora Praga era la capitale della Cecoslovacchia. Frank è un uomo presente, anche se non ti accorgi di tutto ciò se non ti ci metti di impegno. Ha i capelli lunghi e bianchi che raccoglie quasi sempre in una coda appoggiata sulla parte superiore del capo che lo fa sembrare un novello occidentale samurai. Ha la barba bianca che lo rende simile ad uno di quei vecchi marinai portuali che hanno sempre qualcosa da raccontare. Ha le rughe che sembrano solchi, e dentro quei solchi c'è lo spazio necessario per comprendere tutti i vissuti di un uomo che si capisce a occhio nudo che ha saltato una lunga serie di passaggi. Frank con un matrimonio alle spalle, che ha avuto a che fare con una stronza che lo ha trattato male. A volte le persone non si rendono conto di quanto sia importante il loro apporto nel rendere speciale una persona che altrimenti sarebbe normale. Ma questa è una storia lunghissima da raccontare. Frank il giramondo, lo immagino intento ad armeggiare coi pezzi del motore della Land Rover che ha comprato su E-Bay, mentre rivive i suoi trascorsi a Los Angeles, California. Lo immagino seduto con le gambe incrociate, ad osservare l'orizzonte, a rivedere mentalmente un cartoon ceco, a rileggere quel passo di quel libro. Frank rolla una sigaretta, si staglia dal suolo coi suoi centottanta e più centimetri; la Foster a portata di mano, mi sorride e mi ricorda che siamo fratelli, sì, ma di madri diverse. Frank, un paio di braccia, cento storie da raccontare, a volte tenute gelosamente dentro un misterioso scrigno, milioni di pialle recapitate da chissà quanti mondi e paesi che poi il nostro sistema gelosamente dentro il laboratorio di falegnameria che ha approntato dentro l'ostello; Frank a volte sembra schizofrenico, ma non mi ha mai fatto paura; sembra che cammini con un paio di forbici in mano, sembra che debba scoppiare da un momento all'altro, sembra che la signorilità gli appartenga come fatto spontaneo. Lui di sera si piazza davanti al computer del bancone e comincia a puntare il click del mouse su youtube: i Pixies, soprattutto, per farmi piacere... poi sorride ancora, aprendo i solchi vitali delle sue rughe. Quando è andato via per due settimane, io mi sono sentito un po' sperduto, tant'è che una volta tornato, gli ho sussurrato un “never more”. Ancora solchi, ancora rughe, ancora sorrisi, mentre Frank prepara per sé un piatto di pasta, mentre si accomoda nel “suo” ufficio, direttamente subito dopo l'entrata della common room; una risposta per ogni domanda, di cui lui però non fa sfoggio se non sei tu a chiederla. Lo immagino ancora, chissà, da qualche parte a fare autostop, da qualche parte ad amare una donna, da qualche parte a piangere per il padre morto. Frank non ha paura di niente, soprattutto delle sensazioni umane che di tanto in tanto si provano. E non interviene in cause che non lo riguardano; se gli chiedi la sua non ti liquida su due piedi, ma non si dilunga a dismisura. È didascalico, Frank, ma appare più come un quadro appeso ad una parete di una chiesa. Frank incede né allegro né triste, con le braccia forti da novello San Giuseppe Falegname, sposta il posacenere, perizia la nuova pialla che sta dentro la scatola di cartone, succhia dalla sigaretta appena rollata, e poi mi guarda. Frank mi guarda e mi ricorda che andrà tutto bene, chè la vita non deve per forza essere quella che dicono loro. Qualcuno incontrandolo potrebbe pensare che non sia normale, io sono sempre più convinto che la sua normalità sia talmente propria da renderlo speciale. Siamo una famiglia, Frank me lo sussurra senza dire niente, siamo fratelli, sì, anche se di madri diverse.

