mercoledì 7 maggio 2014

Warning

Vi dispiace se mi allontano un po'? Questa guerra, come tutte le altre, non mi appartiene affatto. Sì, lo so, mi ci tirate dentro tutti i giorni, mi ricordate che è la mia vita. Siete così sicuri? Mi allontano un attimo, giusto il tempo di levare le àncore, giusto un manciata di minuti per salpare verso la costa occidentale. Sabbia fine e odorosa, lontano lontano lontano. Dalle talpe che rosicchiano i vestiti in cerca delle facezie che potrebbero mettermi in pericolo. Uh, che parolone. Forse un po' di difficoltà. Fuori, fuori dalla ressa gineceica che recita la parte della vite slabrata; fuori dal giro di vite che inesorabilmente mi riporta alla mia età. Ho ancora tanta voglia di sentirmi dire “no way”, di stare in costume un giorno intero, di non calcolare. Per quello sì che son troppo vecchio. O troppo giovane. Lontano dai termosifoni che non funzionano, dalle assurde richieste, dagli assurdi dinieghi ai leciti interrogativi. Lascio un'isola normale che ritroverò al mio rientro, e ciò mi basta. Basta per un po', con lo swippare a destra e a manca. Basta con l'essere swippato. Mi allontano da questa malata assenza di ispirazione, da questo combattimento ordinario contro ciò che mi tiente a questo mondo plastico e cartaceo. Ho bisogno di Banana, di nuove sonorità LoFi, di una vittoria a Bologna. Basta, per un po' vi prego, col patema di chi non ha messo il numero giusto nella casella apposita; basta con l'ometto a capotavola, con le occhiate meschine e maliziose che cercano ancora la genesi della loro natura. La troveranno mai? Basta con la vita cadenzata da risvegli improvvisi e da sigarette fumate a certe ore. Ho comprato l'adattatore, e allora giù di ricarica. Scarichiamo l'ennesima App, ritroviamo il gusto della canto e controcanto, la chitarra suonata sapientemente, uno sguardo aeroportuale. No, non sono un codardo, se è questo che stai pensando. Ricordi quando ho asserito che i miei anni avanzano? Ecco, la risposta sta lì. Adesso basta, l'ho detto che sarà solo per un attimo? Ma basta col vestito buono, con i capelli in ordine, con la pantomima della trincea, con le cattiverie gratuite. E se fossi ispirato darei a questo post un finale in crescendo.

mercoledì 5 febbraio 2014

Il Doppio Femminile

Nei miei sogni, la donna dei miei sogni ha i capelli setosi, si lava i denti davanti allo specchio con una gamba staccata da terra. Ha voce sottile, le labbra carnose, un passato delizioso la donna dei miei sogni, e mi guarda e mi capisce; e mi strapazza e ne gioisce. Nei miei sogni, la lei dei miei sogni si veste d'autunno mentre fuori è tutto sole, mentre i cani mangiano, i bambini leggono, e il giorno dopo ripopolano le scuole. S insinua docile, la donna dei miei sogni, tra le briciole annerite della mia coscienza, ci intreccia, calma, delle robuste liane, me ne fa dono senza aggettivi; me ne fa dono di ripartenza. Sogna, e ci sorride sù, la donna dei miei sogni che popola i miei sogni, mentre la sua culotte nera disegnata con la china traccia a sua volta il più ingannevole dei culi. Mentre scaccia distratta una zanzara che non morde, mentre suona lasciva una chitarra senza corde. Arriva in bicicletta, atterra con lo shuttle, suona il clacson a pompa di una macchina in stile anni 30, ha sotto il braccio una rivista che parla di arredamento, ha in testa un faro che spara coi suoi occhi verso di me, una risata sonora ma non invasiva, un braccialetto portafortuna che lascerà sul tavolo coi fiori, una voce dolce e lenta. La donna dei miei sogni ha visto il tramonto, il Cile, il gioco di ombre, la finale di doppio femminile. Nei mie sogni, la donna dei miei sogni ha perso un orecchino, e un ciuffo di capelli le si è fermato su un occhio, il mignolo distratto tra gli incisivi, una mano ferma a mezz'aria, che grossa differenza tra lei e un moscerino. Ha una macchina vintage, le gomme in borsa, Elio Vittorini in testa, e per lei io sono alto; e sbrighiamoci o perdiamo l'ultimo spettacolo, e facciamo presto, è già l'ultima corsa. Mi fa venire dentro la donna dei miei sogni, mi tiene la mano solo se passeggiamo su un prato, ha la fotta di sapere se mi piacciono quei tortellini esotici che mi ha preparato. Conosce i Cocteau Twins, i Devo, i Jesus and Mary chain, guarda con interesse l'ultimo episodio di Game of Thrones, scrive nervosa degli appunti seduta sul letto. Nei mie sogni, la donna dei miei sogni sorride solo con gli occhi, si deodora di sé stessa, apre un cassetto, per prendere le calze. È femmina, è ardita, è colta, è indovina, è goffa, è malndrina di sorprese. Ha una papà che l'ama, ha una voglia immensa di rendermi papà. Mi capisce dal respiro, taglia i rami a piacimento, cambia il filtro, “vado a fare un giro, nel palmento”. Nei miei sogni la donna dei miei sogni mi fa il più bel regalo, sparisce con mestizia, e non la vedo più; si stacca dai miei sogni, mi indica la via, mi porta nel reale dove esisti solo Tu.

