martedì 31 luglio 2012

Working Class Hero

Comincia la notte, anche se sono le otto. Comincia la notte, fredda da maniche corte, fredda da brividi di nostalgia. Il cielo che ci sovrasta ha il sapore della plastica; gli alberi che circondano la fabbrica sono scuri e paurosi. La prima sigaretta, quella della corta attesa. L'elmetto per proteggere la testa, le scarpe per non farsi male, con la punta rinforzata, i tappi di cera per le orecchie, ché dentro il rumore ti trapassa il corpo. E poi i pantaloni da lavoro, che saranno popolari, ma quanto sono fighi. Si discute, ci si altera, si ride e si scherza, la notte ha da passare, tra le lande desolate e oscure, viste così da chi è forestiero, e anche da chi ci è nato e ci è vissuto da queste parti. Il mio ruolo di osservatore prestato alla working class a volte mi impone di festeggiarmi da solo, nel tentativo più o meno riuscito di vederci qualcosa di degno in tutto ciò. La sala mensa, gli odori di caffè e linoleum, gli appositi bidoni in cui riporre i rifiuti, tutto sale vorticoso come un ticchettio che comincia battendo in sordina, poi si fa travolgente. C'è sempre qualcosa da appuntare sul taccuino da viaggio, c'è sempre qualcosa da mettere in saccoccia, esiste la possibilità che in questo angolo marginale di mondo ci sia una nota da attaccare sulla bacheca dei pensieri con una puntina da disegno. Infatti arriva lui. Non ha nome perché nessuno glielo chiede, tanto meno il sottoscritto, e allora toccherà dargliene uno di convenienza, perchè conviene eccome parlare di lui. C'è sempre qualcosa da appuntare sul cazzo di taccuino da viaggio, compresa la faccia triste e rassegnata di questo ragazzotto che chiameremo John, come un qualsiasi ragazzotto triste e rassegnato. È alto John, magro, ha la faccia scavata dalle impurità dell'esistenza, e quando si ferma a fumare una sigaretta pure lui, si stravacca per terra, schiena contro un palo, una gamba distesa l'altra piegata verso il petto, a sorreggere col ginocchio il braccio venoso la cui mano tiene la paglia che fuma. I suoi occhi azzurri non sorridono mai; mentre si ride e si scherza, mentre il gruppo fa la conta delle cose che si possono fare per superare il guaio di pensare ad un'esistenza scarna, mentre il resto della combriccola con una mano sola fa la conta delle meraviglie del creato, mentre tutto il soggettivo diventa, in questo angolo di mondo, oggettivamente drammatico, gli occhi di John non sorridono mai. Forse ha saltato due o tre passaggi, forse due anni fa ha comprato una macchina e il giorno dopo è successo qualcosa di drammatico nella sua vita; o forse ha sposato una ragazza che non ama, ci ha fatto un figlio che non lo fa dormire. Non lo fa dormire di giorno. John non sorride, non parla, è chiuso, sotto il cielo che sovrasta anche lui, e che ha il sapore della plastica, avvolto dagli alberi scuri e paurosi, pure lui. Lui che non vorrebbe stare qui, lui che di questa comunità ci fa parte per arrivare a fine mese. Lui che ha dimenticato il significato della parola gioco; John, o qualunque sia il suo nome, capitano della squadra della tristezza, gambe in spalle controvoglia, non si diverte mentre la Regina presenzia alla Cerimonia di Apertura, mentre si ride e si scherza, mentre si fa la conta striminzita delle cose belle. John non è brutto ma non fa girare le ragazze, le sue scarpe sono consumate, avrebbe il tiro in canna, ma purtroppo non è armato; se qualcuno lo chiamasse per la Rivoluzione, lui si alzerebbe a fatica e partirebbe lentamente. C'è una cappa grigia che avvolge l'esistenza da queste parti, e John ne è vittima consapevole. E forse è la sua consapevolezza che lo tiene ai margini della felicità, ben oltre la linea border line di chi non può tornare indietro, non può rimettersi a studiare, non può andare con gli amici, c'è da chiedersi quali, al pub a ubriacarsi. C'è una notte da passare qui, l'ennesima notte costeggiata da alberi scuri e paurosi, sotto un plastico cielo; c'è un break da anelare, da passare tra l'odore di caffè e linoleum della sala mensa, oppure nello spiazzo dove si può fumare, a far la conta delle cose belle della vita, a fumare distratto e pensieroso, il culo per terra, la schiena su un palo, il ginocchio a sorreggere la monotonia di un braccio venoso la cui mano tiene la sigaretta che sbuffa fuma lontano. John, la sua tristezza per niente celata, si rialza con sprezzo, osserva ingrato, torna a lavoro. Nulla gli appartiene, non l'elmetto per riparare la testa, non i tappi di cera per le orecchie, né le scarpe con le punte rinforzate; i pantaloni da lavoro fanno figo anche lui, mentre i suoi occhi lasciano cadere l'astio per una vita spesa male, mentre i suoi occhi asciutti mandano segnali di resa. “E se potesse tornare indietro, indietro lui ci tornerebbe”. Viva John, mica tanto!

