venerdì 24 febbraio 2012

Apocalypse Now

Fu quando il Mostro volle impadronirsi di me. I miei tentativi di fuggire parevano vani; io, dentro il cul de sac, intriso di adrenalina, una di quelle adrenaline che risultavano corrotte. Avevo male da qualche parte, e facevo finta di non sapere dove. Avevo male lì, ma mentivo a me stesso, asserivo volgarmente che non avevo il tempo per individuare il dolore, per circoscriverlo. E il mostro mi inseguì, con gli artigli e con due teste, con il collare luccicante, con le unghie laccate, con la pelle mutevole, con i tentacoli fieri. Io e la mia paturnia sfuocata fuggivamo via da quel Mostro insensato ed insensibile; per mari e per monti, per laghi e per sogni. E Lui continuava a pensarne una in più rispetto a me, sembrava sapesse con un anticipo maligno le mie mosse immediatamente future. Le provò tutte, il Mostro, sperimentò la vile sorpresa e l'attacco diretto, l'algido raggiro e lo scontro frontale. “Via da me” gridai, forte della mia innocenza. L'innocenza dei miei eterni diciassette anni. Ma il Mostro, con la sigaretta accesa, o con la sigaretta spenta, con i capelli colorati, con le mani affusolate, con lo spirito pieno di malvagia iniziativa, con il corpo putrefatto, con le due teste in bella mostra, lento e veloce, accattivante e povero, disperato e traditore, potente, sembrò non avere pietà per il mio stato. Voleva proprio me e ingaggiò con me una battaglia senza tempo, una guerra crudele fatta di sangue e di vendette, di vergogne e di gesti puerili, di partite a scacchi, di magie nere e di magie grigie. Mi inseguì di quattro quarti di basso, mi braccò con armi mai viste, incalzò il mio incedere a colpi di spazzola, mi pedinò furtivo mentre bevevo un Cuba Libre, e mi tallonò finchè i miei ansimi si fecero padroni di me alleandosi con Lui. Fu quando il Mostro volle arbitrariamente mettere le mani sul mio essere, fu quando scoprì che forse avrebbe tratto beneficio dalla mia dipartita, dai miei patimenti. Io fuggii ancora ed ancora, tra le frasche e le nebbie, sulle cime collinose, dentro i camini spenti, sporcandomi di nero. Ma Lui era più nero di me, e mi parve più furbo. Non vi fu latitudine o longitudine raggiungendo la quale sfuggirgli via. Il Mostro mi cercò chiedendo di me per le strade e per le vie, mostrando a tutti la mia foto, trasformandosi in assolo di chitarra, in quadro di artista, in tazza di caffè, in busta chiusa appena portata dal postino, in luce andata via. Poi di notte ricominciò l'inseguimento. Perchè è di inseguimento che si trattò; io divisi in due la mia fuga, da un lato la corsa, spossata, stremata, trafelata corsa, boccheggiante. Dall'altro la domanda, candida, chiara, schietta domanda, spontanea: perchè? Il Mostro non rispose, perchè quella era la sua arma più tagliente. E allora fuggii, anche di più se possibile: tra le desolazioni e i sollievi, scalciando e piangendo, con uno sguardo al rasoio, chiedendo perdono. Ma non al Mostro. Fu quando il Mostro volle espugnare il mio piccolo corpicino madido di zuccheri, che, battendomela e scappando, impaurito e costernato, avvilito e umiliato, offeso e vilipeso, capii la mia natura. E ne ebbi certezza quando il Mostro volle fermarsi per dormire un po'. La mia fuga si arrestò, il cuore riprese lentamente il suo normale battito, le membra riguadagnarono il ristoro meritato; intrapresi il cammino inverso, andando proprio dal Mostro dormiente. Un occhio lo buttai su di Lui, facendo attenzione che non si ridestasse da quel sonno che pareva comunque greve e profondo; l'altro si soffermò sulle meraviglie che mi erano sfuggite durante la fuga, e vidi laghi e misteri, animali volanti e lavori in corso, colori e cavalli a dondolo. E poi ancora lettere scritte a mano, chicchi d'uva, alberi sui cigli delle strade, distese di cotone disegnate col carbone, foto vecchie, feste di liberazione, bottiglie di vetro, ferite lenite da infermiere. Fu quando il Mostro smise per un attimo di inseguirmi per ricordarmi le mie debolezze che, osservandone il sonno, scrutandone il riposo, esplorandone la natura da vicino, glielo sussurrai lentamente: “Non aprire gli occhi, dormi pure tranquillo. Sto qui io a proteggerti, finchè non ti ridesterai e riprenderemo il nostro inseguimento”.

