sabato 26 maggio 2012

I Tempi Passati e i Futuri Anteriori

C'era profumo di fiori. C'era quel tipico profumo che sfida gli altri odori. E li sconfigge. La mia nota malinconica del tempo perduto mi accompagnava con la solita gentilezza, mentre io sfoggiavo i miei nuovi abbigli con contorno di bianca musica distorsiva. Le linguine al ragù del giorno dopo hanno prerogativa di essere defatiganti; un sorso al succo, un'occhiata furtiva alla casella dei messaggi e ancora un attimo lì. Come un usurpatore, ma mica con la U maiuscola. C'era profumo di fiori, c'era tanta estate improvvisa, c'erano vesti greche, foto luccicanti, un aperitivo al gusto di sciroppo per la tosse. Sembrava lo facesse apposta. Seduti ad osservare le regole, ma anche no. C'era sempre e comunque profumo di fiori; come una landa imperfetta da planarci sopra con un deltaplano, come un fascio di capelli biondi accarezzati da un vento di giugno, chè giugno ancora non è. Come i fumi di un pic-nic che ti rimangono addosso fino alle sera, quando sei stanco morto, aneli il tuo letto, ti ci butti sopra con la brama di infilarci dentro forchettate e palate di benessere. C'era profumo di fiori, nel mese mariano, con circostanze circonvenute circolando da circhi di tutte le guise. Si parlava a gesti, mentre i fiori giacevano sui cesti. Si parlava ammirati, mentre si veniva mirati da innocui mirini. Gran gala da una parte, grida e atteggiamenti lascivi da un'altra. Dove cazzo è finito Ivan? C'era profumo di niente che possa minare le nostre gioie, c'era la Dea che furtiva lanciava occhiate, c'era aria di pazzia controllata. C'erano i tempi passati e i futuri anteriori. C'erano tacchi troppo alti, e profumo di fiori. Nessun monito, nessun ammonimento, nessun monile da conservare, solo tacchi alti, occhi a mandorla che non guastano mai, gente da impagliare silente, morti da tenere lontane; e c'era, scusa ancora la ripetizione, profumo di fiori. Un profumo assordante, un profumo accecante, un profumo ammaliante. Come la fine del dolore di una ferita che si cicatrizza, come il torpore materno della sua carezza; come il pensiero, sì, che le anime esistono davvero. E ancora come un fascio di luce fredda che non ti scompone, ti accompagna, ti porta in braccio perchè stai dormendo, e non ti fa sbattere la testa da nessuna parte. C'era, e mi rivolgo a chiunque abbia voglia di sentirlo, profumo intenso, ma non invasivo, di fiori. Di fiori legati insieme da un elastico, di fiori colorati o di fiori solo rossi; profumo inebriante, che si stacca sornione dal resto del mondo, che si contorce, che ti chiede l'accendino, che ti morde fugace e poi scappa via. C'era profumo di fiori, e io, non me ne vogliate, stavo lì, con la gentilezza della mia malinconia.