martedì 24 luglio 2012

La Guerra Senza Senso

Io l'ho visto stamattina. Volevo comprare un giubbotto, stavo seduto in macchina, dietro. Volevo un giubbotto, quello lì. Con le maniche asportabili, di due colori double-face, perché ce l'hanno tutti. Lui guidava la macchina, stava al volante, e io stavo dietro, volevo solo comprare un giubbotto, e speravo che lui non si tirasse indietro all'ultimo momento. Stamattina ho visto il freno, la mano che si interponeva tra me e la mia voglia di adolescenza. Volevo solo comprare un giubbotto. E guardavo dal finestrino della macchina, e lui guidava, e lei lo affiancava, sempre. Lui guidava e io guardavo fuori dal finestrino, e speravo che non cambiasse strada, che non decidesse di far valere il suo potere, le sua potestà, il suo becero caporalato. Combattevo una guerra impari. Non volevo una guerra impari. Per la quale ero disarmato. All'idea di perdere il giubbotto, mi venivano i brividi, sentivo già l'odore dell'umiliazione. L'ho capito stamattina, l'ho visto, mentre il mio giubbotto, comprato nonostante fosse di un colore che non mi garbava, ma mai avrei detto che saremmo tornati un'altra volta, perché un'altra volta avrebbe avuto un solo significato, cioè quella di morire abortita o scacciata come un bambino deforme da un villaggio medievale, mentre il mio giubbotto sarebbe stato mio fino al mese di maggio, mentre il mio giubbotto non sarebbe mai stato perso di vista, mentre il mio giubbotto chissà dov'è finito, io stamattina, l'ho capito. E l'ho perdonato, per le sue debolezze, per il sangue che mi ci lega, per tutto quello che si è perso, per tutto quello che ancora perderà; per la sua guerra vinta quando era impari, e per la sua guerra finita quando gli ho concesso la tregua senza aspre condizioni, senza fare prigionieri, senza dettare termini. Io l'ho visto stamattina, mentre Black Francis mi cantava ad un orecchio, esattamente come allora, mentre mi accarezzavo i polpacci da quindicenne, esattamente come a quei tempi; mentre il mio cuore batteva forte, proprio come quando guardavo fuori dal finestrino, non perdevo la mia falsa fierezza, e speravo inerme che lui non cambiasse idea. E speravo inerme che lui ne fosse felice.

lunedì 16 luglio 2012

Ninna Nanna

Mi sono rotto il cazzo! E direi che la cosa risulta pure normale, se il mio interlocutore non ha mai ascoltato i Clash. Mandrie di esseri brufolosi, con una poco inconsueta inclinazione alla voglia di potere, martiri di sé stessi, ambigui spettatori della vita che si trovano, ad un certo punto, spiazzati ma armati nel considerarsi attori punto e stop, si fanno beffe inconsapevolmente delle vite altrui. E lo fanno perchè manchevoli in delicatezza. La vera Rivoluzione dovremmo farla qui, in questo campo di battaglia. L'ho detto e scritto talmente tante volte che ho assunto e definitivamente fatto mia l'idea che la cosa non mi stanca. La vita è già dura per conto suo, perchè dovremmo “dare conto a gente che preferiremmo prendere a calci in faccia?”. “Abbiamo deciso”. E chi sei, un call center? Siamo uomini quando ci conviene, quando si tratta di indossare una camicia, quando si tratta di andare in giro con andatura dinoccolata, quando sfoggiamo la cera che lucida i nostri capelli, chè il gel è passato di moda. Siamo uomini, siamo giganti, quando c'è da sovrastare il campo di battaglia che un bambino ha approntato per i suoi soldatini di plastica. Siamo perfetti, agili e scattanti quando il muro da scavalcare è alto quattordici centimetri. Poi la maschera che fa spola tra la faccia e i coglioni si rattrappisce vieppiù sotto i colpi della coscienza...ma anche quella è passata di moda. Adesso è arrivato l'atto finale, siamo realmente in guerra; sconfiggere il Male fatto di idiozie falsamente pregne di reconditi significati, di marketing da serie c, e di psicologia avariata. Dispiace ma siete condannati a morte. Una morte molto più definitiva di quella fisica. Se volete vi canto una ninna nanna. Canto per voi prima che vi addormentiate. Voglio ancora vivere circondato da cerchi di fuoco odoroso, voglio dormire su letti cosparsi di sagaci impressioni; voglio immergermi nel mare delle mie delicate trovate. Voglio costringere le vostre membra a darsi un contegno. Nessun Presidente in visita, solo la Vita, quella vera. Quella che passerà in rassegna le vostre facce intrise di rancore verso voi stessi. La vita buia di Kafka, quella fintamente agognata da Leopardi, quella cantata da Omero. La voglio, il resto è contorno, e poco importa se al contorno avete dato nomi onomatopeici che stridono con le capacità di ascoltarli. Vincere, cercare un paio di occhi che sfuggono per pudore e imbarazzo, stringere una mano, deporre ancora una volta una rosa sul selciato, tacere per dare dignità a sé stessi, ricordare qual è il vero gap, e mettere tutto in conto, ha l'acre sapore di una vendetta che arriverà troppo tardi. Voglio la ricompensa! Quest'ultima frase dimenticatela in fretta, non è indirizzata a voi. Ancora una volta energie contro le ventose che non vogliono stare attaccate ai vetri; ancora una volta sollievo nel basso di un pezzo dei Karate, ancora una volta lo sguardo lì, dove si incontrano tetto e muri. Ma continua a piacermi l'essenza del mio vivere. Io, amici miei affezionati, sono un eletto. Ma ciò non vuol dire che non mi sia rotto il cazzo!