lunedì 16 dicembre 2013

Move On

E pensi che la cosa mi scalfisca più di tanto? Un'altra donna, tra le lande desolate delle sue sicurezze, nel noioso, monotono, amaro ed edulcorato cammino della propria esistenza; vituperata da sé stessa. Un messaggio fugace, giusto per capire se é proprio vero che sí, sono stato cancellato. E con me, con la mia presenza ingombrante, con i richiami della mia figura, tutto ció che ne compete. Oggi, come ieri, e domani, nessuno sforzo supplementare. Ero lí, mia piccola amica, ero lí per farti capire che le cose nuove diventeranno vecchie. Ma non solo per te. Tieniti pure le tue luci di Natale, il tuo candore fittizio, I peli da scovare negli angoli piú remoti del salone, la spazzatura sotto il letto. Quel letto. I Ragazzi Persi mi hanno insegnato, bontá loro, che la cosa piú ovvia da fare é guardare davanti, seguitare agevolmente nella scrittura di un'epigrafe che ha da venire, fino a quando ci sará ancora questa tastiera di fronte, queste parole da inventare. Si volta pagina, come ieri e come sempre; si cambia prospettiva, e si distoglie lo sguardo, unitamente alla consapevolezza che lo stesso dovrá posarsi da un'altra parte. Germoglia un fiorellino dalle parti di Coventry, germoglia artistico e fiammante, pensieroso e premurosamente impertinente. Germoglia testardo e sublime, dentro la mia testa, dentro le mie capacitá di farmi splendido; dentro le mie incapacitá di essere coerente. Ma ci provo, piccolo fiore che germoglia dalle parti di Coventry. Una strada amica mi accompagna, adesso so come assecondare il mio respiro; le beghe di pochi mesi fa sono andate via con la bruttura che si portavano dietro. C'é una cuffia in piú nella mia stanza, da ascoltarci le canzoni, da ascoltarci le voci degli attori. C'é un mondo che si muove attorno a me, ed io con lui. E c'é un piccolo, insignificante alla vista, lucido, trasandato, bello, inebriante fiore che germoglia frastagliato dalle parti di Coventry; dalle parti della mia testa. Un piccolo fiore che si insinua felice tra i meandri delle mie cervici, tra le scogliere odorose dei miei sonni crudeli. Si inserisce algido sul maglione adagiato sulla sedia della mia scrivania, mentre scrivo l'ennesima mail, mentre faccio un ordine on line. Cerca di carpire il significato di me stesso questo piccolo fiore che, notevole e microscopico, accende le luci del mio alberello. Un'altra sigaretta, un sorso al tea, l'ennesimo polpastrello ticchettante sullo schermo del telefono... e una gran consapevolezza. Nella vita, amica mia, bisogna provare tutto, e in quel tutto ci sta anche il non provare qualcosa. Quindi,amica mia fuggita verso un mondo di valori che non mi appartengono, senza vendette e “senza sangue”, te lo richiedo beffardo: pensi che la cosa mi scalfisca piú di tanto?

martedì 26 novembre 2013

Meditation

Qualcuno si é chiesto il perché scrivo di meno? Probabilmente no. Io peró l'ho fatto. E son giunto ad una conclusione. C'é bisogno di un respiro profondo, metti l'aria dentro il corpo, e fallo attraverso il naso; poi butta fuori dalla bocca. Rifallo! Ti accorgerai ben presto che passi la vita a crearti la tua nicchia, il tuo personalissimo stack, i tuoi bisogni e le tue voglie. Poi ci sono i freni, quelli che si mettono davanti a te e alle tue brame di esprimerti, e allora sono cazzi. Perché il gusto che ha qualcuno solo provando a portarti nel mondo delle terrene cose, be' quel gusto teorico che si trasforma in massi da circumnavigare, ti mettono in trappola. Non mi chiedo piú se forse non appartengo ad un'altra dimensione, alla risposta ci sono arrivato da un po'. Piuttosto il bivio é un altro: randellate e sprangate sui denti, alla ricerca di un sano momento di libidine, o farsi ammaliare dalle parole del Sommo Poeta, che scolpí nella roccia versi eccelsi per tutti? La falsitá del genere umano mi procura un dolore che mi prende la bocca dello stomaco. L'ultima frase é abbastanza chiara? Fateci caso, é sempre cosí, anzi ha pure tre colori predominanti: ogni volta che c'ho il blocco, non c'e alcun bisogno di ricercarne la natura. Quella é, se vi pare. Adesso mi do alla ricerca del piú esasperato altruismo, che poi non é altro che egoismo puro. Allora riprendo a respirare profondamente, a osservare il ritmo cadenzato dell'entrare ed uscire dell'aria dal mio corpo. Un attimo di attenzione sul contatto del culo sulla sedia, dei piedi sul pavimento sotto di me. Vuoi pensare a qualunque cosa? Questo é il momento. E allora, non me ne vogliate, torno sulla Terra (me ne ero mai andato?), e punto il dito contro, a denunciare vituperi, a smascherare bad behaviors, a denudare meschinitá. Poi mi chiedo se la cosa mi fa bene, e la risposta la sapete giá. Quindi perché pensarci ancora? É la tua natura, direte voi. É arrivato il momento di reagire, controreplico dal palco. Niente piú scherzi, Fabio, non si gioca piú, adesso si vince. Strano, questa frase mi é rimasta impressa. Per tornare a credere in qualcosa bisogna smettere le catene di questo triste terreno inferno. Puntini di sopensione.