sabato 19 maggio 2012

La regola dell'Amico

Le mie gambe si stanno abituando alla leg press, il mio corpo ricresce sotto i colpi degli esercizi fisici e delle proteine finali; intanto dalle parti di Harborne si studia a ritmi elevatissimi cercando di recuperare il tempo perduto per chissà quali reconditi motivi. E si scattano foto accattivanti. È un mese pieno di compleanni, un altro. Io e il mio amico ci produciamo nel lavoro inutile di stilare un dizionario, mentre il Racconto prende forma con un crescendo degno di una cavalcata sulla sabbia, o di un pezzo di Mogwai che parte lento, bisbiglia, si ammazza di sudore, svertebra tutto a chitarrate, indossa un vestito da gran gala, e muore definitivo con la consapevolezza della propria completezza. È il mese del finale di stagione, e forse per questo mi sento fiacco e debole, forse per questo vado a letto alle undici, solo una volta però. Le ragazze italiane mi ricordano il loro retaggio culturale, e poi mi ricordano che il loro retaggio culturale va a fare in culo quando si tratta di sputtaneggiare a destra e a manca, o quando danno fin troppa importanza all'amico brutto innamorato che si intromette tra me e loro, muoia Sansone con tutti i Filistei. L'anello più debole della catena della dignità si fa persona umana e ha fattezze di un essere privo di midollo, di un essere che non si cura della grande brutta figura che sta facendo con se stesso. Viviamo, giochiamo a biliardo, dormiamo in letti non nostri, indossiamo le cuffie del nostro I-Phone con dentro la musica che ci piace di più, inventiamo gerghi, ci distruggiamo di biscotti al triplo cioccolato, facciamo giri del mondo comodamente seduti al tavolo diciotto; beviamo succhi di frutta più salutari che buoni. Pronti partenza via! Chè se le gambe non reggono non importa; tanto il tempo è l'unica medicina, e non costa tantissimo. L'unico problema è che non vediamo la fine di tutto ciò. Già, chi sa dirmi dove finisce, e se finisce? Forse nell'interstizio tra una moquette e un'altra, forse nel messaggio di una ragazza romana, seducente come il suo “Ti A...” venuto su questa terra da chissà quali galassie lontane; forse finirà nella capacità che ha un uomo di sessanta anni di essere stupida falena che sbatte la testa sempre e comunque su quella fonte di luce lì. Oppure finirà, inverosimilmente e magicamente, tra le stradine della Città Proibita, nei lunghi viali di Pechino, tra le sindromi della Principessa. Chissà Quando... Non è solo un momento da godere, non è solo il momento di godere, è la vita. Quella che c'era ma era latente, e non si palesava, perchè tutti si mettevano davanti e oscuravano la vista. Qualcuno picchietta su una nota altissima del pianoforte, poi c'è chi si strugge l'anima se ballo con una ragazza, se la faccio ridere di gusto, se sfioro le sue labbra con le mie, se mi faccio portare a casa sua. Gnocchi con dentro seafood, per favore. Spalmo ancora un po' di crema alle mandorle sul mio petto glabro, osservo attraverso lo specchio le mie evoluzioni muscolari. Tranquilli, non solo lo faccio ricordando a me stesso che sembro un coglione, ma poi, con un colpo di coda, accendo il laptop e guardo un film coreano, pieno di arte e filosofia. Intanto le sue mani mi cercano, si accorgono con stupore che non perdo la giovinezza neanche a colpi di scudiscio, e mi anela, come fossi una mela. Succosa. Ma è l'amico smidollato che si presenta come un esattore, e ci ricorda che l'assenza di dignità è un pozzo senza fondo. E mi dispiace, tanto per lui quanto per me. Fate vobis; io mi sto abituando al puzzo dei vostri piedi, e nonostante la leg press e il cangiante clima delle West Midlands, nonostante i vorticosi giri del mondo stando seduto al tavolo diciotto e il pezzo di Mogwai che sembra una cavalcata sulla sabbia, come il Racconto che cresce, nonostante i balli col doppio fine e gli gnocchi al seafood, mi faccio forte di un “Ti A...” che so benissimo che ha da venire. Qualcuno mi sa consigliare un'App divertente da scaricare? Bevo un bicchiere di vitamine e vi dico ciao.

venerdì 11 maggio 2012

I Due Zingari

Avevano tutto. Avevano un letto per dormire, una serie tv, un pacco di biscotti. Avevano tutto, i bicipiti e le spalle, un gergo, il dinamismo e una speciale abilità nel mettere le palle in buca. Avevano armadi, pochi, e vestiti, quasi tanti. Avevano occhiali da vista. Avevano le note al punto giusto, le travi, le favole, i martiri quotidiani, gli appuntamenti mancati, le saune del cervello, la strada piena di persone, la strada spoglia, gli alberi, i treni; avevano la libertà di salutare tutti e andare via. Avevano documenti in regola, avevano la domenica mattina; avevano diversissimi modi di vivere la domenica mattina. Avevano poesie e dizionari, amiche venute da luoghi lontani, e amiche venute da luoghi vicini. Avevano tutto, anche se mancava loro il ferro da stiro, anche se mancava loro l'asciugacapelli, anche se mancava loro... Avevano i giochi, i libri, i film, le poltrone, i sofà, la telepatia. La bistecca con sopra un uovo, le mercanzie della mente, i bambini che indicavano la strada, i bambini che indicavano le stelle. Avevano musica e colori, strati su strati di cioccolato, tatuaggi, suonatori di cetra. Avevano la luna che illuminava le finestre, avevano il sole che illuminava tutto, soprattutto le finestre. Avevano baci e abbracci, venti minuti di automobile, cinque minuti a piedi, otto di bicicletta; avevano la pioggia sotto il sole, un Egitto in cui rifugiarsi, un Pakistan da bombardare. Avevano un piano, il decimo, o il primo; avevano una cucina, la quarta da destra. Avevano la disperazione, i pugni, le birre, il valzer e la capacità di capire in anticipo i tradimenti. Avevano l'incombenza di lavare i piatti, quella di cucinare la carne, quella di dover dimenticare e quella di resistere. Dita veloci, passi felpati, luride ambientazioni, cappucci per coprirsi, pistole spianate formate da indici e pollici. Avevano risposte per tutto e grandi interrogativi; avevano fratelli lontani, cessi a pochi passi, francesine che non volevano scoprirsi. Avevano storie da raccontare, un amico a Bocca di Porto, un'amica vicino allo stadio. Avevano grandi interessi e interessi molto terreni, attrezzi e prodotti per pulire il tutto. Avevano micce e detonatori, plichi da consegnare a vecchi attori come fosse una corsa contro il tempo. Avevano voglia di ritornare al futuro, un ballo da anelare, un'idiosincrasia da qualche parte negli angoli nascosti dei loro corpi; avevano ancora strade da percorrere, e sguardi rivolti all'indietro. Avevano caratteristiche uniche e imprendibili. Avevano tutto questo, insieme a mondi lontani. E ce l'hanno, chissà per quanto tempo ancora. Avevano un Sogno, e lo stanno inseguendo. Adesso.