venerdì 17 febbraio 2012

Oligarchia

Facciamo che... facciamo che io e te ci scambiamo le persone, organizziamo una partita, componiamo le squadre. Facciamo che io mi prendo subito mio padre, per l'onestà, a te adesso la scelta. E se hai finito subito, aspetta, io devo forse ancora cominciare. Prendo con me Zoltan, per l'educazione; Zoltan, che difende tutti noi, per il gusto delle giuste cose. Facciamo che secondo me tu sbagli nel tuo secondo giro e io allora incalzo di brutto e prendo Andrea, per come si mette lì a cercare di capire le persone, per l'olio di gomito che ci butta dentro. Facciamo che mi prendo Christian per la signorilità, un paio di iraniani per il senso di amicizia, Buccirosso per la bravura a teatro. Prendo con me Claudia, perchè è bello avere un'amica donna, e allora prendo anche Cri, un'immensa quantità di Roberta, e tutto quel gineceo che quando si tratta di parlare lascia sempre la porta aperta. Prendo Luigi, per insegnargli che la buone educazione, a volte, è sinonimo dell'essere coglione. Prendo un paio di politicanti, che ci ricordino di non perdere l'abitudine alla veglia; un calciatore intelligente e che abbia vinto tanto, che ci racconti di quella volta a Berlino, e di come è bello vivere le soddisfazioni e di indossare della sconfitta il manto. Tu ci stai ancora pensando? Eppure hai molto più mucchio su cui sparare. Ad ogni modo, io scelgo ancora mio fratello, quello di prima, quello di ieri, quello che aveva cose da insegnarmi, e me lo tengo stretto, non si sa mai, potremmo avere bisogno di lui per una partitella in allegria. Facciamo che prendo Frank per il pugnetto che ci scambiamo la notte prima di andare a dormire, e il Candido Poeta per la poesia. Facciamo che fa pace con Robert, e allora portiamo pure lui, per una chitarra da suonare pizzicando sulle corde. Portiamo Benni per le storie notturne, e Baricco per le storie di tutto il giorno. Visto che ci siamo, prendo pure Banana per la leggerezza della sua presenza, e la Saretta che ci racconta di rane e di mondi umidi e fatati. Porto con me la mia mamma, non per altro, a tutto l'amore aggiungerebbe la pasta con le sarde, e i biscotti al cioccolato. Porto con me anche Quando, che merita di non stare sola con le sue sbarazzine follie. Facciamo che prendo La Muta, che sorda non è, e capisce tanto di musica. Prendo Omar che ha la macchina, l'Inghilterra che ha i treni, l'intera città di Cardiff che tra un po' visiterò. Prendo il Calcio Catania, visto da questa strana angolazione. Facciamo che con me viene pure uno sconosciuto, ma di quelli dall'aria comprensiva, così che gli possiamo raccontare le cose, senza necessariamente aspettarci consigli. Sei in difficoltà? Strano, hai tanto di quel lerciume da cui attingere. Pensaci pure, io intanto prendo con me Angelo per il senso di amicizia e Luca che ha sempre idee che ti cambiano la vita con levità; acchiappo al volo chi riconosce la mia bontà. Ti lascio il resto e la marmaglia, ti lascio il numero e la quantità; preferisco il martirio di una sconfitta temprante, di una vittoria sudata. Perchè ti lascio il marciume della nostra società, mentre con me viene il meglio del meglio. Porto ancora Marco che mi dice la verità con la forza della sua antipatia, Beppe che ci apre gli occhi facendoci ridere di acume, tutti i backpackers dallo sguardo sagace, e la vita di campus. Porto gli sguardi dal finestrino del treno, la chiacchierata dal barbiere, il Bambino, le ali che si spiegano tutte le volte che qualcuno suona allo Spotted Dog; facciamo che viene con noi la potenza del suono lo-fi, gli Yppie Flu, i God is an Astronaut, tutta la discografia dei Pixies, tre pezzi a scelta di Paolo Nutini, la filosofia di Niccolò Fabi. Porto con me la scena madre di Arancia Meccanica, tutte le scene di Good Fellas, il monologo meraviglia di Musica da un'altra stanza. Facciamo che con noi viene Sciù, che ci insegna la vita, l'amore e la buona creanza.