domenica 17 novembre 2013

Ricominciamo

Ma sí, non puó che essere momentaneo.
Dopo aver partorito, dopo aver grattato e vinto, dopo aver ritratto le ali, e anche dopo essermi accorto che non mi dispiace per niente la mia inclinazione alle ripetizioni, ecco che... Dopo una lunga rincorsa, dopo aver scoperto che le cose sono facili da fare, anche quelle difficili. Dopo aver ascoltato una ragazza siciliana cantare, dopo le scelte, dopo le scelte non fatte, dopo tutto quell'odio, dopo tutto. Dopo mille miglia, dopo l'Etiopia, il mandarino, la salsa concentrata, centinaia di granite, una maglia con su scritto il mio nome, le voglie assopite, le sigarette economiche; dopo te e dopo Te. Dopo aver appreso la consepovolezza, semmai ce ne fosse bisogno, che senza questo aritmico ticchettio non è possibile fare sul serio. Dopo gli abbracci gratuiti, dopo l'ennesima nottata tabacco in casa dell'infelice, dopo aver visto il mio mondo da un'angolazione lontana. E ancora dopo i palazzi nuovi, dopo i cori allo stadio, dopo il caldo insulto privo di verità; dopo l'ultimo punto e virgola. Dopo aver appreso che io avrei fatto una brutta fine, dopo aver contemplato la brutta fine altrui, dopo aver cercato come un ossesso l'ultimo brano, dopo aver conquistato l'ultima preda. Dopo tutto, ecco che... Dopo aver sofferto di invidia, e dopo averci riso su, dopo essere tornato per un attimo lì, dalle parti del dolore che ti blocca. Dopo aver scoperto che la soluzione è qui, ce l'ha messa il fato, dopo aver strappato una promessa, dopo aver deciso di raggiungere il Sole, dopo aver deciso di scrivere questo post come fosse una session. Dopo aver percorso indenne “le strade di lei”, dopo aver fotografato l'ennesimo riflesso di luce accesa tra le calme onde in mezzo alla mitologia greca. Dopo aver scoperto che quelle erano parentesi di zucchero, dopo aver deciso che non prenderò alcuna decisione, dopo tutto...

mercoledì 16 ottobre 2013

Tutti Fuori

Tra la poca voglia di fare e l'estrema iperattivitá. Passa cosí la mia vita semplice e complessa, noiosa e blaterante; tra disegni che non arrivano, e targhette patinate. Fuori tempo massimo, o estremamente puntuale. Il dipartimento si svuota e si ripopola a piacimento suo, i capi dispensano sorrisi e facce scrutatrici; mangia Fabio, proteine soprattutto, mentre la palestra é semipiena per via del week-end, mentre il rumore metallico dei pesi che cadono giú produce un'eco infinita. Poi si va lí, tra i verdi tavoli, quel bancone lungo, le occhiate maldestre ai nostri smart phone, l'ultima dal fronte. Gli stronzi, i caini, le faine, gli scorretti, le dame di cartone, i dinoccolati; e poi ancora i madidi di grasso, i lividosi e i livorosi, le persone spente da una vita al passo, gli organismi unicellulari, le teste che pensano troppo e finiscono con l'andare dalla parte sbagliata. L'isola dolce delle “strade di Lei”, l'eterna scimmiottatura di Hugh Grant in About a Boy, una passata di gessetto sulla punta stecca, arriva il Gammon and Eggs, ci si siede dando uno sguardo alla partita di football malandrina. Il resto va in putrfazione, riprenderá vita stolta e indecifrabile nel futuro prossimo, quando meno te lo aspetti. Adesso é colpo da maestro, un “bravo” buttato lí giustappunto per fare un complimento, giustappunto per far finta di deconcentrare. Questo luogo é nostro, ci ha visti crescere anche quando si supponeva fossimo giá adulti; anche quando si sapeva giá come sarebbe andata a finire, anche quando lo facciamo oggetto dei nostri vituperi e lo scaglieremmo volentieri nel cesto della roba sporca. Complice l'ennesimo aumento dei prezzi. Ma non ha prezzo no, la passeggiata umida verso il prossimo episodio, sotto la luna grande che illumina i nostri saperi, le nostre vergogne, i nostri sogni che diventano realtá da gestire. Non ha prezzo la risalita dagli inferi, mentre un gruppetto di studenti urlacchia in maniche di camicia, mentre il tanfo dell'alcool si disperde, e prende il suo posto l'odore di pulito. Non c'é etá per questa liturgia che manca quando non si palesa; non c'é tempo che passa per queste stazioni da dolce via crucis, sempre uguali a sé stesse, sempre differenti nei contenuti. Oggi passa, domani niente storie, poggia tutte le monete che hai su quel bordo, che nessuno si avvicini. Abbiamo uno scontro al vertice. Noi stiamo qui, il resto é solo approssimazione.

mercoledì 2 ottobre 2013

E Me Lo Chiedo Ancora

La professionalitá si disperde
né piú mai é come colonna
si diventa al prima merde
alla buona vista di una gonna

sopravvivere é sopravvivenza
perso e andato in aggeggi infernali
afferrando a fatica la buona creanza
amici di nulla, compagni di baccanali

la ricerca continua, anche se ingrata
anche se manca l'amichevole dettame
perso negli oceani, nella collina incantata
ascoso alle cattiverie, e a tutto quel ciarpame

e ancora mi domando che violenza inaudita
ci mette la plebaglia quando non si impiccia
rinunciando a sangue a veritá e vita
celandosi sorniona, sotto una testa riccia.