giovedì 22 settembre 2011

Cambiando i Tempi e i Modi

Come ti senti? Come stai? E adesso? Adesso niente, sto bene, la vita continua. E ti dirò il perchè. “Mi vedo con un altro”- fu la sua frase; non mi guardava negli occhi, si sentiva disarmata, dilaniata dal senso di colpa, smarrita. Cambiano i tempi verbali, i modi, le persone. La mia prima reazione fu chiedermi il perchè di tanta indecisione. “Mi vedo con un altro,”- sarebbe dovuto essere un macigno, una freccia scoccata da chissà quale angolo sconosciuto del mondo. E invece? Invece, ancora una volta, pieno di speranze, speranze che questa nuova brumma giovinezza non finisca, ho pigiato sul tasto play ed è partito un pezzo dei My Bloody Valentine... Grazie, chiunque tu sia, grazie di cuore. Perchè, come dico spesso, adesso questa è vita. Si beve caipirinha, si sorride e si gioca; qualcuno mi dice che forse è arrivato per me il momento di avere anch'io una ID card dell'Università di Aston, c'è anche chi mi mette in mano una fotocamera, “fai qualche foto per me, please”. Poi arriva Andrea, mi porta un panino con dentro la carne, forse sto urtando la sensibilità di qualche vegetariano. Ma in fondo chi se ne fotte. Arriva la Grande M, con in testa una fascia che vorrebbe millantare per cappello; sorride la Grande M, come se volesse celare la immensa tristezza che la sta attanagliando. “Ci siamo già conosciuti”- mi dice un pakistano. È chiaro che ci siamo già conosciuti, cazzone, penso. Il brasiliano continua a sfornare caipirinhas a gogò, sfoggiamo i nostri telefonini di ultima generazione, sfoggiamo le nostre battute spiritose da alticci, sfoggiamo il nostro sapere immerso nel sapere. Poi arriva lei, col suo cappottino degno di cotanto freddo. Il resto è maledettamente ovattato. Sembriamo chiusi dentro un sogno che si trasforma, non dirò in cosa. La sua faccia è a pochi centimetri dalla mia. Cambiano i tempi verbali, i modi, le persone singolari e plurali. Lascivi e incontrollati, sento di essere sempre infatuato, sento di essere tornato in salute. Il party d'addio è tutto intorno, non ce lo stiamo dimenticando. “Posso farti una domanda?”- le dico. Lei vorrebbe sentirsi su un paio di blocchi di partenza e fuggire via. E invece annuisce, come una maestrina che sta lì per quello, fai tutte le domande che vuoi. “Perchè?”, semplice come una sciarpa stretta attorno al collo, come la foto di un tramonto, come due mani che si congiungono. I suoi occhi rotearono, cambiando i tempi e i modi e le persone. Il giardino sotto di me si fece molle e incontrollato; centinaia di sguardi mi osservarono, centinaia di paia di orecchie si tesero per carpire, centinaia di busti si torsero per acchiappare... I suoi occhi, ancora, lontani oltre le frasche, dentro il campus, verso l'ottavo piano di quel palazzo lì... “Mi vedo con un altro”. Un fulmine ti colpisce, di solito, e ti fa male, ti stordisce, ti annienta se vuole; non finsi, non ingaggiai combattimento alcuno, mentre i tempi e i modi cambiavano. E cambiano ancora. Sono sempre Fabio, il Fabio che hai conosciuto. Magari qualche festa in più, qualche apparente follia facilmente reperibile tra le pagine virtuali dei social network. Ma sono sempre io, cazzo! E da vittima indifesa mi trasformai naturalmente in uomo fatto. Cambiando i tempi e i modi verbali, tendo la mano, non preoccuparti, ci vediamo domani per un drink, facciamo una chiacchierata, magari proverò a farti cambiare idea. Non c'è poi molto da ribadire, l'amore è solo uno specchio multiplo che si diverte a riflettere quelle poche, migliaia di facce che hai. “Avevo paura di farti del male”- mi disse. “Sei sicura che non avevi paura di fare del male a te stessa?”- le avrei detto a parole, ma bastarono gli sguardi. Gli sguardi di lei in fuga continua, il mio inusualmente fermo sulle sue pupille, il giardino, sabbie mobili, battuto e distrutto. “ Ecco a voi il Re di Birmingham”. Sì, andiamo tutti allo Yardbird, a bere un Cuba Libre, a chiacchierare ancora ed ancora. Lei non venne, ostinata, cambiando ancora i tempi e i modi, le persone, i singolari e i plurali. Cammino da solo per le strade del City Center, sacramento un po' di qua e un po' di là. Ma la pioggia sottile che mi punteggia il viso mi ricorda quanto sono vivo, anche in un momento di positiva sconfitta come questo. Quindi, “come ti senti? Come stai? E adesso?”. Adesso niente, la vita continua, continuò. Continuerà!!!