sabato 5 maggio 2012

I Campi Verdi

La storia è già scritta. Io e te ci conosciamo, e tu ti metti a tuo agio; ti volti, mi sorridi, ti ridesti, mi dai il tuo fianco migliore. Io faccio il simpatico, passo all'attacco facendo lo splendido, sciorino vieppiù le mie qualità, le metto sul piatto senza parsimonia. Tu sorridi con gli occhi, poi schiudi la bocca e mi mostri i tuoi bianchi denti. I tuoi riccioli cadenti, il tuo “oh cazzo, non ho fatto lo shampoo e devo essere un mostro”, le tue mani semplici, non curate, ma pulite. Io faccio il trasandato, il noncurante, il dimesso, ma tutto è calcolato, poiché, almeno per te, la sciattezza non mi appartiene. E tu sei bellissima. La storia è scolpita nella roccia, io mi accorgo di te, e con fare quasi sbadato mi sorprendo e ti dico due parole con la bocca; e te ne recito una sfilza coi miei occhi. Il tuo sguardo si posa sul mio, il mio vaga alla ricerca delle tue orecchie, del tuo top, della lunghezza delle tue ciglia; della presenza maligna di un tuo compagno. Ipotetico. Mi parli, mi continui a guardare, ti continuo a guardare, mi tendi tranelli per testarmi, mi studi, mi presenti il conto. E io, è scritto, mi sento forte, terminatore, armato di attenta bastarda indifferenza, triplo ossimoro di un germoglio che va curato con tutte i riguardi possibili. È scritto, è stampato da qualche parte, qualcuno lo ha annotato sbadatamente, ci si becca presto, con ausili virtuali, con i telefoni, con le promesse che sanno tanto di affinità elettive. Si chatta in spensieratezza, ma senza perdere di vista il terreno che ci sta sotto i piedi, senza dimenticare la missione che ognuno di noi ha di tenere testa, di mantenere il controllo. Ma è soave questo sentiero costeggiato dai fiori sul quale stiamo passeggiando. È armonioso il nostro aritmico procedere nei campi verdi e aromatici delle nostre chiacchierate, è predominante la voglia di saperci, la bramosia di distinguerci tra gli altri. Ci si becca, ci si schermisce dalle false scorrerie vicendevoli, ci si attacca con il desiderio e la consapevolezza che non ci si vuole colpire mortalmente. È un gioco, il più meraviglioso di tutti, è scritto. Poi ci incontriamo, superiamo non senza difficoltà i primi imbarazzi, chè la presenza de visu abbatte i muri ma denuda un po'. Denuda tanto, a volte. E allora dobbiamo rassicurarci, dobbiamo nutrirci della nostra stessa fiducia, e infonderla l'uno all'altra. E tu sei bellissima. È scritto, è tatuato sulla pelle di un vecchio pescatore, è limato sulla roccia più alta dal vento poderoso. Dobbiamo, entrambi prede di una magica trance, continuare, dare seguito alle nostre sensazioni, ai nostri proponimenti, alle promesse che ognuno di noi ha fatto a se stesso. Tu giochicchi con la forchetta sulla torta al cioccolato, io sorseggio grave il mio caffè, tu perseveri con l'arricciarti una ciocca sull'orecchio, io, con il mio, tiro su il tuo sguardo. Cerco di tranquillizzarti, ciò che tu vuoi io voglio. E allora ci si desta dal tavolo, si supera agevolmente l'imbarazzo minore quando sono io che pago per il nostro caffè, e ci si incammina arditi, mano nella mano, verso un futuro troppo prossimo ma anche troppo inebriante per poterlo circumnavigare con le mestizie della mente. È scritto, la storia è già stata vergata con inchiostro indelebile. Tu mi ami a tempo determinato, io ti sussurro parole passate per caso tra i meandri del mio cervelletto. Poi ci si abbandona, vinti, dalle tempeste dei mondi reali, che puntuali arrivano solo e quando non vogliamo la loro manifestazione. Ma tu, questo è scritto durevole e ineliminabile, resti sempre bellissima.