giovedì 19 settembre 2013

Verdi Cries

C'è, deve esserci quel posto, quel porto, quel luogo. Deve pur esserci, per il solo fatto che lo stiamo cercando. C'è un luogo in cui un uomo assaggia del tea, da solo. Si ascolta l'Aida attraverso una porta, si riempie una vasca da bagno, cantando. C'è, sta da qualche parte, quel luogo in cui la casa che ci accoglie, bianca, linda, regala il proprio portico ad una bianca spiaggia sul mare vergine delle dimenticanze; in cui la casa che ci nutre e ci protegge, bianca, candida, done in sacrificio il proprio patio alla fauna mansueta che si bea di noi. C'è, lo so, è scritta nella letteratura americana, è solcata nei vinili rovinati dal tempo gaglioffo, dalle noncuranze: sta nei quadri impressionisti questo luogo in cui potremmo rifugiarci sfuggendo a tutte le aspettative della povera gente, a tutti i rimandi ad una “vita felice”, ma senza maiuscole. C'è, piccola mia, c'è ed è grande, questa casa maestosa di semplicità. Un vassoio d'oro per la colazione, un birichino furto di biscotti ancora in preparazione, un'occhiata fintamente severa. Tu, io, e poi il mondo che parte da lì, dalla nostra bianca casa, dalla nostra spiaggia, dal nostro patio così autunnamente trascurato; il nostro mondo che finisce lì, nella penombra di un angolo dimenticato, dietro alla poltrona comoda del soggiorno, dentro la credenza che accoglie il servizio buono. C'è un luogo in cui non ci sono tasche, non ci sono bip invadenti, non ci sono gomme da masticare. C'è il luogo delle piccole cose, e delle attenzioni riposte su di esse, dei miei sguardi sui tuoi sguardi, dei passi fieri e dolci allo stesso tempo, delle piogge che attaccano docili le finestre; delle finestre da accostare, di una trapunta che sostiene la visione di un dvd. C'è, e lo sognamo insieme anche se da distanze siderali, c'è e lo abbiamo da sempre fatto nostro. Il cane è entrato e sta sporcando il tappeto. C'è una libreria dalla quale prendo un volume di Jack Kerouac, così sorrido un po'. C'è un luogo in cui tu usi una matita e ci giocherelli con le dita, in cui i fulmini sono spettacoli lontani, in cui il mare vergine non ci allontana da niente, semmai ci abbraccia forte per farci sentire al sicuro, amati, e perchè no vezzeggiati. C'è quel luogo in cui tutto è dimenticato, e in cui tutto è presente, in cui hai la stessa faccia di quella volta in cui mi dicesti “viene a dormire da me”. C'è un rifugio dalle procedure bastarde di una esistenza che ha smesso da tempo di essere vita; c'è una dolce prigione in cui i nostri istinti troveranno ristoro; una battigia sulla quale passeggiare con le scarpe da tennis ed il k-way, la felpa e un braccialetto colorato. Una roccia rossastra in lontananza, un silenzio dirompente. C'è un letto da farci sopra l'amore, da farci sopra, a ritmo, un capolavoro di arie, di storie, di martiri a lieto fine, di morte sconfitta dalla vita, di luoghi comuni derisi dalla felicità. C'è una ricompensa. C'è un luogo, piccola mia, in cui ogni giornata finisce con l'applauso di un pubblico competente.

giovedì 15 agosto 2013

Tempo Perso

Abbiamo avuto la possibilità, e forse l'abbiamo sprecata. Nel tempo e nello spazio, tra i dilemmi di una vita rosicchiata e spolpata; oppure tra i vituperi di un'esistenza a cui abbiamo rotto ill respiro all'ultimo secondo, prima di fare il grande passo. Abbiamo sperperato tutti i momenti buoni per sederci su una panchina, per fare la spesa al mercato più economico, per preparare i sandwich, per guardarci negli occhi, socchiudendoli ancora di più; per fare l'amore su un prato. Abbiamo frustato, e poi lasciato scappare, tutte le mie debolezze, le abbiamo viziate, le abbiamo ignorate, trattate come cause perse. E lo abbiamo fatto colpevolmente. Ti ho chiesto di salvarmi, dalla mia vita agevole, dai miei rimandi adolescenti, dai giri a vuoto di un'esistenza senza sangue, senza beato sacrificio; ancora e ancora a dar conto a melense attrattive, a girandole di parole, a insensate scenate, a lugubri stolti personaggi. Vorrei solo unn po' di pace, una birra in frigo, un animale domestico, un consiglio da dare. Vorrei stendermi sulle tue gambe, arricchire vieppiù ogni momento che mi resta da vivere, dare a me una chance. E soprattutto darla a noi. Ma ci stiamo ancora impelagando in studi eccessivi, in occhiate allo specchio, in tagli di capelli. Tu, tra le mille ansie che ti bloccano nei deserti di una solitudine che solo apparentemente ti solleverà; io, come quando fuori piove, dando credito a follie vuote, a menzogne parallele, a gravi eccessive maldestre minacce. Abbiamo lo stesso spirito, la stessa età, le stesse paure, ma punti di osservazione differenti. E la cosa grave è che lo sappiamo entrambi. Eppure continuiamo a perdere tempo; a perdere, a perdere questo splendido inusuale tempo, fatto di gradi centigradi, di sole forte e tenero, di ombre e di alberi. E di cantine di vini, di borse da comprare e poi rivendere, di futuri incerti e di passati misteriosi. La possibilità ce l'abbiamo avuta, e ancora adesso, chiunque tu sia, anche se vediamo gocciolare via i secondi, un piccolo spiraglio resta. Come quando ti ho baciata, e ho sentito il tuo fremere, le tue voglie assopite, le tue paure bastarde, per un bastardo come me. Eppure so che non aspettavi altro. E allora te lo chiedo e me lo chiedo: perchè? Perchè questo vilipendio alla natura che ci contraddistingue, perchè darla vinta ad una vita di rinuncie, perchè crogiolarsi ancora nel mare torbido dei plastici sacrifici? Perchè, giovane donna? E se sarà troppo tardi? Se la neve verrà, e con essa gli ennesimi colpi di tosse? E se i prati non saranno più accoglienti? E se le rughe ci diranno che tutto sarebbe ridicolo? Adesso, ora, immantinente, fai le valigie e poi rifalle di rimando. Fabio nonostante tutto sono, e nonoostante tutto aspetto, dieci chilometri o solo cinque minuti di cammino; una pizza o nove portate. Nudi o con gli orsacchiotti stampati sulla felpa. Una sigaretta furtiva, fuori, in giardino. A rendersi conto che poi, alla fine della fiera, può anche cambiare il tempo attorno a noi, ma alla fine, quel tempo non l'abbiamo realmente perduto.