giovedì 15 settembre 2011

Marga e le Farfalle

“Sono Margarida, aspetto con impazienza il mio momento; nella sala, tra le nuvole, acciuffando con grinta tutta la mia concentrazione. Sono Margarida, alimento le mie speranze con la forza della mia giovinezza. Tra un po' è il mio turno; tra un attimo. Un attimo ancora, ancora una volta in bilico. In bilico tra due situazioni diametralmente opposte: la musica e il silenzio dell'anima, la tristezza e il coraggio. È quello che ho sempre sognato, suonare, pigiare sui tasti neri e bianchi e muovere l'aria, e produrre suoni che diventano musica, e cercare l'infinito, e cercare la perfezione. Sono qui, con la voglia di scrutare attraverso le quinte per vedere chi c'è; oppure no. Respirando, facendo esercizi mnemonici, storcendo il naso, sorridendo nervosamente. Margarida io, troppo attratta da questa favola che oggi un po' odio, perchè mi porta lì, a un passo dal burrone. Ho scelto il vestito, ho scelto le scarpe, ho scelto lo scialle. Ho scelto di dire a tutti del mio recital, e lascio per il momento che le farfalle si impadroniscano del mio stomaco...ho paura, o forse no...”

Ci provo. Ci provo a dare un senso ai pensieri di Margarida, portoghese di Lisbona, pianista, occhi che tentano di celare con difficoltà insormontabile una fanciullezza appena passata. Adesso sono seduto sulla parte destra della platea di questo freddo teatro. Tetro, questo luogo, perchè sono sensibile. È uno di quei giorni in cui la mia sensibilità mi rende più vulnerabile; è uno di quei giorni strani in cui faccio scelte condivise da pochi. Adesso mi rendo conto che formiamo veramente uno sparuto gruppo dentro questa sala immensa che contiene i convenuti. Margarida ha chiesto a tutti di venire al suo recital di fine anno. Suonerà il piano per noi, e per chi avrà l'onere di giudicarla. Ma il giorno è feriale, l'orario inconsueto, il tempo fa le bizze. E allora il gruppo è sparuto. Il cielo brummo, fuori da qui, è grigio; è perfetto per la musica di Margarida. Mi muovo un po', giocherello con il programma che mi hanno dato all'ingresso, metto il cappello al contrario, poi mi risistemo, tiro fuori il telefono, scorro con lo sguardo la sala costruita con tecniche moderne, ma qualsiasi gesto è rumoroso. La eco di una sala troppo grande sembra quasi un aquilone gigante che pervade tutto e tutti. Sento l'emozione salirmi addosso, una solidale emozione per Margarida che suonerà per tutti noi, perchè è uno di quei giorni in cui sono sensibile, talmente sensibile che raggiungo una vulnerabilità che mi farebbe gridare:”ok, fate di me ciò che volete”. Ci provo ancora...

“Sono Margarida, quella nota provata e riprovata non potrà fare andare tutto in malora; andrà tutto bene. Deve!!! Tra le stelle, nella mia stanza, e adesso qui, senza finestre, con le mani sulle ginocchia, sempre in bilico, sognando un trionfo; oppure no. Che tutto passi, il formicolio ai polsi, il disturbo al basso ventre, è sempre la stessa storia. Lo farò, lo farò ancora. Margarida, partita dal Portogallo e capitata qui, per ora, dove la musica è apprezzata, dove posso inseguire il mio sogno. Basta così, tra un po' è il mio momento. Chissà chi c'è, chissà chi è venuto, chissà come sarà...”

