mercoledì 19 giugno 2013

Esame di Immaturità

Quando devi andare al The Vale per incontrare una ragazza che poi non ti piace neanche tanto, le cose importanti cambiano il loro significato. Quando vai da una lei, che non è proprio lei, allora le cose prendono forme e colori diversi. Il senso del viaggio diventa predominante. Perchè lei non è lei. Ti tocca mettere gli auricolari, mentre tutto diventa suggestivo, mentre senti la presenza delle ragazze cinesi che in tasca hanno una carta di credito che permetterà loro di comprare tutto e questo succede al Bullring, città stato in cui l'Imperatore, se vuoi, sei tu. Basta avere un pezzo di Pedro de Lion in testa. Poi è odore di caffè, suggestivo e inebriante, miscela esplosiva che dall'ultimo Tesco, baluardo di quotidianità, ti immerge nella plastica e accogliente stazione ricca di significati. Quando devi, e magari non vuoi in un anfratto sperduto delle tue segrete, andare a svuotarti da una ragazza che non ti farà mai battere il cuore, ti concentri su altro. Che dico, è altro che ti prende e tu non puoi farci nulla. Perchè lei, quella vera, è così lontana, e quindi perfetta. È circondata da un'aura di santità, è cosparsa di crema alla mandorla. E allora l'incedere della scala mobile che ti porta al binario pare sia un indice a barrè che scivola sulla tastiera della chitarra e va a prendersi un accordo impossibile. Quando vai da una ragazza pensando già alla scusa che dovrai trovare per non rimanere a dormire da lei, il percorso, come sempre nella vita, è lungi dall'essere meno importante della destinazione. E quando sei dentro il treno aneli la pioggia che bagna il finestrino, che distrugge la visione delle case, delgi alberi, della musica nelle orecchie. Che monda inebriante le catene che vai a prenderti solo per dare un senso ai tuoi istinti bastardi. Quando vai da una qualsiasi lei che ti aspettando per chiederti di fare di lei la unica e sola, mentre tu sei pronto a infrangere tutte le regole del buon costume, allora ti accorgi che è la solitudine che ti sta ammazzando; che ti sta ammaliando, che ti sta distruggendo. Che ti sta nutrendo. Perchè lei non è lei. Perchè non ti ritrovi fuori dalla stazione di arrivo camminando a passo svelto, a cadenzare il ritmo del tuo andamento agognando le sue fattezze; semplicemente ci metti la flemma, l'accidia e la pigrizia. Ci metti te stesso come fosse una bottiglia di vetro. Nella quale però puoi spaziare a piacimento. Gli alberi che costeggiano l'Università aiutano, i sentieri odorosi nei quali ti rirìtrovi da solo a mettere insieme le frasi di questo posto ti danno una mano, le macchine sporadiche che passano senza voler disturbare la natura di questi posti sacri e maledetti ti allungano un cadeaux. Il piano di un pezzo di Mogwai rallenta, laddove ce ne fosse bisogno, il tuo passo, e alimenta la tua sbadataggine falsa. Panchine, strutture in legno, un laghetto affiancato da una collinetta come si vedono nei quadri che non hanno avuto successo. Quasi arrivato da lei che non è lei; la poesia si perde gradualmente, l'andamento lento si fa lentissimo. Togliti sto dente, ricordando a te stesso che hai visto la salvezza da qualche parte, in un castello o in estremo oriente; che hai visto la salvezza schiudersi in un sorriso da rendere fiero un dentista. Musica elettronica, rumore di stoviglie, risate straniere provenienti dalle finestre spalancate per via di un caldo che ti porta lontano da lei, che non è la lei che stai andando a trovare al The Vale. Un altro passo, un'altra stazione, un'altra litania. Passerà.