venerdì 26 luglio 2013

Un Poveraccio di Merda

Dovrei essere teso e nervoso, che poi è la stessa cosa. Dovrei passare in rasegna tutti i motivi della mia inconsolabile esistenza; farmi una notte insonne, sentire crescere i battiti del mio cuore, la mia pressione salire. Dovrei, forse, andare a zonzo e raccontare dell'ennesimo errore altrui, andare in giro alla ricerca di gente che annuisce e dimostra vera o posticcia solidarietà. E invece no!Quei tempi sono belli che andati. La scoperta, o la prova, che basto a me stesso è arrivata puntuale. Priorità! Il percorso da qualche tempo è cambiato; sempre dritto, verso i grattacieli del city center, costeggiando melenso la vecchia stazione di Snow Hill, gettando lo sguardo sulla giamaicana sporadica che aspetta l'autobus dall'altra parte della strada. Lavori in corso. E allora questa chiesa senza nome che fa pandant con il parchetto antistante, da piccola e ascosa, diventa mnumentale, mentre già dall'altra carreggiata cominciano a dar segno di sè le ombre plastiche del centro cittadino, così remoto, così volgarmente vicino. Tagliamo di qua, dico a Fabio, che nel frattempo contempla per l'ennesima volta i suoni, le note, le minime e le semibiscrome di Mogwai, che attraverso le orecchie fanno capolino nel cervello. C'è tanto da dire, c'è tantissimo da recriminare, ma si va avanti, le energie adesso vanno risparmiate. Ai giri di parole, alle frasi ricercate, agli arzigogolati punti di uno speach puntuale preferisco di gran lunga la pace meritata dei miei sogni; le purezze di un animo spigoloso ma fiero, malinconico e a volte spietato. Lei, la mia lei, si produce in uno sforzo senza tempo e senza limiti; sa di darmene contezza, senza darmene contezza. “Sorry, ma non voglio uscire con te”. L'agiatezza, le concretezze, gli involucri da spaccare avidamente e poi mettere negli appositi contenitori dai colori pastello. Perfino un nuovo animale domestico ha prerogativa di essere caduco e labile, come un cappello da indossare in un'unica occasione, e poi mettere via. Questo lei lo sa, e lo so anche io. Così, sotto il palazzone dell'Holyday Inn, accarezzato dal fresco del prato sotto i miei piedi, scanso senza mordente i cattivi pensieri altrui, e mi ritrovo a sognare la di lei Rivoluzione. Ce ne hai di tempo, oh pretty love. Un cappuccino tall, il sorriso della cameriera dello Starbucks, la voglia inconsolabile di saper disegnare, mentre i Mogwai, ancora e sempre, mi accompagnano. Queensway da attraversare guardando prima a destra e poi a sinistra. Si entra nel campus, Lakeside, la finestra diventata ordinaria, gli zainetti colore dell'arancio. Chi si ricorda più di quella mancanza di forze, io sto bene. Mi manca solo un po' di coraggio, ma so che potrò anche morire senza, e nel frattempo avrò fatto tutto ciò che la vita può offrire. Il resto è di passaggio; come i pini nelle autostrade del nord, come i resti di una pizza maldestri su un piatto, come il bollitore dell'acqua dimenticato acceso. Come una conversazione amicale fatta per necessità che si perde nella pochezza, nella noncuranza, nella superficialità del giudizio altrui. Come un prestito di denaro, puntualmente restituito, che diventa occasione per smascherare l'inconsitente natura di chi ci mette tanta lena ogni giorno per non far trasparire quanto piccolo e insignificante è il proprio mondo. E allora mi tengo la mia vita. Mi tengo le mie tranquillità, mi tengo, non me ne vogliate, i pochi punti cardinali che ho scorto lungo il mio cammino. Ai livori dispensati indistintamente, alle bottigliate al vetriolo scagliate per far male, al gusto effimero di distribuire dolore con la consapevolezza postuma che tale pratica non solo non funziona ma sortisce l'effetto contrario, preferisco le mie passeggiate minimali in compagnia di Mogwai; preferisco il contingente sole brummo che si posa dolce sui muri del tramonto, i miei sogni birichini. Preferisco i miei sguardi sul mondo, la natura e la prospettiva incantata di un “Poveraccio di Merda”.