sabato 11 febbraio 2012

Conto alla Rovescia

Sta nascendo, è qui con me. Lo sento dentro, e sento pure che sarà un travagliato parto. Oppure filerà tutto liscio. È nel mio spirito, si trova rintanato da qualche parte, nei meandri delle mie atmosfere, mentre vado dal barbiere, mentre bevo un Cuba Libre, nei giubbotti e nei pantaloni; tra gli strali che scoccano da tutte le parti, frecce spedite da fogne o da profumate città proibite. Frecce che mi chiedono di essere catturate al volo, con una mano sola; dardi infuocati che mi trafiggono di notte e neanche me ne accorgo. Un piccolo blocchetto per appunti mi sta facendo da padrone, dovrei andare in farmacia per cercare una custodia alla bisogna, di quelle che si usano per i salva-vita. È per le terre, sul pavimento bagnato o sull'asfalto ghiacciato dalla temperatura sottozero, nel ricordo di un viaggio che non ho mai fatto, negli occhi azzurri di una ragazza tedesca. O nel culo di una ragazza tedesca, mentre si alza per andare a prendere l'ennesimo sidro. Nella provvisorietà dell'ennesima valigia, tra gli scaffali che contengono libri e jean's, tazze usate e medicine scadute. È dentro gli scarponi da usare quando la neve fa goal, nel momento esatto in cui le nostre mani scivolando si stanno dicendo addio, in una porta che si apre, e in un'altra che qualcuno tiene socchiusa. Loro saranno in quattro, more or less, quattro personaggi disposti a piramide, avranno vita propria, e quella vita, per adesso, sta soltanto qui. Qui nel buio e nella luce fortissima, nelle bretelle calpestate, nei fiotti di sangue finto, nel metallo arrugginito, nel termosifone ancora troppo freddo. Ma è del freddo che ho bisogno, perchè bisogna tirarlo fuori, bisogna esprimerlo, bisogna metterlo nero su bianco. Oppure bianco su nero, magari l'operazione risulta più facile. Più gradita. Quel che conta, o quel che ricorre più spesso tra i miei sogni, è che sta nascendo, amici miei diletti, pochi ma, speriamo, eletti; è sulla rampa, sul cancelletto di partenza, come uno sciatore che tra un po' scivolerà soave sulla neve dell'ultimo sogno. Magari del primo. Si alza, da un letto sfatto, da un'alcova piena di peccati, senza indossare le pantofole, scalzo, verso una bottiglia di acqua rinfrescante, verso un caffè forte ma buonissimo, in direzione di una sigaretta robusta e rigenerante. Coi capelli spettinati, con le mani sporche di colore, di tempera, rosse di ghiaccio truculento, annerite dalla grafite. Con la giusta postura, con la carne in sbattimento, con le ali raggrinzite, con il moccolo colante. Nasce, prende forma, col rollio tipico degli aerei che si preparano per prendere velocità e poi si librano in volo come stessero fermi. Avrà un titolo, un corpo, qualche trovata fintamente originale, e parlerà di amore. Di amori andati a male, scaduti come lo yogurt, come la verdura che diventa secca e amara. E verrà posato lì. Preparatevi, magari lo faccio solo io...insomma, sta nascendo. E io muoio di paura.

sabato 4 febbraio 2012

Quando The Smiths...