lunedì 9 luglio 2012

L'Anno del Gatto

E adesso? Due mani sapienti toccano i tasti del piano, a sinistra un canale che pare sporco, ma mi dicono che così non è. Al mi accompagna al suono del suo “Anno del Gatto”, e allora le nuvole si fanno poesia, dolcezza e malinconia. Una di quelle malinconie che giovano all'ispirazione; una di quelle malinconie che dolcemente ti tolgono il respiro. La vita prende altre pieghe, altre direzioni, nuovi punti di vista, nuove considerazioni. Come una chitarra con le sue note alte, e ci devi mettere te stesso per fare subentrare un sax che ti porti dentro la leggiadria di cui ha bisogno, e che meriti. Verso Nord continuiamo a tenerci sott'occhio, lui adesso ha il problema della gestione dei suoi nuovi sentimenti, e io arrivo in soccorso. D'altronde, cari amici miei, è già difficile, per uno come lui, gestirne una, figuriamoci due. È sempre l'Anno del Gatto, la voce di Al si intromette con quella fastidiosa delicatezza, con quell'aria antipatica da primo della classe. Però mi ricorda che ho bisogno di quei violini, di quelle corde spagnole, e ancora di quel piano che accompagna con la consapevolezza del proprio essere indispensabile. Poi arriva la ragazza di Norimberga, le sue correnti alternate, il suo sguardo duro pronto a bordo campo, finché i suoi occhi verdi (o azzurri , “ma queste cose succedono, come vedi ho dimenticato...comunque, ciò che voglio veramente dire... i tuoi sono i più dolci che abbia mia visto”), si fermano un attimo sui miei. E mi scrutano, chissà con quali misteriosi aneliti. È ancora l'”Anno del Gatto”, ma è anche quello del Dragone, Quando sta trasvolando con pensieri imperscrutabili, e io cammino ancora costeggiando il canale. Un boomerang. La passeggiata sotto le nuvole di Inghilterra mi ricordano i miei doveri, che vogliono incappare docilmente con le mie aspirazioni; un uomo mi guarda e mi racconta di cose ultraterrene, di cose che servono alla sopravvivenza del genere umano, di cose che riempiono la pancia. E vorrei dirgli che “sì, lo so”, ma vorrei anche spiegargli che posso vivere di sola poesia, posso nutrirmi di sogni, posso trovare sostentamento con l'ausilio di roba che ti fa levitare dal terreno. E che non voglio queste catene. D'altra parte nel momento in cui ci si saluta, il più delle volte ci si sorride. Dateci un'isola, datecene una, una soltanto. E noi la popoleremo, vi scriveremo regole nuove, vi costruiremo una scuola in cui nessun bambino andrà. Al si incazza un po', mentre canta di questo amore che gli sfugge di mano, e allora io mi ritrovo ad essere solidale con lui; perché la sua donna profuma troppo, è vestita come fosse l'unica. Quanto lo capisco. Non mi curo di questo angolo di Italia che qualcuno ha costruito da queste parti ( non io di certo!), non bado al ciarpame della mente, non mi occupo del giusto accoppiamento dei colori. Figuriamoci, per me giallo e bianco stanno benissimo! Solo Al, il canale al mio fianco, le nuvole sopra, le leggerezza dei miei passi, il sax che scompone educato il dolce incedere di due sapienti mani che toccano la tastiera del piano. Sono tornato, e poco importa se non è proprio l'Anno del Gatto.