lunedì 15 luglio 2013

La Profezia di Balandino

Si sta in cucina; si sta in cucina e si conversa di facezie e di mali della vita, di mondi sconosciuti e di padelle da comprare. La mia facciata è in un certo qual senso da didascalizzare, anche se a me il suo significato sembra di facile intuizione. Dentro sono un vulcano, vorrei volare e scappare e fugare e riempire le scarpe di dentifricio; fuori sono serafico, come se non mi importasse più di far sapere che tipo di pruriti ho. Il mio coinquilino si chiama Balandino; come quei personaggi ricercati dei romanzi di Moravia, come quei personaggi che raccontano di una borghesia al potere negli anni Liberty dei primi del Novecento. Non ce ne sono molti di Balandino, se ci pensate un po'. Io l'idea l'ho già fatta mia, mentre lui parla, parla e ascolta. Mentre gli dico che si, ho un debole per le ragazze orientali; mentre una ragazza orientale sta sempre dentro di me, un'altra nostro malgrado è scivolata via. Ma tutte queste cose a Balandino, in cucina, chiacchierando, tra padelle e decoder, tra quadri che mancano e vani dentro il frigo, tutte queste cose a Balandino non le dico. Mi mantengo sul vago, faccio una cernita delle cose interessanti, o quelle meno. Ci vado giù di intrattenimento, la butto sul sorriso, sulle futilità. C'è tempo amico mio. “Magari quella che incontri domani, chissà, è quella che sposerai”- mi dice Balandino dal suo punto di osservazione da personaggio moraviano. Magari, oppure no; oppure sorrisi, un caffè, un libro comprato nell'attesa. Magari una gonna, la matita negli occhi, la bottiglietta d'acqua a portata di mano. Magari Balandino ha ragione, e sarò fulminato su High Street, vicino la fermata del 960; oppure passerò i miei giorni non accorgendomi di ciò che ho ad un metro da me. Balandino continua a parlare di bicchieri a buon mercato, comprati dalle parti di Moesley, io immagino artisti zoppi, candele profumate, l'ennesimo paio di occhi a mandorla che malcelano una puerile falsità. Eppure il mio Eldorado è lì, io lo so. “Magari ne incontri una domani, e te la sposi”- incalza il Musicista. Io partecipo attivamente alla conversazione, ci rido e ci sorrido, ci intreccio una tela con i miei argomenti; cambio discorso, volo, plano, torno sul main argomento. Pronti partenza... Domani sì, domani sarà ancora treno, e finestrino di treno, e piccola attesa, e studio dell'ennesima ragazzina che gioca a fare l'occidentale violentando se stessa e le sue timidezze. Domani, sostantivo profetico, domani segnaleremo l'ennesima sconfitta, o racimoleremo un'altra, piccola, striminzita vittoria. La ragazza dell'A-team è lontana nel tempo, e forse nello spazio, anche se son sicuro tornerà, e sarà troppo tardi. La papessa è persa nei meandri delle sue effimere consolazioni. Il resto del mondo non mi appartiene più, perchè sono uno stupido cocciuto. C'è un esercito di infantili “Ooohhh” schierato davanti a me, e io sono talmente folle da volerlo affrontare da solo, con i miei trentonve anni nascosti chissà dove. Il resto è Balandino, e io, seduti attorno all'impossibile tavolo Nonna Style della cucina; una conversazione artefatta, giusto per conoscersi un po' tra flatmate, giusto per cazzeggiare. Ma se il mondo infinito che ho dentro trabocca anche solo un pochino, un motivo ci sarà. Alla prossima. Cresci Fabio, e fallo finalmente.

venerdì 5 luglio 2013

Pronti, Partenza...