Vorrei che tutto passasse in fretta. Eppure questo luogo mi mette pace. È armonico, come una pedalata senza fatica; di più, come un sonetto di duecento anni fa. Vorrei che questa sensibilità, che mi rende vulnerabile, mi abbandonasse, solo per il gusto di sentirmi più forte. Anzi, vorrei tanto riuscire a traslarla, questa sensibilità, vorrei trasformarla in qualcosa di utile per me. Ma come si fa? E come farlo anche per Margarida? Che è portoghese di Lisbona e tra un po' suonerà per me, e per pochi altri convenuti. Uno sparuto gruppo. Coloro che la giudicheranno stanno lì, al centro perfetto della platea; poi ci sono gli amici, una ragazza dai lineamenti asiatici, un ragazzo col cappello. Anche io ce l'ho, il cappello, e ogni tanto lo rigiro al contrario per fare scorrere il tempo... Margarida è sicuramente dietro le quinte; Margarida sta sicuramente ripassando tutti i movimenti che dovrà fare. Forza Margarida! Ci provo, ma sì dai...

“Sono pronta, è il mio momento”.

C'è troppo silenzio. I passi di Margarida sul legno del palco producono un sordo tonfo, ma sono rumorosi e invasivi. È questo il suo ingresso. Il viso è tirato, i suoi occhi indagano, ma lo fanno per inerzia, come se fossero guidati dall' istinto tipico di chi lo scopre solo in certe occasioni. La mente è veloce, vorticosa; le palpebre sbattono all'impazzata, e scorgo anche un leggero tremolio. Io mi ridesto dalla posizione comoda che ho assunto da pochi minuti senza neanche accorgermene. Margarida è sulla scena. Un timido applauso; il suo sorriso, quasi di circostanza, diventa per un attimo liberatorio. Margarida siede di fronte al piano, e per un attimo sembra quasi che i suoi occhi incrocino i miei. Sono occhi troppo diversi da quelli soliti di Margarida, portoghese di Lisbona. Sono occhi fieri, pronti per la battaglia, una strana battaglia. Poi Margarida comincia a suonare. Tutto scompare attorno a lei; tutto diventa opaco. Margarida e il suo strumento ingombrante, il pianoforte, che è un animale peloso, un goffo mostro antidiluviano. Ma se lo tratti bene, se sai indirizzarlo nella giusta strada, ecco che diventa foriero di grandi attrattive. Margarida adesso è sola, con la sua musica, astratta da tutto sta tracciando ad occhi chiusi una linea invisibile tra lei e me, che oggi sono sensibile, orrendamente vulnerabile. Lei picchia con forza sui tasti quando deve farlo, si libra in volo quando il pentagramma glielo chiede. Margarida non ha un suolo sotto i piedi; non ha un esiguo gruppo di persone che la stanno ascoltando, non ha una signora disponibile che le cambia la pagina degli spartiti. Margarida non ha occhi addosso, e non ha più paure, pensieri che le attanagliano la mente. Perchè la mente di Margarida adesso è sgombra. Musica, tanta, per ore, per secoli e millenni. E intanto la mia sensibilità nemica si abbandona alle note di Marga, che non ha uno scialle, non ha un vestito a fiori, non ha un paio di ballerine ai piedi... ma solo una musica che pervade la sala, torna dietro le quinte, sbatte sui muri, invade l'immensa platea, mi colpisce con amorevole violenza. E, con impetuosa voluttà, trasformando in forza le paure di Margarida, converte la mia sensibilità in una sorprendente, meravigliosa, beata vulnerabilità. E allora mi chiedo che senso ha tentare ancora di dare un senso ai pensieri di Margarida, fantastica pianista, portoghese di Lisbona...