Come fare? In che modo? Ma poi ti perdi dentro te stesso, e allora non avrebbe importanza. Non avrebbe. Quarantuno minuti, quarantuno tentativi riusciti di intavolare una conversazione, dentro una città nuova, dentro una città anelata come non molte altre. Dentro un freddo impossibile, con due occhi da sfondare, con un laghetto che diventa oceano. I minuti da quarantuno diventano venti, quindici, un'altra foto, un altro sguardo all'I-Phone, alla mappa multimediale. Stiamo andando da qualche parte, stiamo andando nel cuore del cuore della mia adolescenza. “Conosco fin troppo bene il mio destino”- le macchine, i mattoncini rossi, i grattacieli che si stagliano alti, e che ci ricordano di quando questa città sconosciuta aveva certe prerogative e oggi ne ha altre. “Ma che differenza fa? Ogni uomo ha un segreto e qui c'è il mio, tanto vale svelarlo”. Mi astraggo dalla conversazione, mi viene da piangere, ancora mattoncini rossi, e quel verde “The Queen Is Dead” sembra quasi annunciare l'arrivo in questo angolo di mondo che per qualcuno rappresenta qualcosa, per me il sogno, e che si chiama Salford. Come spiegarlo a lei, che non era neanche nata? Come riuscire a dare un senso ai sensi di questa crisi adolescenziale senza fine; con gli occhiali grossi, con la temperatura sottozero, con i jean's sgualciti, con le lacrime di amori andati male che tornano tutte. Adesso, sempre. “Ma il Diavolo troverà lavoro per voi”, intanto cammino spedito verso il mio passato sconosciuto, soltanto immaginato. A volte vorrei fermarmi, mi sale il magone; i suoi occhi piccoli indagano su di me; su di me che sono nudo, a carne viva, mentre il freddo mi rende pallido, mentre il freddo arrossa il mio naso, mentre il freddo fa luccicare gli occhi. Mentre il freddo... Attaccato al passato, vorrei chiamare mio fratello, dirgli che sto per farcela, sto arrivando lì dove il Candido Poeta ha mosso i suoi primi passi, dove si è fatto immortalare senza tempo, dove ha provato a gridare a tutti il suo amore diverso. “Sono sorpreso, ma una donna divide”, il laghetto sembra facile da attraversare, invece diventa oceano nel quale mi perdo, dentro il quale nuoto senza avere la cognizione del primo lembo di terraferma. E invece ancora mi ritrovo a guatare quegli occhietti e mi assale la paura. La paura che lei non possa capire. Ma io so da dove vengo, so dove sto andando e soprattutto so a chi appartengo. È una lotta aperta: i miei sensi, la mia storia, le mie patrie, le mie note e le mie radici, contro l'inconsapevolezza che non ha nulla a che fare con la colpa. Bisogna andarci di fioretto, oppure bisogna andare di puro spirito. Due minuti, il tempo di capire a quale I-Phone dare conto, e l'insegna verde arriva; il cuore mi si schiude, tutti i pezzi degli Smiths mi scorrono in veloce slow-motion, e non mi curo di nient'altro. Perchè “sono il figlio e l'erede” di un Candido Poeta che, lontano dalle mie pochezze mi indicava la via. Non faccio schioccare alcuna frusta, resto lì, impalato come un coglione; in realtà sto pregando, sto meditando, resto in orazione, oppure sto solo fumando una sigaretta. Il Salford Lads Club naturalmente è chiuso, c'è solo l'insegna sotto la quale Steven, Jhonny, Andy e Mike si fecero ritrarre per il retrocopertina di The Queen is Dead, ma a me basta così. Adesso c'è, lei, e la ricerca del coraggio per affrontarla, dopo averla vista arrancare per quarantuno minuti quarantuno di passeggio nel mezzo del mezzo di una città fredda e antipaticamente soleggiata. I suoi occhietti che provano a schiudersi di più, il laghetto che diventa sempre più oceano. Non devo scusarmi, ma forse dovrei dire una parola. Invece è lei che ferma il tempo, ferma il mondo, blocca definitivamente la mia adolescenza putrefatta. “Sarebbe lo stesso per me, se fosse la mia band cinese preferita”. Che magica consolazione, che perfetta Resurrezione. Ce l'ho fatta! “E non sono felice e non sono triste”, ma solo consapevole che non sempre devo usare le parole per spiegare me stesso. L'oceano non fa più paura, e neanche questo freddo nemico che qualcosa di buono l'ha prodotto tanto tempo fa, visto che a distanza di anni ho ricordato tutto con devozione. Ma la cosa più importante è ciò che credevo di dover tralasciare, l'aver dato contezza delle mie sensazioni a chi è così lontano da me. E allora la missione che non sapevo di aver intrapreso è compiuta. Il mio personalissimo Cammino di Santiago è stato fatto; via, di ritorno da questa città un po' amara e un po' moderna, accogliente il giusto, che ti concede un tempo d'uopo di quarantuno minuti per farle capire da dove vieni e dove vorresti andare.