sabato 15 giugno 2013

Priorità

La mia prima regola è quella che non ti aspetti. É quella che non ti aspetti da un tipo come me, che va girando per le calli di un avvenire che non si presenta; che va dritto per una strada piena di ostacoli, anche se nonostante tutto butta lo sguardo a destra e a manca. La regola che per prima leggi sul mio decaologo ha sapore aspro e intollerante, non puoi stenderti su una panca. La regola mia, quella prima, mette a volte tanta soggezione; perché è un fiore delicato, tenuto a malapena da un caprone. Il primo comndamento della mia scoppiettante vita, c'ha il sapore delle fragole, dell'azzurro, delle scartoffie di Natale; non l'avete ancora capita. Ok, non è non uccidere, anche se non sarebbe male, ma volendo chi ce la farebbe, è più qualcosa che ha a che fare con un bimbo che ci mise un po', sì, ma alla fine crebbe. È un asso nella manica, una trottola che dolcemente sta per finire il suo giro, è Bruno Pizzul, che non lo raccontava, ma faceva diventare poesia un tiro. È fatta di agrumi che non attaccano l'addome, è attrezzata di profumi che inebriano eccome, è, la mia prima regola, ricca di acumi, che sventolìo di chiome. Il mio primo motto, signore e signori, ha vinto tutto, ha fatto cappotto, ci hanno messo su chiacchere e tappeti sonori, ma poi da solo ci bastava, rappresentava un matto. C'è una cosa che non va dimenticata, diceva il mio io a me che ero piccolo, ci stava diritta di infilata, c'aveva dentro più sostanza del pane; non ci diventerai mai ricco, e a volte sarai solo come un cane. Ha più sapore del dolciume, più riguardo del sesso, della vita è l'unico barlume, e tra tanti riconoscerai te stesso. La regola mia prima, no, non è per forza la ricerca della rima, ma con essa in qualche modo c'ha a che vedere, visto che più si va avanti e più prude il sedere. La regola, quella che sta per prima nel mio stendardo, pare a volte che sia nascosta dalle intemperie, tali sono le mie fattezze da bastardo. Pare sia coperta da miserie, ché tu la guardi ma non ti accorgi della sottigliezza. La regola, amici cari, è presto detta, fa degli stolti una sola polpetta. Che sia di pioggia e nuvoloso, o assolato e afoso, nessun dorma, la regola fa di me un uom focoso. È giunta l'ora, sia fatta chiarezza, la cosa che più mi accalora, fratelli miei, è la ricerca della dolcezza.

domenica 2 giugno 2013

Sentenza

Come fosse urlato. Immagina di stare davanti ad una giuria, o ad un plotone di esecuzione. Oppure davanti a me, che è la cosa che più conta, che è la cosa che ha meno importanza. Colpevole! Te lo schiafferei in faccia, o te lo sussurrerei ad un orecchio; te ne leggerei la sentenza, ti additerei paterno ma severo. Tu sei colpevole, di averla data vinta (solo parzialmente, forse) ad una vuota vita piena di tutto, senza chitarre, con qualche piano, con le tazze in coordinato, con un mucchio di devices, un altro animale a quattro zampe. Colpevole, nella villa delle ville, con il sole che ti bacia i capelli, con le mani affusolate, col cappello ricercato, con il carnefice a portata di mano; mentre la tua vittima si fa mostro per sopravvivere, da qualche parte, e tu sei e resti (solo per il momento, forse) colpevole. Tra le rive dei piccoli corsi d'acqua, nella parte più superficiale dei tuoi pensieri, dove tutto è plastico, dove tutto è artefatto. Sfido che ti senti stanca, per forza ti scopri debole. La tua coscienza ti rimanda ai tuoi doveri, ai tuoi doveri verso te stessa. Ti ricorda che sei colpevole, contro l'umanità, contro i tuoi anni, contro colui che scrive. Anche se a volte sembra quasi non importi. Ma tu intanto sei colpevole, rea, costantemente con le mani nel sacco. Responsabile delle mie pene, e perciò tu stessa meritevole di una; responsabile delle tue angoscie, e perciò doppiamente colpevole. Di fare finta di tenere alta la tua guardia, mentre invece l'hai abbassata, con dolo, consapevolvemente, contro le tue supposte perfezioni, che cadono tutte una ad una nel momento in cui vivi una vita senza senso sociale, senza anima, ma con molte suppellettili. Tu, colpevole, di aver indossato il vestito dell'egoismo, di averlo truccato, di averlo riempito di sabbia su una battigia solitaria; impalata stai lì a far caso ai rimandi di una mente che vola via, a cambiare canale della radio con un semplice click, a rimediare lavori di legno. Colpevole, di tenere ordinati gli scaffali delle futili cose, e di sfuggire ai meravigliosi disordini della vita vera (adesso, chissà per quanto ancora). Ti ho tenuto una mano tesa, ti avrei anche lasciata andare, ma ti avrei comunque liberata; tu invece hai scelto la tua cara latitanza dall'esistenza, e cosa molto più grave, hai scaricato le responsabilità su di me, raramente, piangendo dentro. Hai costruito un mondo piccolo piccolo, e ci ha messo dentro un portachiavi firmato, un sacchetto di fiori secchi, qualche spicciolo, e tanta angoscia. Bramo la tua riabilitazione, il tuo reinserimento in società, le tue rinascite; anelo il tuo mea culpa, le tue posate di plastica, una sigaretta che non odora di nulla, se non di sigaretta. Vita, tu colpevole condannata alla vita, quella vera. Non quella che tu hai creduto completa, ma quella che ti completerebbe dandoti la finale, eterea, definitiva coscienza di te stessa. Ti perdonerei qualunque cosa...