mercoledì 22 maggio 2013

La Linea di Confine

Un treno, il mio regno per un treno. Da finirci dentro, per finirci l'estate. Un treno per pochi secondi, giusto il tempo di sentirlo partire sotto le membra, sotto il sedere. Da andarci lontano, o solo pochi chilometri più giù. O più su. Un treno, lento e ordinato, col controllore ben vestito; con i finestrini lindi, coi sedili ergonomici. Col fumo sbuff sbuff, il biglietto luccicante, gli alberelli fuori, in una stazione piccola;“portami a Roma, portami a Birkenhead”. Finisco sempre col parlare di lei in questo periodo. Un treno per due al tavolo sei, please. E per favore, niente ritardi, niente annunci che disturbano dagli altpoparlanti. Una sacca leggera, un libro di Baricco, un violino e un pianoforte, una tazza per il tea possibilmente verde, un paio di occhi da incrociare dall'altra parte del corridoio. Una mano da sfiorare. Adesso è sogno, ma prima era quasi verità. Un treno, che vi costa! Dateci un treno per andare su un prato, per indossare gli occhiali da sole, per rimettere i peccati contro noi stessi, per indurci in tentazioni, per mangiare di un pane raro, per nulla quotidiano. Adesso, ora, domani e per sempre. Una mattina (tarda mattina), col sole alto, con la giacchetta appesa in vita, con le stanchezze da notti insonni, con le paure del futuro, con i braccioli per non annegare, con le pietre in tasca pronte per essere scagliate. Non si sa mai. Ma intanto voi, con zelo o con noncuranza, con amicizia o privi di interesse, canticchiando una canzone o con lo sguardo rivolto all'altro lato della strada, sì proprio voi, dateci un treno, sapremmo cosa farne. Sapremmo manovrarlo da soli. Uno strattone al primo movimento, e poi si parte. Siamo già arrivati? Non arriveremo mai, ma questo è il bello. Un viaggio in treno, dodici minuti o tutta la vita, aspettando Natale, aspettando l'ora di pranzo; aspettando un treno, risuscitando il tempo guardandoci negli occhi. Via da qui, via dai camaleonti che ti deludono e lo fanno disprezzandoti; via dalle catene che ti tengono aggrappata ad una vita plastica e fintamente edulcorata; via dalla mancanza di agio in tasca. Ci serve solo un treno, una bottiglietta d'acqua, e la possibilità di toglierci le scarpe e stirare le gambe sul posto di fronte. Ci servono i nostri occhi, le nostre certezze, e anche le nostre insicurezze. Se così non fosse, per quale diamine di motivo dovremmo prenderlo, il treno? Almeno un paio di fermate, per ricordarci che c'è una nostra vita, ma c'è anche quella degli altri, e da qualche parte, nel mondo, c'è gente come noi. Hai fame? Ho imburrato i panini, ho comprato le patatine, ho portato un thermos pieno di speranze. Fammi leggere ancora un po'. Capito? Un treno, niente più, per percorrere insieme i binari di questa linea di confine che ci tiene lontani. Sociamlmente lontani. Il treno di Paolo Conte, il treno che si inarpica sulle montagne boliviane che tolgono il respiro; il treno che costeggia la Foresta Nera in Germania. Il treno che spacca la Siberia e i suoi ghiacci, che sorvola sognatore gli oceani prima delle Indie o delle Americhe. Il treno che ci porta a casa tua, tra le occhiate maliziose e gli interessi esotici; o che ci proietta dalle parti in cui sono cresciuto, colonna sonora “Love Song” by The Cure. Un treno che non passa dal via. Io vado in bagno, tu a che punto sei? Fammi finire il capitolo. Ok, ma alla fine dov'è che stiamo andando? Da nessuna parte, il tuo sorriso avrebbe dovuto già dirtelo. Siamo sul treno e qui rimarremo.

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