giovedì 13 ottobre 2011

Le Due e Cinquantuno

Il colore arancio degli interni della macchina erano morti, nel senso che non erano vivi. Cosa c'era dentro, quali meraviglie si stavano dispiegando, quali attrazioni? Erano di colore arancio, e grigi, e si sposavano bene tra loro. Quella era lì accanto a me, nuda e bellissima. Almeno così mi pareva. Discreta e disponibile a pettinare i miei pensieri, a lisciarli con benevolenza; mentre io stavo solo, solo immerso nel campo da golf che c'era nella mia testa. Quella era lì, mi guardava recitando la sua parte; io vedevo i miei sorrisi allontanarsi lenti e soavi. Le stelle trapanavano il parabrezza, e scoprivano i vestiti sul sedile posteriore, la peluria delle mie gambe nude, le sue cosce simmetriche. Adesso cammino dinoccolato e solitario per il corridoio del nuovo palazzo dell'ostello; la luce d'emergenza è bianca da ospedale, le pareti sembrano venute fuori da un film dei Cohen. Apro l'ennesima porta e vedo ancora sorprese di scale che portano da altre parti. Non è vero che non ho più nulla da dire. Ce ne ho di cose da tirare fuori. Avevamo tutto in quei momenti: l'oscurità, il futuro e la tristezza. Cosa avremmo potuto chiedere di più a quella cazzo di esistenza? Immaginavo un cortile, gli alberi, mentre le sue mutandine continuavano a stare in bilico sulla stanghetta dell'accensione dei fari. L'orologio digitale lampeggiava sempre le due e cinquantuno, fuori silenzio. Un silenzio abissale, profondo, neutrale. Talmente neutrale da far paura, perchè ci puoi mettere anni di studio, ma non te lo spiegherai mai. Dentro la bagarre, i tumulti, le bombe al napalm. Ma la mia incostanza era sana, liberatoria, forse incline al piagnisteo, ma cazzo se era giusta e verace. Quella invece dentro aveva chissà quali mostri che le suggerivano follie, e torture, e “legalo ad un palo, dopo averlo catturato con dolcezza”. Non mi fa che tenerezza, adesso, mentre salgo le scale del nuovo building, mentre incedo a passo mediocre verso il mio futuro fatto di secondi. La prima rampa è andata, e ancora mi stupisco incredulo nell'osservare i quadretti che narrano di stili e mondi lontani. “Io ti aspetto, faremo tutto insieme”, sentivo queste parole sorde e avevo ancora Lei dentro di me, che mi sussurrava dolce il modo in cui avremmo dovuto affrontare l'idea di fare a meno l'uno dell'altra, il modo in cui avremmo dovuto togliere le rotelline dalle nostre rispettive bici. Forse avevo paura di diventare adulto, ma lo stavo facendo, credevo di farlo; e ci stavo mettendo dentro tanta di quella passione, tanto di quel coraggio. Stupido! I salici selvatici si piegavano fino ad entrare in macchina, approfittando dello spiraglio che lasciavo solitamente per fare uscire il fumo della sigaretta. Io nel frattempo, pazzo, avevo un demone al mio fianco e non me ne accorgevo. Scusa mamma. Forse era il colore arancio degli interni della macchina, oppure la luce delle stelle che trapanava il parabrezza; oppure ancora...no, non poteva essere il pensiero di Lei. Lei non farebbe mai niente che mi possa nuocere. La seconda rampa è ancora più avvincente, perchè porta al piano di sopra, che è ancora un altro pezzettino di futuro. Se solo potesse vedere, quella, quanto il suo tentativo di annientarmi sia stato totalmente disatteso; se solo potesse immaginare quanta tenerezza mi mette in corpo sapere che lei morirà senza aver mai assaggiato tutto questo... Le due e cinquantuno, sembrava quasi che l'orologio digitale si sbagliasse, visto che faceva giorno, visto che il sole illuminava le mostruosità di quell'essere. Aiuto! Gridai solo per un attimo... Sto per tornare lì, giusto il tempo di abbracciare la mia mamma, e di chiederle scusa. Giusto il tempo di tornare lì, senza più gli interni color arancio, ma per vedere le catene che ho spezzato e ho lasciato lì.

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