giovedì 8 settembre 2011

La Silente Alchimista

Taci! Ma non prendermi alla lettera, oppure sì. Chiuditi in te stessa, celati in un secco silenzio, abbassati e rilancia. Zitta, ma non offenderti, ascolta solamente. Ci sarà pure qualcosa che ti disturba, ma tu chiudi gli occhi, e la bocca. Per non illuderti; per non illudere me. Taci, nella brughiera, tra le stelle, nel segreto delle tue intimità, tra gli amici, a Pasqua, parlando al telefono, osservando da lontano, con gli occhiali da vista; fai silenzio. Perchè sei tu che lo chiedi a te stessa. E anche io. Non aprire la bocca, non aprire la mente, taci, in tutti i sensi, con i crismi che contraddistinguono i silenzi; con le mani in tasca, con le mani tra le cosce, con le mani in un luogo lontano. Chiudi la bocca, seduta su una panchina, tu, amministrata dalle tue sensazioni. Sto cercando di dare ritmo a questo post. E chi sono, Gabriele D'Annunzio? E cos'è, La Pioggia nel Pineto? Pioggia? Quanta ne vuoi, siamo nella Terra di Albione. Pini? Ne troveremmo a bizzeffe, se solo lo volessimo. Ma io non sono poeta, sono solo uno nato a Luglio, tra i ciottoli neri e con i piedi scalzi. E tu sei Ermione, solo perchè esisti e comunque ti devo immaginare. E dai, taci, cioè continua a farlo, a comportarti come stai facendo. Bevendo una bevanda al caffè, ricercando la felicità della tua solitudine, così poi sai a chi dare le colpe. Già, dai colpe, infila un paio di scarpe, tieni la tovaglia sulla testa dopo aver fatto lo shampoo; telefona alle amiche, mangia un boccone, ridesta i tuoi desiderii e poi buttali giù...intima loro di tacere. Così come devi fare tu. Per non illudere te stessa, e magari per non illudere me. Taci! Non odo parole, umane o disumane, ma odo un silenzio che in vita mi tiene. Ci provo, a fare il poeta, a dare un ritmo a sto cazzo di post. Non sono D'Annunzio, non è una Pioggia Nel Pineto, e tu sei Ermione. Nitida e passata. E se sale una nota, tienila giù, tienila ferma. E quindi taci, non ti chiedo baci, non posso. Ti chiedo, per il tuo bene, di non dire nulla, di continuare a non profferir parola. Te lo chiedo per te, e anche per me. Tu taci, io sogno; tu resti una silente alchimista, io mi beo dentro il sogno di te bidimensionale. Non parlare, non scoprirti, indugia più che puoi, fermati, rifletti; brava, hai capito, potresti illudere la tua persona, fors'anche la mia. Tutt'attorno c'è fiume, ci sono laghi, terre senza mari, marmi, colori, mostri lontani. Ti prego, ti scongiuro, taci, non aprire quella bocca, ti giuro che io aprirò la mente solo ai miei sogni... che parlano di te. Di te che stai qui, proprio qui dentro, mentre io sto lì. Taci, e ascolta magari, o non ascoltare, potrebbe venirti in mente di dire qualcosa, e tu non devi dire nulla. Non ascoltare la pioggia, oppure ascoltala; l'abbiamo bramata, no? In effetti non c'è nulla che abbiamo sperato insieme, e non è di questo che stiamo parlando. Ci vuole ritmo, ho detto. Niente di meglio che tacere; te lo chiedi e te lo chiedo, non fiatare, taci. Sui banconi, nelle piazze, con davanti una pizza; nel caos e nella quiete, tra le dune e le matite spezzate. In una conversazione in cantina, nella mela che stai sgranocchiando, tra i denti che vorresti lavare ogni volta che mangi qualcosa. Taci, con le ciglia bagnate, chè pare che piangi oppure no, con le zanzare che cercano il tuo sangue, con la tua peluria delicata; lasciami tra i miei sogni, le mie spiegazioni, i miei litigi, le mie furie; in questo pineto senza pini. Io che non sono D'Annunzio, io che potrei trovare una serie infinita di pini. Insieme a te, che sei Ermione, assopita nei miei sogni in cui ti immagino e basta. Taci, con amore o con astio; spezia o meraviglia, incanto e fascino primitivo. Ricordami chi sei, solo non parlare, troverai il modo, troverai le parole, ma non parlare, ti prego; ti preghi. Una crema al cioccolato, un bisturi che non taglia, un orologio che non dice che ora è. Io sto sempre lì, non qui; questo posto lo lascio a te. Te che faresti bene a tacere; bene per te, ma anche un po' per me. Che non sono D'Annunzio, che non trovo ritmo per questo post; che non è La Pioggia, che è solo una pioggia, in mezzo ai pini che troveremmo a bizzeffe. Se solo tu ti rendessi conto di essere Ermione. Se solo tu continuassi a tacere. Perchè lo chiedi a te stessa, perchè te lo chiedo io. Supplicando, perchè potresti illuderti. E anche perchè potresti illudere me, ancora una volta.

giovedì 1 settembre 2011

Rompi Gli Schemi!!!