Libera per tutti! Un po' lo so, mi mancherà questo melting pot pieno di distrazioni e di sofferenze. Mi mancherà la sua atmosfera persa gradualmente tra le grinfie di una cattiveria inversamente proporzionale alla stazza. È un colto messaggio quello che voglio mandare, un sibilo strisciante sulla mia vita pazza. Apriamo un paio di parentesi, e poi, come è naturale che sia, chiudiamole. Gli addii non sono mai come li si è immaginati; ma neanche i saluti inziali, ora che ci penso. Adesso un po' di India, una tazza nuova, un paio di ali. Me ne vado, o almeno provo a farlo, me ne vado a condurre una vita quasi normale; me ne vado dalle parti della genuinità, o della semplicità. Mi basta la locandina di Arancia Meccanica, mi bastano un paio di speakers; mi basta, deve bastarmi, la voglia di conoscerla un po', e poi di più. Libera per tutti, perchè la canizie può giocarmi brutti tiri, tipo due giovani amanti... ma io di cartucce da sparare ne ho, eccome. Devo solo tornare dalla mia fuga. Procedure, a iosa; procedere, di ricerca gioiosa. “Oh chi dirà mai i mali della rima”. Voglio dormire sul suo petto, e non è vero che non importa conoscere l'oggetto della frase. Via, libera per tutti, libera per Fabio, libera da se stesso, libera. Come chi non ha voluto, come chi non ha mai voluto; come le mensole da riempire di libri. Come i libri che andranno letti, come i libri che andranno chiusi per andare ad aiutare in cucina, come la sigaretta da fumare lontano dalle stanze, per non urtare la sensibilità dei pochi. Via, liberi dal sogno, dalla viltà, dalle false aspettative, dalle concrete avventure che adesso, numericamente, possono essere considerate abbastanza. Adesso Fiorile, magari. Oppure una nuova serie televisiva vista da un nuovo punto di osservazione; ma restiamo sul pezzo. Mi mancherà un poco questo caleidoscopico gioco di colori, questa sala grande con la wifi che funziona a singhiozzo, questa macchina che sputa acqua calda. Mi mancheranno i sorrisi e le forme di vittimismo; le puerili dimostrazioni di falso affetto, i menefreghismi artefatti della gente solitaria. Mi mancheranno i mangiatori di unghie e le code di cavallo; i matti, i gay, le troie, i fantasmi notturni. I fantasmi diurni. I topi in giardino, i profumi freschi dell ragazze fresche. La tv accesa che nessuno guarda, il tono saccente delle occhiate ventenni; le fette di pane tostato. Libera per tutti.

mercoledì 19 giugno 2013

Esame di Immaturità

Quando devi andare al The Vale per incontrare una ragazza che poi non ti piace neanche tanto, le cose importanti cambiano il loro significato. Quando vai da una lei, che non è proprio lei, allora le cose prendono forme e colori diversi. Il senso del viaggio diventa predominante. Perchè lei non è lei. Ti tocca mettere gli auricolari, mentre tutto diventa suggestivo, mentre senti la presenza delle ragazze cinesi che in tasca hanno una carta di credito che permetterà loro di comprare tutto e questo succede al Bullring, città stato in cui l'Imperatore, se vuoi, sei tu. Basta avere un pezzo di Pedro de Lion in testa. Poi è odore di caffè, suggestivo e inebriante, miscela esplosiva che dall'ultimo Tesco, baluardo di quotidianità, ti immerge nella plastica e accogliente stazione ricca di significati. Quando devi, e magari non vuoi in un anfratto sperduto delle tue segrete, andare a svuotarti da una ragazza che non ti farà mai battere il cuore, ti concentri su altro. Che dico, è altro che ti prende e tu non puoi farci nulla. Perchè lei, quella vera, è così lontana, e quindi perfetta. È circondata da un'aura di santità, è cosparsa di crema alla mandorla. E allora l'incedere della scala mobile che ti porta al binario pare sia un indice a barrè che scivola sulla tastiera della chitarra e va a prendersi un accordo impossibile. Quando vai da una ragazza pensando già alla scusa che dovrai trovare per non rimanere a dormire da lei, il percorso, come sempre nella vita, è lungi dall'essere meno importante della destinazione. E quando sei dentro il treno aneli la pioggia che bagna il finestrino, che distrugge la visione delle case, delgi alberi, della musica nelle orecchie. Che monda inebriante le catene che vai a prenderti solo per dare un senso ai tuoi istinti bastardi. Quando vai da una qualsiasi lei che ti aspettando per chiederti di fare di lei la unica e sola, mentre tu sei pronto a infrangere tutte le regole del buon costume, allora ti accorgi che è la solitudine che ti sta ammazzando; che ti sta ammaliando, che ti sta distruggendo. Che ti sta nutrendo. Perchè lei non è lei. Perchè non ti ritrovi fuori dalla stazione di arrivo camminando a passo svelto, a cadenzare il ritmo del tuo andamento agognando le sue fattezze; semplicemente ci metti la flemma, l'accidia e la pigrizia. Ci metti te stesso come fosse una bottiglia di vetro. Nella quale però puoi spaziare a piacimento. Gli alberi che costeggiano l'Università aiutano, i sentieri odorosi nei quali ti rirìtrovi da solo a mettere insieme le frasi di questo posto ti danno una mano, le macchine sporadiche che passano senza voler disturbare la natura di questi posti sacri e maledetti ti allungano un cadeaux. Il piano di un pezzo di Mogwai rallenta, laddove ce ne fosse bisogno, il tuo passo, e alimenta la tua sbadataggine falsa. Panchine, strutture in legno, un laghetto affiancato da una collinetta come si vedono nei quadri che non hanno avuto successo. Quasi arrivato da lei che non è lei; la poesia si perde gradualmente, l'andamento lento si fa lentissimo. Togliti sto dente, ricordando a te stesso che hai visto la salvezza da qualche parte, in un castello o in estremo oriente; che hai visto la salvezza schiudersi in un sorriso da rendere fiero un dentista. Musica elettronica, rumore di stoviglie, risate straniere provenienti dalle finestre spalancate per via di un caldo che ti porta lontano da lei, che non è la lei che stai andando a trovare al The Vale. Un altro passo, un'altra stazione, un'altra litania. Passerà.

sabato 15 giugno 2013

Priorità

La mia prima regola è quella che non ti aspetti. É quella che non ti aspetti da un tipo come me, che va girando per le calli di un avvenire che non si presenta; che va dritto per una strada piena di ostacoli, anche se nonostante tutto butta lo sguardo a destra e a manca. La regola che per prima leggi sul mio decaologo ha sapore aspro e intollerante, non puoi stenderti su una panca. La regola mia, quella prima, mette a volte tanta soggezione; perché è un fiore delicato, tenuto a malapena da un caprone. Il primo comndamento della mia scoppiettante vita, c'ha il sapore delle fragole, dell'azzurro, delle scartoffie di Natale; non l'avete ancora capita. Ok, non è non uccidere, anche se non sarebbe male, ma volendo chi ce la farebbe, è più qualcosa che ha a che fare con un bimbo che ci mise un po', sì, ma alla fine crebbe. È un asso nella manica, una trottola che dolcemente sta per finire il suo giro, è Bruno Pizzul, che non lo raccontava, ma faceva diventare poesia un tiro. È fatta di agrumi che non attaccano l'addome, è attrezzata di profumi che inebriano eccome, è, la mia prima regola, ricca di acumi, che sventolìo di chiome. Il mio primo motto, signore e signori, ha vinto tutto, ha fatto cappotto, ci hanno messo su chiacchere e tappeti sonori, ma poi da solo ci bastava, rappresentava un matto. C'è una cosa che non va dimenticata, diceva il mio io a me che ero piccolo, ci stava diritta di infilata, c'aveva dentro più sostanza del pane; non ci diventerai mai ricco, e a volte sarai solo come un cane. Ha più sapore del dolciume, più riguardo del sesso, della vita è l'unico barlume, e tra tanti riconoscerai te stesso. La regola mia prima, no, non è per forza la ricerca della rima, ma con essa in qualche modo c'ha a che vedere, visto che più si va avanti e più prude il sedere. La regola, quella che sta per prima nel mio stendardo, pare a volte che sia nascosta dalle intemperie, tali sono le mie fattezze da bastardo. Pare sia coperta da miserie, ché tu la guardi ma non ti accorgi della sottigliezza. La regola, amici cari, è presto detta, fa degli stolti una sola polpetta. Che sia di pioggia e nuvoloso, o assolato e afoso, nessun dorma, la regola fa di me un uom focoso. È giunta l'ora, sia fatta chiarezza, la cosa che più mi accalora, fratelli miei, è la ricerca della dolcezza.

domenica 2 giugno 2013

Sentenza

Come fosse urlato. Immagina di stare davanti ad una giuria, o ad un plotone di esecuzione. Oppure davanti a me, che è la cosa che più conta, che è la cosa che ha meno importanza. Colpevole! Te lo schiafferei in faccia, o te lo sussurrerei ad un orecchio; te ne leggerei la sentenza, ti additerei paterno ma severo. Tu sei colpevole, di averla data vinta (solo parzialmente, forse) ad una vuota vita piena di tutto, senza chitarre, con qualche piano, con le tazze in coordinato, con un mucchio di devices, un altro animale a quattro zampe. Colpevole, nella villa delle ville, con il sole che ti bacia i capelli, con le mani affusolate, col cappello ricercato, con il carnefice a portata di mano; mentre la tua vittima si fa mostro per sopravvivere, da qualche parte, e tu sei e resti (solo per il momento, forse) colpevole. Tra le rive dei piccoli corsi d'acqua, nella parte più superficiale dei tuoi pensieri, dove tutto è plastico, dove tutto è artefatto. Sfido che ti senti stanca, per forza ti scopri debole. La tua coscienza ti rimanda ai tuoi doveri, ai tuoi doveri verso te stessa. Ti ricorda che sei colpevole, contro l'umanità, contro i tuoi anni, contro colui che scrive. Anche se a volte sembra quasi non importi. Ma tu intanto sei colpevole, rea, costantemente con le mani nel sacco. Responsabile delle mie pene, e perciò tu stessa meritevole di una; responsabile delle tue angoscie, e perciò doppiamente colpevole. Di fare finta di tenere alta la tua guardia, mentre invece l'hai abbassata, con dolo, consapevolvemente, contro le tue supposte perfezioni, che cadono tutte una ad una nel momento in cui vivi una vita senza senso sociale, senza anima, ma con molte suppellettili. Tu, colpevole, di aver indossato il vestito dell'egoismo, di averlo truccato, di averlo riempito di sabbia su una battigia solitaria; impalata stai lì a far caso ai rimandi di una mente che vola via, a cambiare canale della radio con un semplice click, a rimediare lavori di legno. Colpevole, di tenere ordinati gli scaffali delle futili cose, e di sfuggire ai meravigliosi disordini della vita vera (adesso, chissà per quanto ancora). Ti ho tenuto una mano tesa, ti avrei anche lasciata andare, ma ti avrei comunque liberata; tu invece hai scelto la tua cara latitanza dall'esistenza, e cosa molto più grave, hai scaricato le responsabilità su di me, raramente, piangendo dentro. Hai costruito un mondo piccolo piccolo, e ci ha messo dentro un portachiavi firmato, un sacchetto di fiori secchi, qualche spicciolo, e tanta angoscia. Bramo la tua riabilitazione, il tuo reinserimento in società, le tue rinascite; anelo il tuo mea culpa, le tue posate di plastica, una sigaretta che non odora di nulla, se non di sigaretta. Vita, tu colpevole condannata alla vita, quella vera. Non quella che tu hai creduto completa, ma quella che ti completerebbe dandoti la finale, eterea, definitiva coscienza di te stessa. Ti perdonerei qualunque cosa...