Salta giù, dai. Devi farlo, oppure no, non devi. Ma te lo sto chiedendo, lo stai chiedendo tu a te stessa. Salta! Con impeto o in punta di piedi; con tutto il tuo fardello oppure con le sole scarpe, coi lacci al vento, coi capelli bagnati, col campo visivo allargato. Lanciati, incurante del buio, o incontro alla luce; rompi il muro che ti sta davanti, per scoprire che non c'è. Fallo! Imperativo, o vocativo, a te la scelta, purché tu lo faccia. Salta, dai, vedrai che non c'è spazio per la paura, per i rimorsi. Un bel salto, tosto e duro, corposo, che mira alla perfezione; o ancora un bel salto scomposto, di quelli belli da fotografare. Salta, non aver paura, non c'è mica un cerchio di fuoco davanti a te; salta, prendendo la rincorsa, oppure abbandonandoti a peso morto. Non pensare al dopo, non pensarci affatto. Che importa se c'è un oceano di spilli appuntiti ad aspettarti, o un tiepido mare tropicale; non conta ciò che c'è alla fine del volo. Non incide sapere se c'è un materasso o una foresta. Salta, io sto qui a guardarti, oppure lo faccio con te, mano nella mano. Salta, dai, Jump! Come ha detto David Lee Roth, non che quella canzone mi faccia impazzire, ma se dopo più di trent'anni è ancora attuale significa che il compositore non era proprio uno sprovveduto. E dai, forza e coraggio, salta giù, voglio vedere un bel volo. È tutta adrenalina, una droga prodotta dal tuo corpo, una scarica secca che dall'alto guarda con sprezzo e con sarcasmo tutte le vertigini, tutte le paure. Buttati, gettati, schizza via, rompi gli schemi, potrei piangere di gioia per una cosa del genere. Salta giù! Librati e poi asseconda la forza di gravità come un rapace che si catapulta sulla preda; a capofitto, con le braccia affusolate, col bikini striminzito, con gli occhiali da sole dimenticati sopra la fronte. Salta, ma non cercare di volare, ti voglio umana e fallace, ricca. Con i sandali ai piedi, con la cavigliera a sinistra. Balza di sotto, se vuoi lo faccio insieme a te. Mano nella mano. Non ti curare del dopo, spacca in due il momento di paura, e proprio in quel lampo, quello in cui sei interdetta, quello in cui sei paralizzata dalla paura, quello in cui tutte le fobie sembra si siano impadronite di te, ecco, è lì che ti devi lanciare. Tutto passa, ma il salto, quello che tu devi fare, quello resterà per sempre dentro di te. Lo racconterai, ma ancora più significativo, lo ricorderai. E allora cosa stai aspettando? Dai, salta giù, datti una bella spinta, sorridi nel frattempo per esorcizzare i pensieri negativi, i fantasmi, gli spiriti maligni che ti bloccano dentro la routine. Entra nel mondo elitario di chi l'ha fatto prima di te, per poi rimanere parte di questo mondo. Muovi le splendide gambe a piacimento. È solo una scogliera, ricca di amore; è solo un burrone, pieno di speranze; è un immenso cratere, carico di calore, buon calore. Ed è tutto dentro di te. La domanda su quanto sei immensa te la farai dopo, intanto non pensare, non farlo. Non cercare ali che non avrai mai, non sognare l'impossibile. Fai solo così, come ti dice Fabio, salta giù! Lanciati nello spazio e invadilo con le tue bandiere, con i tuoi vessilli, con le tue armature di cui ti libererai durante la planata. Non imitare nessuno, il tuo volo deve essere solo tuo. E non cercare di essere per forza originale, il tuo volo può anche essere simile a quello di qualcun altro. Salta dai, salta giù. Impervia, accattivante, devastante, astrale, roboante, permissiva, gagliarda, viva. Semplice... come la mia richiesta, o il mio imperativo: salta giù. Se vuoi lo faccio insieme a te, mano nella mano.